Poco fa sono sceso in cantina per cambiare lo status di un paio di centinaia di cd zeppi di mp3, visto che ho trasferito tutto su un hd perché comunque nel cloud non c’è ancora tutto – ho gusti musicali sin troppo raffinati – declassando quella plasticaccia ormai obsoleta al rango di supporto solo in caso di attacco nucleare, che poi è il livello che precede la discarica. Ma il punto non è questo, bensì che in cantina mi è caduto l’occhio sull’angolo in fondo, laggiù dove tengo quel misero abete di plastica smontabile e tutto il necessaire per una festa che, se fossi coerente, non dovrei nemmeno festeggiare. Ma sapete com’è, io sono del partito del qualunque cosa purché funzioni, e se mia figlia non vede l’ora di allestire il presepe come se fosse un plastico per i playmobil, collaborare nel posizionamento di addobbi e palline, aspettare la notte magica per mettere una tazza di latte con i biscotti nell’attesa che un non ben definito corriere extraterrestre la intenda come ricompensa per la consegna di doni richiesti mesi prima a seguito dell’invio del regolare modulo di domanda, che male c’è, penso. Ed è proprio vero quello che state pensando: un altro anno è passato e la bimba crede ancora al Dhl celeste. Non immagina che sono i suoi genitori che nel giro di qualche minuto fanno sparire quelle facili prede alimentari per felini, che nella notte allestiscono il parco regali alle radici sintetiche dell’albero, che la mattina appena svegli recitiamo tutta la scena della sopresa senza considerare aspetti quali i cancelletti sul balcone rimasti chiusi a chiave, altrimenti potremmo essere visitati da ben altri ospiti, o l’assenza di un camino dedicato all’ingresso di personale di servizio, il tutto senza razionalizzare la situazione. A quasi nove anni forse è un record, ma non ditemi che devo preoccuparmi. Converrete con me che per abbandonare la fantascienza per il neorealismo c’è già sin troppo tempo. E questo non sarebbe nemmeno un tema di discussione così strambo se, a Natale, non mancasse ancora più di un mese. Mentre ero in cantina e osservavo la confezione rettangolare in cartone in cui l’abete trascorre il suo letargo per undici mesi e rotti, sono tornato indietro di una quarantina di settimane, quando ero sceso per riporla proprio lì al termine delle ultime festività. Il tutto dopo che, carta di credito alla mano, avevo acquistato i biglietti del traghetto per la Sardegna e prenotato il campeggio per l’estate 2013. Ecco, questo muoversi con disinvoltura sul percorso a caselle numerate che è la vita, lanci i dadi e in una mano sola torni indietro al via o fai novanta e con un balzo se già alle ferie del prossimo anno. Questo sottovalutare le proiezioni disinvolte avanti e indietro nel tempo che, tutto sommato, non è che sia poi così tanto se rapportato al prima e al dopo. Insomma, sapete dove voglio arrivare. Ma questo dato invariato, la certezza che mi è stata concessa ancora una volta una parte da protagonista in una storia di fantasia di quel portento che è mia figlia, be’, mi mette ancora in una posizione di privilegio. Ho ancora un po’ di scorta di infanzia altrui che mi fa sentire immobile ed eterno.
genitori e figli
non siamo macchine, al massimo ce le possono collegare
StandardL’Holter è quel sistema che per ventiquattr’ore sei tutto cablato dalla testa ai piedi e hai una specie di walkman attaccato alla cintura che ti registra tutto quello che fa il tuo cuoricione. Nel mentre devi segnare su un blocco che ti danno loro tutto quello che fai e le cose strane che ti succedono. Il problema è se è uno di quei giorni lì, ci siamo capiti, quelli in cui sembra accadere di tutto e non sai esattamente il tuo cardiologo cosa intendesse con evento speciale. E l’Holter l’ho fatto credo quasi un anno fa o giù di lì, ma poi ho dovuto descrivere per filo e per segno due volte in cosa consiste alla stessa persona per telefono, che poi è mia mamma.
Mi chiama una volta e mi chiede in cosa consista quell’esame lì, che poi io e mia mamma ci sentiamo esclusivamente alla sera, prima, durante o dopo la cena, e l’Holter glielo ha prescritto il medico. Va da sé che non passano tre o quattro giorni che mi telefona di nuovo con le stesse modalità e per farmi la stessa domanda. E cosa volete, posso dire di no alla mamma o ricordarle che le avevo già raccontato tutto qualche tempo prima e se è uscita di colpo fuori di melone? Perché della famiglia non è lei quella con i problemi di memoria, almeno finora, se manifesta qualche segno di cedimento come il suo ottuagenario consorte posso assicurarvi che sono guai seri. E così mi metto di buzzo buono a ripercorrere la stessa descrizione cercando di aggiungere più dettagli rispetto alla volta precedente, come a voler dimostrare a me stesso che nella spiegazione di qualche giorno prima magari avevo lesinato in particolari ed è forse per quello che la mamma ha voluto una seconda relazione più accurata.
