aznalubma

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Be’, cosa c’è da guardare? Non parlo per me bensì a nome di un’intera categoria che è quella delle persone con i lineamenti asimmetrici. Una moltitudine. Figli di gente che non è mai stata sottoposta al test delle macchie di Rorschach o come si chiama, che basta spruzzare d’inchiostro un foglio e piegarlo a metà per vedere che succede. Comunque a quelli che a seconda di come si mettono hanno una faccia diversa, piace enormemente osservare il proprio riflesso, non tanto per vanità quanto per curiosità e per studiare tutti i particolari che prende il viso a seconda di come lo osservi.

Abbiamo così imparato che alla base c’è il grande inganno dell’immagine riprodotta. Voi vi guardate allo specchio ma non vedete voi stessi come siete, piuttosto vi vedete al contrario. E se siete uguali da una parte e dall’altra non ve ne accorgete. Noi invece riconosciamo subito dov’è il trucco, così sappiamo ormai per esperienza che non siamo noi quelli lì, non è così che ci vedono gli altri, ma occorre usare uno specchio e riflettere il riflesso del primo. Ora non è che lo facciamo tutti i giorni, ma qualche eccesso di narcisismo ci scappa nelle grandi occasioni. Il primo appuntamento con una su cui abbiamo grandi progetti. Il colloquio della vita. Un nuovo taglio di capelli. Le riprese del video del nostro primo singolo. E spesso la differenza tra le due proiezioni è completamente differente, questo dipende dal livello di disomogeneità.

Poi è successo che a furia di guardarci e rimirarci da una parte e dall’altra abbiamo dimenticato qual è il senso della nostra vita, o per lo meno da che parte dobbiamo voltarci per trovare  le cose. Perché, per esempio, in foto veniamo giusti o opposti? Ci vediamo come ci vediamo noi o come ci vede il prossimo? Per questo vi esorto a testare il modo in cui vi scorgete da qualunque parte con un banale stratagemma. Per esempio se passate di fronte alla vetrine di un negozio di elettrodomestici che per attirare gli allocchi ha piazzato una telecamera che vi riprende in strada. Oppure se avete una videochiamata con Skype. Prendete una scritta e portatela in evidenza. Se la leggete giusta, il gioco è fatto. Il vostro interlocutore vi vede per il verso giusto. Al contrario – ed è il caso di Skype – vi conviene mettere in atto uno di quei comandi di Photoshop che consentono il flip orizzontale dell’immagine, se proprio non vi sopportate messi differentemente da come siete.

Perché solo l’asimmetria di lineamenti disorienta, fa smarrire il posto nel mondo delle persone, fa perdere la percezione dello spazio intorno. Tanto che poi alla fine diventa una sorta di fissazione, quella di osservarsi sempre. Io per esempio non perdo occasione per guardarmi, ma ho scoperto perché. Quando risulto al contrario di come sono in realtà sono identico a mio padre. Mio padre ora è anziano e quando lo vedo è come vedere me tra quarant’anni e rotti. Quando mi scorgo riflesso in un modo o nell’altro comincio a studiare gli stadi della metamorfosi che mi sta portando a essere come lui. I capelli grigi, le borse sotto gli occhi, le imperfezioni sulla pelle del viso. Ieri mattina ho partecipato a una telepresence, che per chi non lo sapesse è una videoconferenza in alta risoluzione, un sistema di comunicazione attraverso il quale vedi le altre persone in schermi grandi e ti sembra che siano lì con te anche se poi non ci sono. La fedeltà delle immagini trasmesse è impressionante. L’audio anche, se non fosse che lavorare in un ambiente ad alta densità femminile riduce la positività di questo tipo di esperienze a causa dei tacchi delle calzature di moda e dei pavimenti flottanti che non sono stati probabilmente pensati per ambienti ad alta densità femminile. L’unico vantaggio è che se i passi sono ritmici il rumore ricorda quello della grancassa, quindi ci si può divertire a scomporre il ritmo alternando battute dispari e pari e suonandoci sopra con strumenti improvvisati come penne o le proprie mani stesse.

