sezioni di un attimo

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Quando incrocio uno con la barba bianca e con abbigliamento poco coordinato, diciamo così, mi viene in mente mio papà quando mi diceva che si sentiva come il protagonista del video di “Nuvole rapide” dei Subsonica – musica italiana che era di moda a fine secolo scorso – il vecchietto che corre con un paio di cuffie che saranno di qualità ma poco adatte allo sport tanto quanto gli indumenti con cui hanno vestito quel tizio nel video. Quando ero piccola mi chiedeva sempre di andare con lui, anche in bici perché ora capisco che si trattava solo di una scusa per stare insieme e io non l’ho mai seguito perché non ne avevo voglia e poi mi chiedevo perché facesse tutta quella fatica solo per correre. Poi una volta, ero già molto più grande, mi aveva fatto leggere un racconto di uno dei suoi scrittori preferiti, una storia di una specie di detective che doveva stare alle calcagna di un tizio e lo tallonava in lungo e in largo per Brooklyn ma non capiva perché l’uomo facesse tutti quei percorsi casuali. Poi invece si era accorto, tracciando l’itinerario su una pianta della città, che si componevano delle lettere e questa cosa mi ha fatto credere che magari anche papà volesse darci degli indizi di qualcosa o lanciare dei messaggi, e quando gliel’ho detto si è messo a ridere perché lui fa sempre da vent’anni lo stesso percorso e, se fosse così, avrebbe già perforato la carta a furia di calcare la stessa linea come quel modo che mi aveva insegnato per tagliare i disegni con la punta della biro, ripassando più volte la stessa linea e i contorni sul foglio. Mi diceva che lui da piccolo giocava così da solo, faceva le mappe dell’isola del tesoro e le scritte da appendere in cameretta, ma io preferivo cose più divertenti. E invece poi la corsa, che a me sembrava noiosa come fare tragitti in bici a vuoto solo per vedere la città da un altro punto di vista come faceva lui, dopo l’ho provata e ho capito cosa intendeva con quell’elenco di motivi per cui mi diceva sempre quanto gli piacesse. Il fatto che fosse gratis, la possibilità di avere un po’ di tempo per ascoltare musica in santa pace, fare sport senza esaltati che mettono in mostra i muscoli o si arrabbiano se sbagli un passaggio o ti fischiano se non giochi bene, e soprattutto che non si vince, non si perde e non si pareggia mai.

una direzione, quella sbagliata

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Non so da quale canale sia entrato, fatto sta che da qualche settimana uno spettro si aggira per casa mia, attardandosi nella cameretta di mia figlia, e si chiama One Direction. Lo so, non me ne parlate che già ho i miei motivi per inorridire. Non a livelli di idolatria da adolescente, a nove anni per fortuna si tratta di un comportamento annoverabile ancora tra un misto tra emulazione delle più grandi e reale entusiasmo teen, comunque per farvi capire oggi mi parlava persino del fatto che non so quando ci sarà il loro concerto dal vivo e ha chiesto di essere accompagnata. Tsk. Ho appena acquistato i biglietti dei The National per tutta la famiglia, se vuole sentire musica dal vivo la strada è questa. Comunque nel nostro consueto appuntamento prima di addormentarci con un paio di video a sua scelta da ascoltare insieme su youtube, mia figlia ha richiesto un pezzo della boyband inglese. Dalle prime note c’era qualcosa di famigliare. Il riff di chitarra, il cantato. E alla seconda strofa la rivelazione. Così le ho fatto sentire l’originale per farle comprendere la linea che unisce la musica della mia generazione con la sua, ma non sono riuscito a convincerla. Ditemi voi se una come Blondie può essere seconda ai One Direction, e infatti non metto nemmeno il loro video per farvi fare il paragone. Cercatevelo da soli, sempre che vi interessi.