Esaurito ampiamente l’argomento la chiamata si conclude con qualche scambio di battute a proposito di una parente che ho incontrato qualche settimana fa. Le dico che l’ho trovata serena, mi è sembrata serena, sì. Da quando ha accettato il cambiamento che le ha dato la svolta esistenziale decisiva, quelle cose che poi non sei più come prima né lo diventerai mai, è molto più serena. Questo per dire che non mi viene in mente un aggettivo che colga meglio lo scenario, non riesco a trovare sinonimi di serena appropriati, è sera è ho pensato parole tutto il giorno e ora non ne ho più a disposizione. Così sento ridere mia mamma dall’altra parte della linea, per quanto una come mia mamma possa aver voglia di ridere, e mi dice che dev’essere proprio serena la nostra parente se ho calcato così la mano per descrivere il suo stato d’animo. Ecco mamma, siamo pari. Ma questo non gliel’ho detto, mi sono tenuto tutto per oggi e per questa cosa che volevo scrivere qui, tanto lei non mi legge.
quanti minuti erano, quelli di celebrità pro capite?
StandardQuando gli hanno chiesto se se ne intende di funghi, ha contratto il viso in quell’espressione come a dire “a me me lo vieni a chiedere”, ma non gli è venuta bene perché seduto sulla poltrona del barbiere con il telo stretto intorno al collo gli risultava difficile voltarsi di lato a meno di non sembrare affetto da emiparesi. Così l’ha fatta con un po’ di sforzo usando lo specchio come guida ma non è la stessa cosa. Le persone come lui – e come me, del resto – con i lineamenti così asimmetrici, quando sono riflesse risultano l’opposto della loro natura e fanno fatica loro stessi ad esprimersi a smorfie perché perdono tutti i punti di riferimento. Tutto è agli antipodi del loro modo di controllare il corpo e così la contrattura dei muscoli del viso risulta innaturale. Per farla breve, si è come composta una maschera di parossismo apparentemente eccessiva per una notizia del genere, poi invece sin troppo contenuta nel momento in cui il pensionato che teneva banco con le sue storie di ritrovamenti soprannaturali ha dato due ditate sul suo smartcoso, così sproporzionato per le sue mani prematuramente fiaccate dall’artrosi e gli ha fatto vedere la fotografia.
Che poi la conoscete anche voi la tipologia di avventori che si può incontrare la mattina di un giorno feriale nella bottega di un parrucchiere da uomo. Anziani maschi benestanti che non hanno di meglio da fare che usare quel posto come ritrovo, di certo più economico e salutare di un bar dove bicchieri di bianco e videopoker attirano quella curiosità dilatata dall’inoperosità di chi dopo decenni di fatica si ritrova forzosamente con le mani in mano. Così eccoli qui a trattare gli argomenti tipici da maschi benestanti di mezza età tendenti alla vecchiaia, temi che virano tutti verso vino, ristoranti, racconti inerenti ristoranti e vino e, da qualche anno a questa parte, elettronica consumer. E che poi ancora l’elettronica consumer serve sempre più come supporto dei due temi tradizionali, le gite eno-gastronomiche e le vettovaglie acquistate in tali occasioni, per testimoniare l’abbondanza delle portate o una notizia bomba come quella da cui siamo partiti, che è il ritrovamento di un fungo da 11 chili e mezzo. Non ci credete nemmeno voi, dite la verità.
E quella del “porcino geneticamente modificato” è stata la battuta di risposta dell’uomo che era servito in quel momento da uno dei due soci dell’esercizio, che, prima di verificare alla fonte il miracolo compiuto, aveva dichiarato la sua provenienza. E cioè quel paese dell’appennino in cui l’aria di mare si incontra con l’aria di montagna facendo sì che i funghi, lassù, siano particolarmente buoni. Cosa che non si è mai capito se si tratti di una leggenda metropolitana, anzi, campagnola, soprattutto di questi tempi in cui le confezioni di funghi locali vengono spesso contraffatte con prodotti non autoctoni, per dirla con un giro di parole, un po’ come succede per ogni manufatto occidentale dall’89 o giù di lì.