Ma, tornando alla telepresence di ieri mattina, oltre a vedere i propri interlocutori nello schermo compare un rettangolino in cui vedi te stesso e i partecipanti da questa parte. Io non riuscivo a capire se era la mia immagine riflessa o quella doppiamente riflessa, ovvero quella giusta. E durante la riunione virtuale di lavoro mi veniva da guardarmi, da fare delle smorfie, da sollevare le sopracciglia e corrugare la fronte. Alzavo una mano e poi l’altra, facevo finta di voltarmi solo per vedere quale lato della mia faccia venisse ripreso. Portavo un dito verso la bocca, poi mi grattavo la testa sollevando l’altro braccio. Ma so che ieri mattina, ripreso in quella telepresence modernissima, ho visto mio padre. L’ho visto di mezza età, coi capelli un po’ grigi e un po’ neri, più giovane di come lo conosco adesso. Lo ho osservato mentre partecipava a quella videoconferenza con i manager di una delle nostre aziende clienti dall’altra parte dello schermo. Era lui, sono più che sicuro. L’ho riconosciuto sia perché aveva i tratti che ricordo in qualunque posizione si mettesse, e sia perché sembrava inadeguato in quel contesto, soprattutto ora che è anziano e che, per certi versi, sembra sempre più me.

prova a lanciare i dadi, qualcosa succederà

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Nessuno ha mai capito quali fossero le regole del gioco. La confezione era accogliente, nel senso che era così grande che faceva venir voglia di abitarci dentro e accompagnarsi alle pedine, che poi erano tra i più noti abitanti di Paperopoli. Il nome stesso, Mondo Papero, rappresentava l’idealizzazione di una realtà parallela in miniatura, quei luoghi minuscoli in cui i bambini si rifugiano perché di dimensioni meno dispersive rispetto alle case degli adulti. Ma il fatto di aver smarrito le istruzioni di quel regalo a nemmeno una settimana di distanza da Natale ne aveva interrotto la magia. Un codice delle meraviglie in potenza perché impossibile da decifrare, un pianeta apparentemente deserto in cui non era possibile percepire la forma in cui la vita si potesse manifestare, e il tutto a causa di un manuale di poche pagine gettato chissà dove per errore, ancora prima che qualcuno lo potesse leggere e assimilare. La funzione ludica di quell’ultimo scampolo di festività prima della ripresa della scuola era così unicamente svolta da una di quelle valigette in plastica bicolore, arancio e panna, che raccoglieva una serie di giochi piuttosto classici. Una mini-roulette con micro-fiches incluse, i bastoncini dello shangai, due mazzi di carte da gioco, il salto della pulce, forse anche il gioco dell’oca. Ma non era facile inventarsi un passatempo in solitudine con quel materiale pensato per gruppi di più persone, mentre con l’altro ero certo che, conoscendone le regole, sarei riuscito anche a inventarmi avversari immaginari con i quali trascorrere quei lunghi pomeriggi in bianco e nero. Così mi ero ritrovato alla mattina dell’Epifania, il cui rito indefinito, comparato alla madre di tutte le feste, ne metteva in evidenza i limiti, una domenica all’ennesima potenza e una sorta di festa di consolazione che assumeva tratti quasi pagani. Erano già diffuse le calze prêt-à-porter e riempite da qualche impianto industriale di dolciumi di seconda scelta. Monete di cioccolato, caramelle di dubbia provenienza, scarti di torrone impossibili da mordere, il tutto corredato da un paio di gadget da uovo di Pasqua. La serie di Mondo Papero e dei Giochi Riuniti si completò così con un portachiavi a semaforo e una lanterna cinese in miniatura, trovati in fondo alla confezione che avevo rinvenuto appesa al camino, lo stesso che era stato murato per via dei topi che da lì entravano in casa, e comunque in città nessuno acquistava più la legna per accendere il fuoco. E quell’anno poi la pausa natalizia si concluse con una gita pomeridiana al Santuario, una piccola frazione sull’appennino a pochi chilometri dal paese, che percorremmo in treno dato che non possedevamo l’automobile. La stazione era in alto mentre la chiesa che dava il nome al piccolo borgo era in valle, quindi la parte più impegnativa – la salita – era riservata al termine della visita. Io camminavo alternando nelle mani il portachiavi e la lanterna cinese, chiedendomi perché il freddo non fosse sufficiente a far scendere la neve e dare un senso almeno all’inverno.