ripararsi dalle intemperie

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Il luogo comune delle mezze stagioni ormai è un dato di fatto, è innegabile, quindi dovremmo tutti impegnarci a rimuovere questa patina di pour parler da chi esprime considerazioni su ciò e, anzi, riconoscere la profondità e l’autorevolezza di chi lo sostiene. Oltre al coraggio di impostare una conversazione sul tema dei repentini cambiamenti climatici dal freddo al caldo e viceversa, oggi che tutti fanno finta che non ne possono più di quel genere di battute tipo qui era tutta campagna eccetera perché sotto sotto ridiamo, siamo attratti dall’infantilismo e una prova tangibile è stato il successo di una canzoncina del menga come quella di Tricarico e della sua maestra – vi ricordate? – solo perché il testo conteneva una parolaccia. Ma se effettivamente ci siamo giocati primavera e autunno e relative sfumature, il danno maggiore consiste, secondo i più, nell’aver reso inutile una cospicua porzione del nostro guardaroba che, a dirla tutta, era la preferita di molti. Me per esempio. I capi di abbigliamento di mezza stagione sono quelli più comodi perché né troppo pesanti e né troppo leggeri. Sono quelli meno vincolanti negli abbinamenti, stanno su tutto, consentono molteplici combinazioni. Posso portare l’esempio delle giacche di pelle, quelle che mia nonna additava come l’uniforme da debosciati perché piuttosto equivoche. Io ne avevo più di una, un tempo nei negozi di roba usata te le tiravano dietro. Peccato che questi, come altri capi tipo i giubbotti di velluto, le casacche militari, i cappottini di lana, sono diventati ormai merce superflua che occupa spazi utili all’economia familiare, da destinare per esempio all’abbigliamento dei figli dismesso da altri e ricevuto in omaggio provvisorio per una catena infinita di ricicli sotto il profilo dell’economia domestica, prima di una coscienza ecologica. Sì, capitano quei due o tre giorni in cui ci è concesso di indossarli, in cui occorre incrociare le condizioni atmosferiche con l’occasione. Per esempio non ci si veste da debosciati per andare in ufficio, soprattutto se si vira verso i cinquanta. Allo stesso modo non è  possibile conciarsi così con la famiglia, insomma bisogna darsi un contegno. Poi ecco che si presenta la situazione perfetta ma nel frattempo è arrivato un caldo boia e a mettersi una giacca di pelle ridono i polli e i figli di Apelle che giocano a palla. Quindi nulla, si aspetta la successiva mezza stagione che ancora non non ti sei convinto che non ci sono più, come te lo devo far capire, lo dice persino la saggezza popolare. Per non parlare dell’impermeabile. Io non lo possiedo ma una volta, verso i vent’anni, ne avevo uno bellissimo e grigio che indossavo quando minacciava pioggia ed era perfetto da marzo a fine aprile. Due mesi buoni con il trench che nemmeno nei film americani anni ’50, ci mancava giusto il borsalino. Ora mi sembra che la moda maschile non lo contempli più, ma forse perché non c’è più tempo per l’impermeabile, passi dal piumino che è impermeabilizzato alla giacca leggera e se piove amen. Ne ha però uno bellissimo mia figlia, beige e molto di classe, lei poi è alta e le sta benissimo. Anzi, sembra molto più grande, direi troppo. La osservo qualche secondo prima di uscire di casa per andare a scuola, vestita con il trench, e penso che non solo non ci sono più le stagioni di mezzo ma probabilmente nemmeno le età.

dei padri, dei figli, e dello spirito del weekend

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Primo: disfarsi dei panni professionali e mettersi comodi. Il papà lavora come un mulo tutta la settimana. Il venerdì sera, giusto prima di entrare nella doccia che è come la camera di pressurizzazione a un passo dalla vita normale, osserva con rammarico il colore del colletto della seconda camicia fatta fuori in cinque giorni a trasudare stress. A lavorare a Milano e tornare nell’hinterland ogni sera si è soggetti a quella specie di fotosintesi – passatemi il termine – nel senso che si respira la merda che c’è nell’aria del centro, con l’accezione propria e allegorica, e la si restituisce all’ambiente in forma di schifezza corporea. Il colletto la recepisce perché a contatto con una zona poco nobile, meglio di altre ma lì dietro dove non ti vede nessuno tendi a far uscire il peggio di te.