Ma l’immagine non lasciava spazio a equivoci o bufale degne dei più popolari social network. La foto del suo ritratto con in braccio quel porcino mannaro, il mico-mostro da undici kg e rotti, alto come un esemplare di cane di mezza taglia, un ombrello largo come un trentatrè giri, retto a fatica come certi uomini tengono stretti a sé i nipoti in età prescolare, era disponibile a tutti. Così l’altro parrucchiere, quello temporaneamente a riposo, ha fatto notare al fortunato autore del ritrovamento che se avesse comunicato la notizia ai media – non ha usato proprio quest’espressione ma il concetto era quello – la sua foto sarebbe finita su tutte le prime pagine dei quotidiani locali e, sicuramente, alla tv, che di questi tempi è satura di programmi di cucina e di torbide anomalie della natura e dei comportamenti dei suoi abitanti. La preferenza va a quelle umane, ma in mancanza di meglio una devianza dal regno vegetale farebbe comunque la sua sporca figura. Ce lo immaginiamo tutti, vero, il plastico del bosco con l’iper-fungo da Vespa.
E dev’essere proprio questa la visione che in quel momento hanno avuto tutti e soprattutto lui, che ormai il fungo lo aveva affettato, impanato, in parte bollito per la sua conservazione sott’olio, ma per la maggior parte cucinato, mangiato e digerito. La fama che sfuma per non aver saputo sfruttare appieno la scoperta sensazionale, limitandosi a uno scatto sfocato con cui bullarsi con gli amici paesani nel negozio del barbiere, quando invece si poteva aspirare a qualcosa di più, addirittura il Gabibbo, chissà. Così la conversazione si è esaurita con quell’addio ai sogni di gloria e d è virata su argomenti più morbosi come i vicini di casa di un secondo pensionato che era lì per farsi tagliare i capelli, a differenza del primo. Di questo però, a differenza del caso del porcino, anzi, del porcione, ne parla già qualcuno, in paese. Una coppia di genitori con un figlio unico undicenne che un giorno rientrano dal lavoro e si trovano tutto il guardaroba tagliato a listelle di stoffa rettangolari. E quando dico tutto intendo tutto. I completi da ufficio del papà compresi quelli per le riunioni di un certo livello, roba firmata e di valore. I vestiti griffati della mamma che il dress code della multinazionale in cui si occupa di marketing le imponeva. I Levi’s 501 di entrambi che indossavano nel tempo libero e nei momenti di svago outdoor. Ma anche le felpe e le tute del ragazzo, la sua divisa da calcio. Un patrimonio in abbigliamento tagliato meticolosamente a strisciole nemmeno fosse stato passato da quelle macchinette a manovella per la pasta fatta in casa. Dopo qualche ora di indagine domestica è venuto fuori che l’autore dello scempio era stato proprio il figlio, che non ha trovato di meglio per attirare l’attenzione su di sé di papà e mamma così presi dal lavoro. Il che sembra una storia da film americano, quelli in cui poi il bambino anziché reagire così – che già è un comportamento inaudito – comprano armi al supermercato all’angolo e fanno una strage.
I due soci del negozio si sono guardati sbigottiti. L’esperto di funghi con un incrocio di tasti ha bloccato il suo smartcoso e lo ha riposto via. Un bambino problematico supera a dismisura un fungo da record e vince su ogni conversazione. E tutti avevano appurato che nemmeno di quello non vi era traccia nel Corriere. Una volta si faceva di tutto per diventare famosi, qualcosa dev’essere cambiato.
la vita a volte è proprio così bassa
StandardProvo a mettermi nei panni della nonnina che ha chiamato i Carabinieri e obiettivamente non riesco a darle torto, anche se di questi tempi il rapporto tra cittadini e divise ogni tanto ha dei momenti di ripensamento. It’s complicated, come si diceva su Facebook quando non esisteva ancora la versione in italiano. E questo perché ogni tanto – ma quando dicono che serve – il potere diventa l’apostrofo nero tra forze e dell’ordine se non addirittura la licenza poetica di vibrare manganelli sulle facce imberbi della rivolta studentesca. Qui nessuno protesta, però. Al massimo c’è un adolescente che fa lo scemo. E la nonnina fa il centodiciannove con il suo telefono salvalavita beghelli perché le sembra che il ragazzotto che sta in piedi si sia calato i pantaloni con i tasconi di fronte a due sue coetanee. Sue di lui. In pieno giorno e in un posto pubblico. Anzi, alla nonnina che è lì a far sgambettare i nipoti gemelli in questa tardiva estate di San Martino sembra che la parte anatomica lasciata scoperta sia proprio all’altezza dei visi butterati delle ragazze sedute di fronte sulla panchina. Dinanzi a tale violenza gratuita anziché chiedere aiuto a qualche presente pensa bene di rimettere tutto al giudizio delle autorità.