bianco che più bianco non si può

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Quest’anno ce l’abbiamo su un po’ con la maestra di inglese, che non è la stessa dell’anno scorso e se avete figli alle elementari purtroppo il turn over didattico a cui sono sottoposti converrete con me che non costituisce più il motivo principale per cui stare in pena, perché tanto va così e bisogna farsene una ragione. Cambiare gli insegnanti ogni classe è un dato di fatto, da cui la nuova preoccupazione maggiore che è la speranza che venga mantenuta una continuità e un livello omogeneo di qualità dell’insegnamento. Poi ci abitueremo anche a dare per scontato che non è così, quindi avremo di che angosciarci solo sperando che non crolli nulla in testa ai bimbi durante le lezioni, che non si apra la faglia di Sant’Andrea sotto la scuola, che non sbarchino gli extraterrestri nell’intervallo e così via. La maestra di inglese invece non ci sembra un granché perché, a differenza di quella che era di ruolo in terza, non dà compiti a casa e lezioni da studiare. Così ci è venuto il dubbio che i bambini non stiano imparando nulla di più di quel poco che era già stato fatto fino a qui, e qualche conferma l’abbiamo avuta chiedendo a nostra figlia se si ricorda le regole grammaticali, le parole e i verbi imparati. E per certi versi, i feedback sono state discontinui.

Poi è successo che, per la recita di Natale, le quarte – che condividono la stessa maestra – hanno imparato il canto “Happy Day”, eseguito live in occasione della festa-recita fatta prima dell’interruzione per le festività. E quanto intendo “Happy Day” ovviamente non mi riferisco alla sigla dell’omonimo telefilm (che poi è Happy Days) con Ralph Malph e la sua maglietta con su il nome e cognome stampato davanti e dietro, bensì al celebre inno alla gioia nella moderna natività, quel coro gospel un po’ hippy che tutti siamo abituati a sentire negli spot commerciali e in programmi trash come Buona Domenica cantato in playback da figuranti scosciate. Uno di quei brani di cui non conosco le parole e che da sempre canto con un inglese inventato alla Adriano Celentano. Per questo mentre mia figlia lo canticchiava in casa mi chiedevo perché proseguisse la strofa con “when Jesus washed”. E pensando alla maestra poco proattiva di cui sopra, subito mia moglie ed io ci siamo fatti una grossa risata. Cosa lava Gesù, le abbiamo detto, la macchina? No perché io ero convinto dicesse “when Jesus won”, quando Gesù ha vinto contro il male e bla bla bla. Mia figlia invece ci ha subito corretto, dicendo che Gesù lava i peccati. Ed è vero, diamine, la canzone dice proprio così. Ma il punto è che più cresce, mia figlia, e più comincia ad aver ragione su tutto, la sua mente fresca ed entusiasta ha già soverchiato più volte quella dei genitori, arrugginita dalle routine e dalla presunzione. Gesù lava i peccati, e forse la nuova maestra non è così male, anche se non dà i compiti a casa.

minori e maggiori di

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Cari genitori, questo post è per ricordarvi che quando decidete di partecipare a una qualsiasi iniziativa dedicata ai bambini ci sono alcune regole fondamentali che è importante osservare. E non mi riferisco a cose banali come spegnere il cellulare prima che vi parta la zumba che avete come suoneria o evitare di chiacchierare con gli altri papà e mamme durante lo spettacolo. La prima è controllare nelle informazioni a corredo dell’esperienza che siete in procinto di far trascorrere ai vostri figli l’età per la quale tale rappresentazione, concerto, laboratorio, lettura o film che sia, è stato pensato. La seconda è sincerarsi che l’età del vostro bambino o bambina sia compresa nel range di cui sopra, il che potrebbe sembrare una ripetizione della prima norma e invece, purtroppo, sappiamo tutti che non è così scontato. Perché il genitore di oggi ha raramente la percezione della effettiva maturità intellettuale ed emotiva dei propri figli, di conseguenza che uno spettacolo che va da sei a dieci anni, così sta scritto sul depliant, sia comunque adatto alla propria creatura che ne ha quattro ma è già così avanti, sa già leggere e scrivere un alfabeto tutto suo. Già. Poi sono gli stessi bambini che si piazzano sotto gli attori o i musicisti, toccano tutto, iniziano a spaccare la minchia agli altri che invece gli anni li hanno il giusto, per quell’occasione. Senza contare quelli che portano i figli piccolissimi che poi piangono o sono da cambiare, scorrazzano su e giù per la sala e la colpa è dei genitori che il mondo è una ludoteca gratuita o da scroccare, non riescono a contenerli e gli lasciano fare tutto perché sono più avanti, sanno già leggere e comunque se il contenuto è difficile gli fa comunque bene.