Secondo: il sabato mattina è casual perché si porta fuori la prole ché la mamma si prende un po’ di respiro con i mestieri. Sai che respiro. Il papà vede – probabilmente per la prima volta nella settimana che volge al termine – da vicino il suo discendente e in quelle poche ore si deve dimostrare un valente educatore, un pratico genitore, un compagno di giochi, un amico fidato, un surrogato di animatore, un allenatore di pattini – volley – ciclismo – ginnastica artistica o calcio a seconda del sesso. Così lo sconforto lo spinge verso primo spiazzo grigioverde – cemento con piantumazione pianificata – a disposizione.

Terzo: i padri devono per forza approfittare del primo sole di primavera per indossare i jeans scoloriti di fabbrica con sneakers d’imitazione, sotto a giubbe sportive con le quali non sono più a loro agio e a malapena contengono i chili prominenti. Il loro ruolo è quello di spingere altalene e giostre con maggior forza di quello che le madri riescono a fare nei giorni feriali, fino a quando trovano altri papà di figli unici con i quali fumare una sigaretta e scambiare qualche impressione mentre i figli hanno fatto amicizia. Ma le parole sono svuotate di carattere, come se quelle d’ordinanza da usare in ufficio fossero finite in lavatrice con il resto del bucato a cui le rispettive mogli si stanno dedicando a casa e ora indossassero i verbi del disimpegno e quelli che si lasciano in cantina come le scarpe che non vanno più di moda ma comunque ti spiace darle ai poveri perché le hai messe poco e sembrano nuove. Cose di riserva, ecco, che le metti in campo quando non hai nulla da perdere o non ti vede nessuno. Altri su suggerimento delle neo-mamme si lanciano spingendo carrozzine e passeggini come meri badanti dei loro pargoli, che abbagliati dalla luce inusuale per quell’ora in cui di norma sono nella semioscurità delle loro scuole per l’infanzia alla fine si addormentano cullati dalla mano incerta dei papà dietro, che a differenza di quelli che restano nei cortili sfoggiano il meglio del vestito della festa, per non far sfigurare il bambino davanti e che nessuno possa avere un’obiezione sullo stile da persona matura e responsabile. Li vedi chinati giù dalla loro altezza per guardare negli occhi i figli, abbottonargli il paltò che fa caldo ma non si sa mai, ammalarsi dev’essere un attimo per queste creature indifese e sconosciute. Le stesse che torneranno a sorridere il lunedì successivo sui desktop dei pc, pronte ad essere messe in secondo piano dagli applicativi di routine.

Quarto: ci sono quelli che poi andiamo a teatro solo tu e io, nella penombra difficile da sostenere desti fino agli applausi finali. Anche il cinema è a rischio, ve lo dico qualora pensiate che i cartoni e i film per i più piccoli siano in realtà prodotti per adulti camuffati da cartoon per ovvi motivi di strategie di marketing. Alcuni si, altri spesso vengono sopravvalutati, con i trailer che addirittura ne danno una visione poco fedele alla realtà. Ci sono poi i laboratori pomeridiani organizzati presso i musei, mostre o iniziative culturali, alle quali però è bene prenotarsi con lauto anticipo. Lì, fateci caso, si trovano per la maggior parte figli unici soprattutto in giornate di sole, perché le famiglie con due o più bambini sono tutti al parco a giocare insieme ai loro fratelli e al laboratorio vacci tu che noi, in quattro o più, siamo autosufficienti. In tre bisogna inventarsi qualcosa di continuo, per questo si va ai laboratori. Milano ne è piena e l’obiettivo è sempre quello di far socializzare il bimbo che altrimenti starebbe a casa a guardare la tele.