Che poi sembra una barzelletta. Anzi uno di quegli spot che facevano una volta i quotidiani per promuovere il peso dell’oggettività della notizia, che da vicino sembra una cosa – per esempio il punk tossico che corre per scippare la signora in pelliccia – e invece da lontano è un’altra – in realtà il punk era sì tossico ma in quel caso voleva solo spingerla fuori dalla traiettoria di un qualcosa di molto pesante che stava cadendo dritto sul suo cappellino con la piuma. Nel nostro caso il dolo non sussiste. Perché i Carabinieri hanno appurato che il ragazzo è solo un po’ sbruffone e non così esibizionista. Si tratta infatti solo di un caso di “fashion victimization” che probabilmente non vuol dire un cazzo ma sapete che mi piace inventarmi le qualità, comunque è quella cosa lì estrema. E l’imputato vestiva i pantaloni come li vestono i giovani d’oggi, poco sopra la zona pelvica, mettendo in bella mostra almeno tre quarti di biancheria intima.
Gli agenti quando arrivano si vede che stanno comunque sensibilmente dalla parte della paladina del buon gusto, e chi li biasima. Hanno accolto quel diversivo alla routine di un pomeriggio feriale di provincia senza nemmeno gli operatori circensi e il personale mobile associato da tenere sott’occhio – non siamo ancora a Natale – per trascorrere un quarto d’ora di puro impegno di quartiere. La nonnina non avrebbe nemmeno voluto scusarsi con il giovinastro per la figuraccia – che poi sono certo che le ragazzine edotte sui colori dell’underwear maschile twitteranno appena possibile la prodezza contribuendo in prima persona alla diffusione di quella fama – se non fosse che proprio mentre il giovane sta rimettendo il documento di identità nei tasconi passa proprio di lì suo padre, che è uno di quegli uomini che fanno uno dei pochi mestieri dove la prestanza fisica fa ancora la differenza, se devi spaccare e trasportare marmo.
All’uomo, che è accompagnato dal suo lavorante, cento chili abbondanti a testa, gli si dipinge sul viso segnato dall’ammazzacaffè lo shock di vedere l’adolescente incalzato dalla giustizia, e senza nemmeno accertarsi di quel che sta avvenendo gli molla un sganassone sulla guancia che il rumore fa volare via persino una coppia di gazze che erano lì nella loro bruttezza a perlustrare il parco alla ricerca di chissà che cosa. La pattuglia preferisce non intromettersi in quel momento di pedagogia di strada. Il più alto in grado è palesemente imbarazzato e fa un gesto a esprimere il concetto di fate pure, sono affari di famiglia, ubi maior minor cessat. Il ragazzo scoppia in lacrime per il dolore e per l’onta di esser stato trattato da bambino in pubblico. Il padre, messo al corrente dell’accaduto, non si ravvede per nulla sulla sua reazione preventiva, anzi rincara la dose a parole aromatizzate Nardini dicendo che se anziché bighellonare fosse a casa sui libri il figlio non rischierebbe nemmeno un equivoco come quello. Le ragazze si sono trasformate in due statue di gesso, seguono gli eventi inverosimili a bocca aperta, non se la sentono nemmeno di documentare il botta e risposta con i loro pollici da smartphone.
Ma è la nonnina a prendere in mano la situazione. Si avvicina al ragazzo e si mette a fare la nonna come fanno tutte le nonne. Un po’ l’ha presa male, in fondo senza la sua chiamata non sarebbe successo nulla, ma non lo vuole ammettere e gli fa notare che bisogno c’è di tenere i pantaloni giù così che sembra in mutande. Vedi come ci rimane male tuo papà se vai in giro conciato così. E nessuno sembra più preoccuparsi degli agenti che portano la mano verso la visiera. Non ottenendo risposta, si avviano per rientrare in caserma.