Un’altra buona norma da rispettare è quella di lasciare i posti davanti ai piccoli, qualora la sala sia provvista di sedie o poltrone nella classica disposizione a platea. Perché capisco sia piacevole accompagnare il pargolo nella comprensione della piece rappresentata, supportarlo in caso di sete, fame, pipì e pupù, o semplicemente godersi la sua vicinanza almeno un giorno alla settimana che fa sempre bene. Però poi i nanerottoli dietro non vedono più, specie se siete papà grandi e grossi. Non è un bell’esempio per i vostri figli. Che poi sono spesso i papà che durante i weekend approfittano delle iniziative organizzate per far trascorrere qualche ora senza la tv ai loro figli, nei pomeriggi allestiti alla perfezione dalle mamme durante la settimana apposta per poter dedicare un po’ di tempo a sé stesse e prendendo tre piccioni con una fava. Il bambino si diverte e tiene la mente occupata, loro possono impiegare il pomeriggio portando a termine quello che gli è stato impossibile in settimana, i papà possono sonnecchiare almeno un’ora in santa pace, al buio e al tepore di una sala teatro accogliente, stando attenti a non russare e a non farsi sorprendere da nessuno nel gesto inconfondibile della testa che cade addormentata sul petto. Perché se c’è lo schienale alto è finita, la testa va all’indietro e ci si sveglia solo con gli applausi alla fine.

guarda come mi diverto

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Dev’essere una cosa che ce l’hai dentro e che non si impara. Nasci con la cattiveria e avrai un futuro radioso in cui tutti ti rispettano. Nasci con questo gene sopito e niente, proprio non se ne esce. Il lato remissivo di un sistema complesso come quello famigliare, tanto per dare un esempio, eh, fa da catalizzatore dell’arroganza altrui, per non parlare del mondo là fuori che se ti scoprono che sei uno che non si arrabbia mai sono cazzi. La funzione principale, laddove il ruolo di ricevitore di angherie è istituzionalizzato – per esempio se sei l’unico figlio che gioca a fare la persona comprensiva – è quella di parare gli strali che tutti vorrebbero mandare a tutti ma nessuno ne è capace, quindi te ne stai lì dritto come un galletto di metallo con una corona di  punti cardinali a fare da bersaglio. Ammiro per esempio quelli che hanno i canini molto aguzzi che sembrano usciti da un film sui vampiri, e non sto parlando in senso metaforico. Ci sono davvero persone con dentature così pronunciate. Forse è un segno che quello lo devi lasciare stare lì dove sta, si tratta di uno sempre all’attacco, sempre pronto. Io ho già due impianti ma si tratta di molari e premolari, un altro paio non me lo posso permettere.

