Be’, cosa c’è da guardare? Non parlo per me bensì a nome di un’intera categoria che è quella delle persone con i lineamenti asimmetrici. Una moltitudine. Figli di gente che non è mai stata sottoposta al test delle macchie di Rorschach o come si chiama, che basta spruzzare d’inchiostro un foglio e piegarlo a metà per vedere che succede. Comunque a quelli che a seconda di come si mettono hanno una faccia diversa, piace enormemente osservare il proprio riflesso, non tanto per vanità quanto per curiosità e per studiare tutti i particolari che prende il viso a seconda di come lo osservi.
Abbiamo così imparato che alla base c’è il grande inganno dell’immagine riprodotta. Voi vi guardate allo specchio ma non vedete voi stessi come siete, piuttosto vi vedete al contrario. E se siete uguali da una parte e dall’altra non ve ne accorgete. Noi invece riconosciamo subito dov’è il trucco, così sappiamo ormai per esperienza che non siamo noi quelli lì, non è così che ci vedono gli altri, ma occorre usare uno specchio e riflettere il riflesso del primo. Ora non è che lo facciamo tutti i giorni, ma qualche eccesso di narcisismo ci scappa nelle grandi occasioni. Il primo appuntamento con una su cui abbiamo grandi progetti. Il colloquio della vita. Un nuovo taglio di capelli. Le riprese del video del nostro primo singolo. E spesso la differenza tra le due proiezioni è completamente differente, questo dipende dal livello di disomogeneità.
Poi è successo che a furia di guardarci e rimirarci da una parte e dall’altra abbiamo dimenticato qual è il senso della nostra vita, o per lo meno da che parte dobbiamo voltarci per trovare le cose. Perché, per esempio, in foto veniamo giusti o opposti? Ci vediamo come ci vediamo noi o come ci vede il prossimo? Per questo vi esorto a testare il modo in cui vi scorgete da qualunque parte con un banale stratagemma. Per esempio se passate di fronte alla vetrine di un negozio di elettrodomestici che per attirare gli allocchi ha piazzato una telecamera che vi riprende in strada. Oppure se avete una videochiamata con Skype. Prendete una scritta e portatela in evidenza. Se la leggete giusta, il gioco è fatto. Il vostro interlocutore vi vede per il verso giusto. Al contrario – ed è il caso di Skype – vi conviene mettere in atto uno di quei comandi di Photoshop che consentono il flip orizzontale dell’immagine, se proprio non vi sopportate messi differentemente da come siete.
Perché solo l’asimmetria di lineamenti disorienta, fa smarrire il posto nel mondo delle persone, fa perdere la percezione dello spazio intorno. Tanto che poi alla fine diventa una sorta di fissazione, quella di osservarsi sempre. Io per esempio non perdo occasione per guardarmi, ma ho scoperto perché. Quando risulto al contrario di come sono in realtà sono identico a mio padre. Mio padre ora è anziano e quando lo vedo è come vedere me tra quarant’anni e rotti. Quando mi scorgo riflesso in un modo o nell’altro comincio a studiare gli stadi della metamorfosi che mi sta portando a essere come lui. I capelli grigi, le borse sotto gli occhi, le imperfezioni sulla pelle del viso. Ieri mattina ho partecipato a una telepresence, che per chi non lo sapesse è una videoconferenza in alta risoluzione, un sistema di comunicazione attraverso il quale vedi le altre persone in schermi grandi e ti sembra che siano lì con te anche se poi non ci sono. La fedeltà delle immagini trasmesse è impressionante. L’audio anche, se non fosse che lavorare in un ambiente ad alta densità femminile riduce la positività di questo tipo di esperienze a causa dei tacchi delle calzature di moda e dei pavimenti flottanti che non sono stati probabilmente pensati per ambienti ad alta densità femminile. L’unico vantaggio è che se i passi sono ritmici il rumore ricorda quello della grancassa, quindi ci si può divertire a scomporre il ritmo alternando battute dispari e pari e suonandoci sopra con strumenti improvvisati come penne o le proprie mani stesse.
Ma, tornando alla telepresence di ieri mattina, oltre a vedere i propri interlocutori nello schermo compare un rettangolino in cui vedi te stesso e i partecipanti da questa parte. Io non riuscivo a capire se era la mia immagine riflessa o quella doppiamente riflessa, ovvero quella giusta. E durante la riunione virtuale di lavoro mi veniva da guardarmi, da fare delle smorfie, da sollevare le sopracciglia e corrugare la fronte. Alzavo una mano e poi l’altra, facevo finta di voltarmi solo per vedere quale lato della mia faccia venisse ripreso. Portavo un dito verso la bocca, poi mi grattavo la testa sollevando l’altro braccio. Ma so che ieri mattina, ripreso in quella telepresence modernissima, ho visto mio padre. L’ho visto di mezza età, coi capelli un po’ grigi e un po’ neri, più giovane di come lo conosco adesso. Lo ho osservato mentre partecipava a quella videoconferenza con i manager di una delle nostre aziende clienti dall’altra parte dello schermo. Era lui, sono più che sicuro. L’ho riconosciuto sia perché aveva i tratti che ricordo in qualunque posizione si mettesse, e sia perché sembrava inadeguato in quel contesto, soprattutto ora che è anziano e che, per certi versi, sembra sempre più me.