può essere che un giorno lo farò anche io
StandardLe stava dicendo che appena sentiva la parola blog lui drizzava subito le orecchie, e uno si sarebbe aspettato da lei un adattamento ironico di una celebre quanto allarmante citazione di un politico nazista come risposta, ma a quell’ora sarebbe stato difficile chiamare a raccolta le risorse necessarie per il sarcasmo. Si limitò a metterlo al corrente del fatto che quello di leggiucchiare qua e là i diari di bordo di emeriti sconosciuti era uno dei suoi passatempi preferiti, il che costituiva una vera fortuna per il popolo del web dove l’offerta è di gran lunga superiore alla domanda e i lettori sono da coccolare e fidelizzare in ogni modo, e lui non esitò un istante per farglielo notare. Così gli passò in rassegna le cose che si potevano trovare, soprattutto in quei siti monografici in cui le persone condividono il loro progetto in corso, gli citò anche un filmetto piuttosto recente, una di quelle commediole americane a lieto fine malgrado il responso dei botteghini su un blog di ricette e una aspirante net-star che le provava una ad una, ogni giorno che Dio le concedeva di vivere. Ma dato che la sintonia cinefila era piuttosto remota, rinforzò i dati per la casistica con quello di cui era certa anche se poi lui non avesse avuto né il tempo né la volontà di controllare. Coppie che raccontano il loro percorso nella ricerca della gravidanza, genitori che descrivono il difficile percorso della malattia del figlio, persone che lottano con un tumore e che ti fanno sentire che tutto il resto non è che abbia tutta questa importanza e speri sempre di trovare con una certa periodicità un nuovo post o un aggiornamento perché poi si finisce anche per preoccuparsi di tutti i casi nel mondo come se dei nostri non ne avessimo mai abbastanza. Temi che nella maggior parte dei casi sono sviluppati da autrici, da donne, perché magari c’è una maggiore sensibilità. E forse per riportare la discussione su toni meno drammatici o magari anche solo per corteggiarla, lui le suggerì di mettersi all’opera, magari con un blog più generalista e centrato comunque sulla sua personalità così eclettica. E fu questo che le fece pensare a voce alta che a lei erano successe cose fino ad allora con cui avrebbe potuto riempire almeno altre cinque o sei vite e che riviverle anche solo a parole non le sarebbe sembrato il caso. Ma non appena si rese conto della confessione personale che si stava consumando, riuscì a fare un passo indietro mettendola sulla necessità che si manifesta, a una certa età, di rivedere le priorità della vita. E che in certi momenti l’unica cosa a preoccupare gli adulti dovrebbe essere solo lo scompiglio che il decesso dei genitori può recare sulla propria esistenza, sempre che lo si voglia considerare ancora una volta un’esperienza vissuta in prima persona senza tirare in ballo la sofferenza di persone anziane che si vedono esaurire il tempo a loro disposizione, che sarebbe ancora più plausibile. Ma, in ogni caso, un blog impostato così, anche se sulla faccia di lui era chiaro che ormai stava pensando ad altro, sarebbe stato perdente in partenza.
non era previsto che dovessero essere così tanti
StandardLeggevo che in fondo, a quest’età, un po’ i suoi genitori li capiva, così concentrati su sé stessi e incattiviti dall’età avanzata come se fossero spinti da un estremo impeto di autoconservazione e di sopravvivenza e cercassero di non disperdere nulla delle proprie risorse, dandosi l’illusione di avere davanti ancora un futuro a perdita d’occhio e quindi pensando che prima o poi ogni cosa sarebbe potuta tornare utile. Perché i figli sono belli da piccoli che te li osservi fiero della tua installazione, come fa un artista di fronte alla sua opera d’arte moderna, ancora tutto sudato e con la tuta da lavoro macchiata di tempera a olio o di gesso. Poi nemmeno un paio di decenni e già ti voltano le spalle, se ne vanno per la loro strada, alcuni ti rinnegano, ci sono casi addirittura di ragazzi che accoppano i genitori per avere l’eredità e comprarsi l’iPhone 5. Ecco, queste cose non si vedono dall’ecografia o dall’amniocentesi e bisogna saperle prevenire. Ma, oggettivamente, c’era ancora scritto, poi per quanto bene tu faccia a un certo punto gli scatta qualcosa al genere umano e ti scivola dalle mani, perdi il controllo come quando nevica e hai le gomme lisce, e pensi alla fortuna che hanno le bestie che non si ricordano di nulla e di nessuno o fanno finta di aver dimenticato chi hanno dato alla luce, e nella loro brutalità ognuno ha il suo territorio di caccia a parte qualche eccezione che ti raccontano nelle favole del re leone. Noi invece li vediamo che nemmeno ci salutano e non ti dicono grazie perché è tutto anche loro e glielo abbiamo insegnato noi, a essere ingrati, criminali, terroristi o anche solo prodighi del loro tempo e manibuche con la loro vita stessa. Fino a quando per motivi biologici si riparte da capo a badare a sé, ci manca lo spazio davanti e facciamo finta di nasconderci dietro a qualcuno che non se ne accorge che era dopo di noi in questa coda al contrario dove vince chi arriva per ultimo, e chi se ne importa se nella fila a fianco ci sono i nostri figli con le loro nuove famiglie che ci guardano indignati, e nell’articolo continuava a raccontare della sua disillusione. Che poi pensi perché questo si domanda che senso abbia averne due, di famiglie. Quella che ti ha fatto e quella che ti fai tu. Una non basta e avanza?
in poco meno di centosessanta metri quadri
StandardPiaceva a tutti andare a casa di Vincenzo perché la condizione di autarchia che vigeva in quella famiglia era considerata una piacevole anomalia, un modo di vivere differente da ciò a cui si era abituati e si vedeva quotidianamente nei propri ambienti domestici. Solo lì ci si poteva rendere conto di cosa si potesse provare a essere figli in quei nuclei autosufficienti che ormai si vedevano solo nei film come “L’albero degli zoccoli”, o tra le mura di plastica dei Barbapapà o ancora nello stare appiccicati come facevano gli Ingalls, anche se ai tempi, nella prateria, c’erano ben altre complessità. E poi la casa di Vincenzo era sì un appartamento molto ampio, adatto a quella numerosa famiglia, ma si trovava nel centro di una città, al sesto piano – senza ascensore – di un ottocentesco edificio di edilizia popolare che probabilmente quando era stato costruito quella era periferia e anche abbastanza modesta.