e sei protagonista

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Si fa presto a fare i genitori alternativi con i figli degli altri. Vi sarà capitato di sentire quelli i cui bambini schifano la Nutella, almeno a casa con mamma e papà, perché poi ci pensano i nonni e i genitori degli amici e loro stessi alle feste, mentre a merenda soddisfano gli istinti vegan-sciochimici dei fanatici padroni di casa sgranocchiando carote e finocchi crudi. Ah guarda, ti senti dire, a Pierino non gli piacciono i dolci. Guardi giù a cercare la conferma dagli occhi di Pierino – un nome assolutamente inventato, mi sembra ovvio – e Pierino è pronto a ripetere la lezione a memoria e a fornirti le battute imparate dal copione che deve ripetere dopo cena, davanti al focolare perché la tv non ce l’hanno. Ma poi ecco che alla prima tentazione del più bieco del food entertainment in commercio i pierini si scatenano con un consumo bulimico di sofficini e teneroni, e ti chiedono pure il bis e il ter di ovetti e pinguini e fette la latte. Mia figlia, tipico esempio di rampolla della più standard delle culture radical chic, ha in odio la Coca Cola e tutte le bevande con le bolle. Una vera compagna no global in miniatura, che gioca con le Barbie ma solo per emulazione del modello dominante. E a dirla tutta, non abbiamo fatto nulla per convincerla, semplicemente non le piacciono i liquidi gassati. Questo è un vantaggio perché ci ha permesso di stroncare alla nascita una delle tante cause di obesità infantile, ma anche perché la ha resa refrattaria a una delle più spinte operazioni commerciali natalizie fin dai tempi di Carosello. Gli spot che legano il Natale alla bevanda che in quanto a rutti provocati è seconda solo alla birra sono da sempre tra i più suggestivi in tempi di festività a consumo, come quelle che ci trasportano all’anno successivo, fine del mondo permettendo. Vi ricordate, vero, quelle melodie rassicuranti che iniziano con parole tipo “vorrei cantare insieme a voi”. Oggi, all’ingresso di un Carrefour Planet, un nome che la dice lunga sulle dimensioni del centro commerciale che lo contiene, c’era un tir della Coca Cola tutto rosso e tutto illuminato, uno di quei mostri che immagini sulle strade americane mentre insegue senza sosta automobilisti destinati a soccombere con la vita al primo rifornimento. C’era un gazebo e qualche animatore che a stento metteva insieme sillabe con le quali attirare il pubblico a entrare e ricevere in omaggio una lattina. Lo sapete che quando c’è da mangiare e bere gratis gli italiani non si tirano indietro, ed ecco perché poi vedevi tutti quanti, giovani e anziani e bambini vagare tra i prodotti dei negozi in franchising e del supermercato sorseggiando, malgrado il freddo preso fuori, la bevanda più famosa al mondo. Il tutto mentre commessi e operatori si sfidavano a versi, non quelli tipici della digestione provocata dalle bolle, ma quelli altrettanto grezzi della canzone di uno dei più noti cantanti italiani. Coca cosa?

nessuno mai riuscirà a farmelo entrare in testa

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Avevo letto non ricordo dove che può succedere che te la prendi perché ci sono cose che credi non possano mai accadere come andare su tutte le furie con i tuoi genitori, per esempio. Ma quando sono molto anziani e magari si sentono così schiacciati con il muro che prima o poi crollerà e dopo boh e quindi uno dice che sarebbe bello non perder tempo e godersi quelle che magari sono le ultime occasioni. Invece il tempo non solo non ti lascia più spazio, ti mette all’angolo si dice, e poi subentrano tutti quei fattori come la scarsa lucidità e il ridurre il raggio dei propri interessi a una poltrona in cui i vecchi trascorrono la maggior parte della loro vita, eccezione fatta per quei rari esempi di cuore grande e di valore da eroe all’altezza di un film americano di Clint Eastwood, prima che votasse Romney, e avete capito a che pellicola mi riferisco. Questo fa pensare che non è giusto perché i genitori quando sei bambino ti devono spiegare tutto come a un bambino, quando sei adulto come loro devono continuare a tenere viva l’attenzione e stare al tuo passo. E la rabbia deriva dall’appurare che ci sono quelli che non ne hanno proprio voglia, e magari sono i tuoi. Avevo letto insomma del poter essere ancora figli quando si è già genitori e figli non lo si è più. Non mi ricordo dove, anzi forse me lo sono inventato.

adulti da almeno quattro generazioni

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Federico ha un fratello di trentasei anni. Non ci sarebbe nulla di strano in un’affermazione di questo tipo, se Federico non fosse un compagno di classe di mia figlia ed entrambi di anni ne hanno quasi nove. Poi so chi è suo papà, è di poco più giovane di me per cui è da scartare anche solo l’ipotesi che una volta sposato abbia adottato un ragazzo di sei o sette anni in meno di lui. Perché se così fosse, correrei a farmi adottare da qualche magnate del petrolio o da un miliardario prossimo a tirare le cuoia, in modo da godermi l’eredità per i miei secondi quarant’anni. Ma tutto questo per dire che quando ti sembra che i tuoi figli siano già così cresciuti, ti spiazzano con uscite del genere che ti fanno capire che di strada ne devono fare ancora tanta.