Quinto: eppure alla fine sono molti i padri che riescono a recuperare, in quei ritagli di vita. Certo, ad aver pochi spazi poi ai figli sembra tutto speciale e prezioso, in alcuni casi l’abbondanza genera il calo di valore anche se io non ci credo, nei sentimenti più dai e meglio è, spero siate d’accordo. Io ho avuto la fortuna di trascorrere molto tempo con mia figlia, ci siamo concessi momenti in cui è stato bello anche stare insieme ma fare cose diverse, non voglio passare come l’eroe dei piccini perché vi confesso di aver attraversato anche io momenti in cui avrei volentieri abdicato dal ruolo di re dell’intrattenimento. Ieri c’era il sole e così, dopo un giro in bici, ci siamo fermati al parco perché c’erano un paio di amiche della pallavolo pronte a giocare a un’evoluzione del nascondino che non saprei spiegarvi, nemmeno io ho capito le regole. Avevo il mio libro e avevo con me anche il suo ed è stata una buona idea perché terminata la partita si è seduta vicino a me, io leggevo e lei pure. Pensavo di essere troppo distante, ognuno perso nella propria storia stampata, così le ho messo il braccio intorno alle spalle. Ma lei ormai è grande e ho visto che si è sentita in imbarazzo, c’era un sacco di gente e non voleva passare per una che ancora ha bisogno del contatto fisico con i genitori. Ma per staccarsi mi ha sorriso e mi ha detto di essere troppo sudata, stando appiccicati mi si sarebbe macchiata la giacca.

la conquista della posizione eretta

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Lo sapete, vero, che quando vostra figlia avrà setto otto o nove anni sarà già il tempo dei patteggiamenti e delle contrattazioni per fare questa o quella cosa, visitare questo o quel posto, decidere quale sia la più opportuna lista delle priorità? Questo non significa che non riuscirete a imporvi o che sarà necessario per forza di cose esercitare il potere genitoriale o sfoderare le armi ricattatorie più opportune, magari non è il caso vostro e di fronte a esigenze banali come portare a termine una commissione urgente farà le spallucce o alzerà gli occhi al cielo dichiarando la sua netta preferenza per rimanere incollata al libro che la sta incantando ma poi si convincerà senza nemmeno il bisogno del rinforzino ludico o del gelato a tutti i costi. Dinamiche che dipendono da quanto siete attendibili e autoritativi e da come avete abituato i vostri pargoli.

Per esempio noi facciamo una fatica bestia perché fondamentalmente siamo stati troppo permissivi nel conferire il potere di mediazione, se poi vi capitano caratterini determinati magari in un contesto di figlio unico ecco, se siete ancora in tempo il mio suggerimento è di non lesinare in fermezza e in irreversibilità. Se una cosa va fatta, quella è e non ci sono cazzi. Con mia figlia si fa una fatica enorme nel persuaderla a mettere il naso fuori di casa nel fine settimana, capisco che qui intorno non sia Colle Val D’Elsa ma qualcosina da vedere o fare la si trova, e ogni volta finisce che metto su la voce grossa e riusciamo a portarla fuori ma con il broncio.

C’è anche un motto che è quello famoso della proporzionalità diretta tra le dimensioni dei figli e dei problemi congiunti. I tempi della prima infanzia in cui i bambini sono poco più che cuccioli che prepari e vesti e li porti dove vuoi finiscono che manco te ne accorgi, quando si riescono a prendere per mano mamma da una parte e papà dall’altra e loro in mezzo che uno, due e tre e oplà fanno il salto in avanti. A ogni ora a spasso e alle nove del mattino al parco giochi con il primo sole, quando non c’è ancora nessuno a quello dei più piccoli con gli scivoli che ti metti in fondo ad aspettarli perché non si sa mai e le spinte sull’altalena infinite con la complicazione della storia da raccontare se non ci sono coetanei in giro con cui interagire. Che poi io speravo che fosse così proprio per stare soli io e lei perché era il nostro tempo, e stare con gli altri sarebbe venuta prima o poi l’occasione. Non che adesso sia meno coinvolgente, però è molto più difficile e comunque si arriva un po’ più vecchi, anche se poco, un po’ più stanchi, e questo dipende dal lavoro e dalla forma fisica. Di certo non riesco più a tenerla sulle spalle come facevo un tempo, oramai è una ragazzina e la mia schiena non lo accetterebbe più anche se l’amore con cui lo farei giustificherebbe il dispendio di endorfine a tutela dello sforzo compiuto. Il guaio è che ci viene naturale spiegare tutto, motivare il perché dobbiamo andare in tal posto e lei non può certo stare da sola in casa o andare altrove, anche perché poi per noi è sempre bello fare tutto tutti insieme.