A casa di Vincenzo il papà non era un travet da otto ore al dì dietro a una scrivania a far tornare conti per imprese a gestione famigliare. A dir la verità non si capiva bene che lavoro facesse, fatto sta che lo trovavi sempre in casa a fare il pane, o a sistemare mobili, a far ripetere la lezione alle bambine più piccole che frequentavano le elementari. Una volta però era stato visto litigare con animosità con il secondogenito, che era al liceo, non si sa bene per cosa, e a furia di spintoni il papà lo aveva messo fuori di casa e nessuno sa come era andata poi a finire. Andava a fare la scorta di carbone portandolo giù dalla soffitta, ubicata nel sottotetto, per alimentare la stufa – l’unica in tutto l’appartamento – posizionata in cucina e che costituiva l’unico elemento adatto al riscaldamento degli ambienti, oltre a svolgere la funzione di forno.
La mamma era un’ottima sarta, forse era brava a fare anche tutte le altre cose che le competevano a partire dalla preparazione della passata di pomodoro e varie conserve con cui affrontare l’inverno. Ma il pomeriggio lo trascorreva alla macchina da cucire a preparare i vestiti per tutti, adattando abiti smessi dai figli più grandi per quelli più piccoli, cucendo e rammendando quelli difettosi, ricamando tessuti ornamentali, soddisfacendo quindi l’intero fabbisogno degli abitanti di quella microsocietà. Poi interrompeva il suo lavoro per preparare la merenda per Vincenzo e i suoi amici, di là a giocare nella stanza dei divertimenti con le freccette, o con il ping pong, passatempi i cui componenti in legno principali come il bersaglio o il tavolo verde stesso erano stati costruiti dal papà che, manco a dirlo, era un eccezionale falegname.
La sorella maggiore di Vincenzo frequentava il Liceo Artistico ed era bravissima in ogni tipo di arte figurativa. Finiti i compiti, si metteva a riprodurre su fogli da disegno della dimensione di poster – quelli sì, li comprava – le copertine dei dischi che andavano per la maggiore in famiglia e che poi i suoi fratelli appendevano come manifesti sui muri delle loro camerette. Aveva ricopiato perfettamente in scala almeno tripla il ritratto di Bob Marley dell’album Uprising, ma così bene che sembrava una di quelle stampe che compravi nei negozi di articoli per fanatici della musica, solo che i dischi di Marley non è che fossero ancora così diffusi perché lui era ancora vivo e poi si ascoltavano altre cose, anche se oggi sembra che a tutti piacesse il reggae.
Ma quello che riscuoteva più ammirazione era il figlio maggiore, anche lui non si capiva bene che lavoro facesse ma solo che stava per un paio di settimane al mese all’estero. C’erano i detrattori che sostenevano fosse un marittimo qualunque, ma sembrava strano perché i marinai che conoscevamo prestavano servizio su navi commerciali e non andavano in posti per nulla attraenti, mentre lui faceva scalo in Inghilterra e in Germania. In più tornava dopo periodi non così lunghi, e ogni volta la sua collezione di cassette registrate aumentava di almeno un piano sullo scaffale della libreria in legno che gli aveva costruito suo padre su misura. E poi sembrava strano che i marinai ascoltassero roba così.
Anni dopo si è diffusa la notizia di come quella famiglia così chiusa su sé stessa, con l’accezione positiva del termine, diciamo composta da persone che tutto sommato si bastavano, sia esplosa. Tutti i fratelli sono finiti all’estero, addirittura Vincenzo è diventato uno chef di successo in Australia. E ancora i detrattori sostengono che si è trattato di un processo naturale, a furia di stare sempre in casa tra di loro si sono caricati come una molla e poi, appena possibile, si sono lanciati agli antipodi l’uno dall’altro. Io invece non la penso così, perché quando incontro i genitori e mi raccontano di Vincenzo capisco che la loro è stata tutta una strategia, l’aver fornito un modello efficace senza tempo di costruirsi il presente che poi non si guasta mai, e se al limite succede sei anche capace ad aggiustarlo da te.