Questo non mi ha impedito – già che eravamo a cena lei ed io da soli e sembrava particolarmente propensa al dialogo – di riportare la conversazione su binari meno ionescani e maggiormente contestualizzati agli argomenti più caldi del momento, giusto per tornare sul tema. Che cosa avrà chiesto Federico a Babbo Natale, tanto per cominciare. Mi interessano di più le sue richieste di quelle del presunto fratello trentaseienne, che posso immaginare che tipo di desideri possa esprimere visto che il padre ha già regalato a Federico un iPhone dopo che lui si è concesso il modello nuovo, quello che costa un occhio della testa. Ma i dubbi sulla statura morale degli adulti nascono anche se ti capita di ascoltare le conversazioni in cui tra genitori ci si svelano trucchi come quello di darsi da fare all’alba dei giorni di festa con l’aspirapolvere a palla solo per impedire che il proprio figlio prolunghi la sua permanenza nel letto, a dormire fino a tardi.

Perché è vero che c’è una bella differenza tra lo svegliarsi alle 6:30 del mattino e uscire nel freddo per recarsi a scuola o al lavoro piuttosto che rispettare gli stessi orari ma per svolgere attività più soddisfacenti. Un hobby, una passione, uno sport. Ciò non toglie che venire a conoscenza di strategie a conferma di una dietrologia tendente all’ossessione manda in vacca tutto un percorso di costruzione di attendibilità e autorevolezza basato proprio sullo spessore etico. Tanto vale spalancare porte e finestre, aprire l’aria viziata dei figli viziati al gelo e ai gas di scarico nel senso di emissioni vere, quelle delle auto, e imporre un regime da caserma? Con che faccia vi presenterete la prossima volta in cui chiederete loro di seguirvi come esempio?

Del resto gli episodi in cui la credibilità dei vertici famigliari viene messa a dura sono all’ordine del giorno e vanno oltre gli adolescenti che trovano confezioni di preservativi nel cassetto del comodino di papà. Padri che broccolano sui social network ignari del resto del mondo che li mette alla berlina sfruttando quel panopticon virtuale il cui pannello di gestione della privacy è sconosciuto ai più. Madri che si conciano che è meglio lasciar perdere. I pargoli che oggi smanettano coi più evoluti dispositivi hi-tech senza nessun filtro sui contenuti sono gli stessi che qualche decennio fa giocavano a strip poker con le amiche nelle capanne costruite sugli alberi. Quindi stiamo calmi che lo spettacolo che offriamo non è certo dei migliori.

Ebbro di una divagazione così tossica che già mi sento la febbre, ecco un altro appiglio per tornare nel mondo delle fiabe. Papo, mi chiede la piccola ora, ma Babbo Natale come fa ad avere quattro virgola cinque miliardi di chiavi per aprire tutte le porte del mondo? Cara, le rispondo, vuoi che uno che riesce a consegnare quattro virgola cinque miliardi di pacchi in una notte non abbia una chiave universale in grado di aprire qualunque serratura? Però ricordati, aggiunge lei, ricordati che Livio è musulmano, da lui non va Babbo Natale ma una specie di suo aiutante.

minuto per minuto

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Guarda, da questa parte sembra di essere in una città straniera. Parigi, per esempio. E solo perché a noi italiani non piace che ci mettano in vetrina a mangiare e bere, non amiamo essere osservati quando siamo a tu per tu con la nostra sostanza preferita, il cibo, anzi seconda solo al denaro contante da passare di mano in mano. Così questo bar che sembra un bistrot perché ha i tavolini proprio in faccia ai passanti lo noti perché c’è qualcuno che si lascia osservare mentre sorseggia un caffé, un uomo accompagnato da due amiche, che hanno preso rispettivamente un cappuccino chiaro e un marocchino con la panna sopra. Che il barista non glielo voleva fare perché già nel marocchino ci sono abbastanza ingredienti che lo allontanano dalla sua natura, ma poi ha ceduto. Sapete quello che si dice sull’autorità del cliente quando si tratta di commercio. In tempo di crisi, poi.