D’altronde c’era da immaginarselo che sarebbe continuata così la storia, che quel complemento della volontà genitoriale si sarebbe evoluto in un essere di grado superiore, con desideri ed esigenze proprie. Resta la reminiscenza di quei quadri imperfetti di allora, due adulti e un pezzo in composizione con tutta la sua modalità di comunicazione tutto sommato facile da interpretare malgrado il linguaggio primitivo e non ancora compiuto, nel silenzio delle stagioni come questa quando non si sono ancora manifestate con certezza ma si vuole dimostrare lo stesso che c’è un ciclo, che la primavera è la natura che fiorisce, che c’è la vita che aspetta dietro quelle nuvole da qualche parte anche se non si direbbe.

se c’era una speranza streamingzita

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Praticamente è come se ve lo stessi raccontando in diretta, più in diretta di un live tweeting.  Negli ultimi dieci minuti sono stato lavato da un’auto che incurante della pozzanghera a cui mi trovavo vicino è transitata a tutta velocità poco prima di rientrare a casa, ho sbattuto la testa contro la maniglia della porta dello sgabuzzino mentre mi toglievo le scarpe inzaccherate di fango e pioggia, ho assistito sul tg3 al fallimento di Pier Luigi Bersani, forse del PD stesso e temo anche dell’Italia intera, ho calpestato con le pantofole il vomito del gatto, inzaccherandole quasi più delle scarpe descritte sopra. Poi mi ha chiamato mia figlia che sta ascoltando la musica chiusa in camera come fanno le pre-pre-adolescenti come lei, ha messo al suo stereo “Sonde” dei Subsonica per ripetere assieme a me quel giochino che facevamo mentre la sentivamo con il lettore mp3 sul treno, con due cuffie e uno sdoppiatore, andando al mare un paio di estati fa, mimando il verso della chitarra con la bocca come se fosse una specie di miagolio. Malgrado sia il verso dei gatti che vomitano. Malgrado venga da vomitare anche a me. Malgrado tutto.

fuori strada e fuori tempo

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Ciao, volevo solo dirti che per una combinazione che ha probabilmente dell’incredibile (ben oltre la finzione narrativa) l’ho appena vista qui sotto il mio ufficio, parcheggiata in circonvallazione. Era senza dubbio lei, se ti ricordi il numero di targa controllo meglio ma la provincia indicata è quella e non credo ci siano ancora tante Lada Niva rosso bordeaux targate SV in circolazione. Di quel modello e costruite in quegli anni, intendo. Con i pneumatici più grandi, il manubrio sottile che rendeva ancora più arduo ogni tentativo di manovra già di per sé difficoltoso a causa dall’assenza del servosterzo, le istruzioni in cirillico sulla plancia del cambio per passare alle ridotte. Comunque mi ricordo quando ho accompagnato te e tuo papà a ritirarla presso quella concessionaria nell’entroterra. Il tuo vecchio ci aveva motivato l’acquisto per via delle strade sterrate che doveva percorrere ogni settimana per raggiungere l’orto della vostra casa di campagna ma non ci credeva nessuno. Ci avevi fatto anche un brutto incidente, se non ricordo male, che se non fosse stato per la robustezza sovietica della carrozzeria poteva andare molto peggio dei nove milioni di danni. E meno male che non era colpa tua. Poi quanto tuo papà si è ammalato è rimasta parcheggiata sotto casa sua per anni, ogni tanto il suo amico panettiere la metteva in moto e la spostava di qualche posto nel parcheggio giusto per muoverla un po’. E tuo papà diceva che non vedeva l’ora di guidarla ancora, per questo non voleva liberarsene malgrado fosse poco economico tenera lì sotto senza usarla, pagando lo stesso bollo e assicurazione. Ti ho persino aiutato a mettere un paio di annunci sui siti per la vendita di autoveicoli usati e qualche proposta l’avevi anche ricevuta, sapevo il suo valore perché anche mio papà ne ha una uguale. Ma sapevi anche che non saresti mai riuscito a convincerlo. Ti capisco, gli anziani hanno la testa dura e di certo l’età non viene in aiuto. Poi è finita che si è convinto, oramai la possibilità che tuo padre tornasse come prima, con tutti quegli acciacchi, era davvero remota, senza contare che a malapena riusciva a camminare, figurati a guidare un’auto così problematica. Già, perché chiunque, abituato a una vettura concepita negli ultimi vent’anni in un paese occidentale, non sarebbe stato in grado di portarla. I pedali, il cambio, i sedili, una chiave per ogni porta, con l’aggravante dell’impianto gpl di vecchia generazione e tutte le procedure per attivarlo. Era proprio la macchina di tuo papà, a sua immagine e somiglianza, difficile e presuntuosa quanto lui. Come degna chiusura della storia, ricordo che gli avevi trovato un buon acquirente – sembrava già tanto che qualcuno volesse prendersi quel catorcio arrugginito – ma che lui ancora una volta aveva fatto di testa sua, vendendola alla metà di quanto avrebbe potuto ricavarne a una persona di fiducia, che aveva trovato lui da quel centro di controllo, il suo letto con il telefono accanto. La Lada Niva rosso bordeaux era così passata di proprietà al gestore di una concessionaria di fuoristrada usati, che deve aver trovato immediatamente un fanatico di ferrivecchi di Milano se ora l’ho vista qui sotto. Una macchina che sembra una 127 con le ruote da trattore, con gli stessi sedili in pelle, qualche chiazza di ruggine, e una cassetta di legno, quelle che si usano per la frutta al mercato, usata come contenitore di attrezzi nel vano portabagagli dietro. Fammi sapere se ti interessa, posso mettermi lì a fianco e cercare di avvicinare il proprietario, vedere che tipo è, capire se se la merita, un’auto così.