non siamo al ristorante
StandardDovreste vederla la faccia di certi bimbi che quando li chiami che è pronta e si siedono a tavola e lì vedono la minestra nel piatto. In nessun altro cucciolo del genere animale gli occhi sono così dipendenti dall’apparato digerente, e l’effetto che fa quella poltiglia in varie tonalità del verde che sembra uno di quei laghetti vulcanici di montagna lì in mezzo al piatto fondo, solo un po’ più sfortunato perché non c’è il riflesso del cielo blu né di qualche vetta delle Dolomiti ma solo la delusione di non trovare nulla di solido, così poco arrendevole ai denti, dalla conformazione così incerta che sembra una spremuta di cavalletta. Questo nel brodo di verdura con i pezzettoni, ma se hai passato tutto con il minipimer il colpo di fulmine con il palato non scocca ugualmente e quella cosa che potrebbe essere anche una cioccolata calda ma del colore delle zucchine non li convince nemmeno se la ricopri con i crostini di pane perfettamente fatti a cubetti e abbrustoliti nel forno.
E la minestra che è così radicata nella storia del pensiero moderno tanto da essere l’oggetto di uno degli aut aut più comprensibili agli studenti di filosofia alle prese con Kierkegaard nella sua dicotomia insanabile con la finestra che poi non ho mai visto nessuno saltarla, tanto che ai bambini che mai li vorresti vedere volare giù il percorso di convincimento va impostato in modo graduale. Finché li reputi disponibili al dialogo inizi con le proprietà nutritive delle verdure, i motivi per cui i grandi le cucinano spesso perché fanno bene. Ed è questa banalità del bene che stenta ad essere assimilata meglio di una lasagna fumante o di una cotoletta, la stessa difficoltà con cui probabilmente si misurano i fotografi di cibo per rendere una zuppa qualsiasi così sexy da esser messa in copertina o, molto più spesso, sulla confezione di un prodotto per essere degna di scelta su uno scaffale con motivazioni diverse dalla percentuale di sconto dello stesso.
Ma il dialogo si chiude alle terza o quarta richiesta di ragionevolezza e l’adulto muove su un terreno che più gli si confà, che è quello della minaccia, dell’imposizione e del ricatto. Ed è così. Ad impugnare il cucchiaio colmo fino al bordo di brodaglia e puntarlo come una baionetta verso le bocche altrui siamo capaci tutti, basta una parola più severa ed ecco che apriti sesamo una bocca si spalanca, il contenuto si rovescia, le labbra si chiudono, le smorfie si compongono ma il peggio non è passato. Il contatto con gli organi dedicati al sapore è avvenuto. Solo che alla fine, purtroppo per noi adulti, si tratta di una vittoria di Pirro. Quanta di quella minestra resta inutilizzata sul campo, e, peggio, quanto è scesa la percentuale di fiducia dei nostri figli che non si capacitano del fatto che una figura chiave come un genitore voglia a tutti costi il loro male. E quanto cambia la percezione stessa del mondo dei grandi, pronti a negarti il dolce se non mangi il primo ma poi a scendere a compromessi dopo una blanda resistenza. Che bello, penseranno i nostri figli, si cresce e si possono mettere in atto a piacimento tecniche di estorsione, e per loro l’integrità sembrerà un ingrediente da usare secondo quantità, come il parmigiano grattato su quella roba verde che vogliono far loro passare per una tappa del percorso di crescita. Così, a fine pasto ma prima che si freddi, mi trovo spesso a raccogliere i resti di quella battaglia, e nulla mi toglie dalla testa che, per quanto buona possa essere, li fatto che la minestra poi da grandi piaccia a tutti è a malapena dimostrabile come una convenzione.
ti amo, scimmietta
StandardMettiamoci nei panni di sedicenne o giù di lì alle prese con lo strategismo sentimentale volto a raggiungere un obiettivo ben preciso, che è quello di fare breccia in qualcuna/o, il che costituisce uno dei suoi principali passatempi in quel momento della crescita. Indipendentemente dalla fase in cui si trovi, per dirla come i seguaci di Dukan, e cioè che sia in quella di attacco o in quella di crociera, di consolidamento o di stabilizzazione, il desiderio di stupire l’amata/o con un gesto eclatante è lì dentro da qualche parte che pulsa come un bisogno fisiologico di quelli più facilmente appagabili, da soli o in compagnia. Perché poi sappiamo tutti come va a finire. E cioè che la creatività scarseggia e alla fine ci si confronta con i pari e si opta per il metodo più di moda anche perché è il più a portata di mano. Facile che ci siano anche già negozi specializzati in articoli del genere o che addirittura lucchetti e bombolette di vernice spray per marcare il territorio di caccia si trovino anche sugli scaffali dell’Esselunga.