Comunque i tre sono due mamme e un papà e hanno appena lasciato le rispettive figlie, amiche legatissime perché compagne di classe in quarta B, dopo averle accompagnate a una specie di corso di cucina in cui potranno cimentarsi divertendosi nella preparazione di un plumcake, una cialda salata e dei biscotti al cioccolato. Si tratta di una delle tante iniziative che fanno di Milano un luogo unico, da questo punto di vista. Nel senso che per una volta la fregola di dover sempre avere le mani occupate ha un suo perché, e ha l’obiettivo di far trascorrere in modo intelligente e creativo uno dei tanti finesettimana che quando ti svegli il sabato mattina e li vedì così grigi oltre le tende, l’ultima cosa che vorresti fare è proprio quella di uscire. Con il rischio di vedersi ciondolare i figli tutto il giorno per casa.

Invece basta informarsi un po’, c’è Internet ma ci sono anche i quotidiani, è un’attività a cui ci si può anche dedicare qualche minuto durante la settimana in modo da non dover arrivare al weekend e dover improvvisare qualcosa che poi riesce sempre male. Certo, i bambini devono imparare anche ad annoiarsi. Ma insomma, se cerchiamo di far fruttare il tempo libero con attività anche destrutturate ma in grado di liberare la mente, sono dei vostri. Quindi funziona così: un genitore resta a casa o fa quel che deve fare, l’altro si accorda con altri papà e mamme in modo da razionalizzare anche i trasporti, e poi via. E non è detto che si tratti di iniziative costose. Questa volta qualcosina i tre hanno sborsato, ma ne valeva la pena. Le ragazze sono impegnate per un paio d’ore, e i tre genitori prima di separarsi fanno quattro chiacchiere proprio seduti al quel tavolino in cui nessuno vuole mai accomodarsi per non farsi notare dalla gente che non aspetta altro di spiare chi beve o mangia qualcosa lì, davanti a tutti.

Ma se si sposta lo sguardo da questa a quell’altra parte, di fronte al – chiamiamolo – bistrot, lì c’è un palazzo di cinque piani piuttosto modesto. Anzi, proprio bruttarello, forse un contrappasso al fatto che qualche decennio prima lì sorgeva una di quelle corti che uno si immagina trasferendosi a Milano di andare a vivere in un posto così, ma qui si ragiona la contrario e tutti mirano all’edilizia moderna. Questo palazzo in realtà è semi-moderno, costruito con i colori tristi dell’edilizia popolare negli anni del boom. Ora ogni balcone, pur affacciandosi a pochi metri da una via principale, ospita un condizionatore e una parabola televisiva. Su uno di quei balconi, che saranno tre metri per due a esagerare, i tre seduti al bar notano due fratelli, avranno undici e dieci anni, che giocano a pallone. Sono le quattro di un sabato pomeriggio, non fa nemmeno tanto freddo, e quei due ragazzini si scartano e si tirano la palla cercando di farsi gol l’uno alle spalle dell’altro sul balcone. Che sarà pure divertente, ma non si capisce il perché debbano farlo lì e non al parco che è a due passi.

I due, che pur avversari giocano entrambi in casa, anzi per pochi centimetri fuori casa, non passano inosservati ai tre avventori del bar in vetrina. Una delle due mamme commenta che lei, piuttosto, quando proprio non c’è nulla da fare, i suoi figli li prende tutti e li porta a vedere partire e atterrare gli aeroplani. Il papà, che ha già in mente di offrire le consumazioni a entrambe, sta per dire qualcosa sul senso estetico di quel quadretto. I bambini lasciati a sé stessi, l’imbrunire che sancirà la fine dei tempi regolamentari di quell’incontro, il fatto che le loro figlie, che hanno lasciato avvolte in grembiuli colorati, sono proprio fortunate. Poi però il maggiore dei due fratelli manca un controllo di testa e il supertele finisce in strada. D’istinto il papà si alza per uscire fuori e recuperarlo, ma le sue amiche equivocano quel gesto come un via libera, ciascuno per la sua strada. Lui allora si precipita alla cassa per pagare, ormai aveva deciso, quattro euro e rotti, e quando escono in strada, tutti e tre insieme, del pallone non c’è più traccia. Fine.