E mettiamoci anche nei panni di un padre che un giorno si sporge al balcone di casa magari per dare la prima boccata della prima Benson & Hedges dopo il caffè, e che si trova a dover leggere quel messaggio di amore scritto a grandi lettere proprio sull’asfalto di fronte all’ingresso della sua villetta a schiera, la cui categorizzazione architettonica non lascia dubbi sulla pertinenza di tutto ciò che si trova nei pressi del portone. I bidoni nominali della raccolta differenziata. La cassetta con tanto di targhetta ove concentrare il materiale promozionale che poi resta lì per settimane, ben oltre la validità delle offerte pubblicate. E le frasi di passione, i destinatari delle quali è facile individuare nel proprio nucleo famigliare, andando per esclusione. Così quel padre lì, che a questo punto della narrazione avrà catturato tutta la vostra simpatia, anche perché, diciamocelo, se siete più o meno miei coetanei vestire i panni di un sedicenne mette male e non tanto per la taglia quanto per il dubbio gusto dei panni stessi da indossare e che magari siete proprio voi a comprare ai vostri figli quando là fuori c’è tutto un universo di abiti normali che non sembrano tute da ginnastica o Trudy di peluche da mettere ai piedi.
Dicevo, quel padre lì, inghiottendo una tirata di tabacco inaspettatamente più amara, spinto dal duplice sbigottimento di 1 – veder la propria abitazione additata a bersaglio di romantici writer e novelli Cirano imbevuti di letteratura degna di essere seppellita ben più che tre metri sotto la discarica 2 – realizzare il pericolo in cui si trova la propria figlia, prematuramente nelle mire di un deficiente che non trova di meglio che mettere alla berlina l’oggetto dei suoi desideri nella speranza che l’oggetto stesso possa apprezzare il beau geste e cadere nelle trame della seduzione fai-da-te. Ecco, vestiamo invece i panni di quel papà che inizierà l’ennesima lunghissima giornata di lavoro focalizzando la propria attenzione sul significato di una frase che nessuno penserebbe mai di dover leggere in onore della propria, di figlia.
E la dedica in questione questa volta raggiunge i punti più infimi dell’imbarazzo. Come cazzo ti viene in mente di poter essere apprezzato con una frase come il titolo di questo post. Ti amo, scimmietta. E a dirla tutta, l’originale è senza virgola e si trova non molto distante da casa mia, nel tragitto che compio ogni giorno recandomi al lavoro. Stanotte riflettevo su questo gioco delle parti e immaginavo di alzarmi, armarmi di una bomboletta di vernice e di tracciare il segno mancante per migliorare così almeno la lettura di quei versi. E non invidio quel papà quando dovrà affrontare la questione con sua figlia. Non certo per il fatto in sé che la ragazza abbia una storia con qualcuno. Nemmeno che questo qualcuno la ritenga degna di qualunque gesto, uno scarabocchio compreso. Ricordo una mia compagna di liceo che si era trovata su un muro del cortile una scritta molto più spinta, relativa ad alcune pratiche intime, difficili da immaginare eseguite da chi fino a qualche anno prima aiutavi a costruire scenari per il gioco con i lego.
Ma perché scimmietta? Scimmietta sarà tua madre, razza di esemplare maschile di aye aye che ti puoi ritenere fortunato che una persona di livello come la mia bambina ti abbia in qualche modo ventilato l’idea che ci possa essere qualche speranza di rivolgerle la parola. Ecco, capitasse a me, a mia figlia anzi al suo pretendente parlerei in questi termini. A lei direi invece che un ragazzo che ti chiama scimmietta e te lo scrive in un punto dove lo possono leggere cani e porci, per insistere con la metafora zoologica, è un cretino. La creatività rubata ai best seller per adolescenti, poi, è un plagio dei sentimenti. Cara scimmietta, chiunque tu sia. Sono certo che tu possa aspirare a qualcosa di meglio, di più originale o, per lo meno, di più discreto.
prove tecniche di preadolescenza
StandardQuando tua figlia, che è ancora una bambina, trascorre una domenica via con alcune compagne di classe, anche se accompagnate dai genitori di una di esse. Esce la mattina presto con zaino e scarponcini da trekking per raccogliere castagne, resta fuori a pranzo e non rientra prima di sera. Ecco, se sei ancora alle prime armi con questo tipo di distanze puoi fare finta di essere il papà di una ragazza più grande e prepararti alle grandi assenze, quelle si misurano su spazi più ampi, proporzionati alle età e alle esperienze, persone una volta strette tra loro e ora raggiungibili solo con un numero di telefono che nessuno comporrà mai, attese che si consumano via via con sempre maggiore assuefazione nelle stagioni irrimediabilmente inoltrate. Poi con quel mal di stomaco che ti prende per le vertigini di dover aspettare un tempo indefinito, al tramonto è meglio rientrare in sé e rientrare tutti a casa, evitare questo tipo giochi di ruolo che già la vita è fitta di simulazioni. Siamo ancora giovani, altri sono ancora piccoli, siamo ancora tutti legati e reciprocamente necessari.