amalgamare bene gli ingredienti con il calore delle proprie paure

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Insegnate ai vostri bambini a pastrugnare la materia prima, ma prima anche nel senso di prima che ne abbiano schifo di toccarla allo stato informe e crescano schizzinosi. Una conseguenza della nostra attitudine a non sporcarci le mani che passiamo a loro come tutto, del resto. Dall’educazione dello stare a tavola, alla ricchezza del vocabolario fino a cose più rarefatte come l’equilibrio sulla trave o la coscienza civica, quella che ci fa essere in regola con i nostri doveri all’interno della società e ci consente poi di tollerare piccole malefatte come eccezioni quotidiane. I nostri figli allo stato brado mettono le mani dappertutto e siamo noi, di riflesso e basandoci sulle nostre impressioni, a influenzare loro su cosa è piacevole e cosa no. Avete presente, vero? Quando utilizziamo la scusa del non sporcarti i vestiti puliti mettiamo fine alla possibilità di dover risolvere qualcosa di cui non saremmo in grado, o che davvero ci repelle e pensiamo che sia oggettivamente così. Che si traduce nel creare talvolta duplicati dei genitori di fronte a questioni irrisolvibili che magari, se lasciati a sé, i bambini se la cavano alla grande. L’avere a che fare con gli ingredienti puri di un torta durante un corso di cucina per i più piccoli ecco che diventa un ricco spunto per metafore molto più complesse tanto che stiamo lì (e questa prima persona plurale la utilizzo solo per farmi un po’ di compagnia nella solitudine di questo racconto) dicevo stiamo lì sul chi vive perché avendo dimenticato come si plasmano gli elementi per dare vita a un miscuglio e poi a una creatura assemblata, il trovarsi di fronte a componenti informi può metterci in crisi. E la cosa che temiamo di più è il cattivo esempio che in questi casi si dà ai bambini. Bisogna fare di tutto affinché loro non crescano con i nostri blocchi psicologici e che la sensazione tattile con materiali cotti e serviti come la carta, la plastica e il truciolato mdf costituiscano l’unica esperienza raccontabile con l’indefinito.

Che poi non è così brutta come la si dipinge e, a pensarci bene, anche noi adulti poi alla fine non ce la caviamo male. Magari uno pensa che nella vita pulire i neonati e cambiare pannolini sia un procedimento barbaro con il quale non si cimenterà mai. E invece eccoci qui, al terzo o quarto incidente di percorso siamo diventati tutti nurse impeccabili. Certo, magari anche con metodi poco ortodossi, ma comunque efficaci. Oppure per chi non è cresciuto in campagna rimuovere bestie a sangue freddo con il proprio, di sangue freddo, da posti in cui non dovrebbero soggiornare, per esempio cavallette o cimici. Così piccole che non dovrebbero far paura, ma così ripugnanti nell’aspetto che ci sembrano giganti irriducibili. Ebbene no. Alla prima occorrenza si prendono e si allontanano anche quelli. Ma anche cose meno cruente come aprire una lattina di cibo per gatti alle sei della mattina quando siamo cresciuti a inalare effluvi di caffè e focaccia appena sfornata perché ai lavori sporchi ci pensava qualcun altro. Ecco, alla fine si fa anche quello, tra le cose che si pensa che non siano alla nostra portata. Per esempio, quanti di noi si trovano a disagio figurandosi di accudire all’igiene di persone anziane di grado di parentela molto vicino a noi e non più autosufficienti. Ora, non dico domani né il giorno dopo, ma può essere che un dì saremo messi alla prova anche in questo. E chissà, abituarsi a mescolare farina uova e non so cos’altro a mani nude a nove anni magari almeno non ti fa venire in mente, poi da grande, questo genere di cose a un corso di cucina.