niente da perdere nemmeno se pareggiano

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Quella stessa domenica mio padre decide di portarmi alla stadio. Nessuno in famiglia è interessato particolarmente al calcio, tanto meno alla squadra della cittadina in cui viviamo che milita nel campionato di serie C. Ma qualche giorno dopo devo farmi ricoverare per un’operazione di routine, quindi anche quello serve da svago. Non credo nemmeno si tratti di una partita importante, un match chiave per il primo posto o uno spareggio per evitare la retrocessione. Non è nemmeno un incontro con qualche squadra tradizionalmente ostile per motivi campanilistici, perché la partita che ci apprestiamo a seguire è contro la Pro Vercelli. Di questo me ne accorgo dai canti degli ultras locali. Pro Vercelli, Pro Vercelli, vaf-fan-culo, questo è l’inno di battaglia dei supporters, una manciata di esseri senza speranza, penso, se non hanno altro da fare che mettere tutta la loro passione e dare sfogo all’aggressività per l’amore di undici giocatori di provincia.

In realtà uno di loro, anzi il numero uno, viene dal vivaio di una delle più blasonate squadre di serie A. Ha qualche anno più di me ed è già tra i pali con la responsabilità di non far entrare nessuna palla e di contribuire a portare a casa il punteggio pieno di una competizione da campionato. Ho visto la sua foto sulle pagine della cronaca sportiva locale, quell’accozzaglia di articoli per i quali i quotidiani sguinzagliano su campi in terra battuta i tirocinanti per mettere insieme qualche informazione che sarà letta dai ventidue delle squadre in campo e qualche parente annoiato, il lunedì successivo. Ho visto la sua voto in bianco e nero e l’ho osservata perché un mio amico dice che mi assomiglia. Qualche anno dopo lo vedrò difendere la porta in una sfida scudetto in serie A, in coppa dei campioni, poi addirittura in nazionale e, al termine della sua carriera sportiva, in molti dei talk show sulle reti locali e nazionali come opinionista. Un declino che, forse, l’assenza dalle luci della ribalta televisive avrebbe reso meno indecoroso.

La partita prende subito una piega favorevole, i nostri giocano in casa e il fuoriclasse tra i pali salva la squadra in più di un’occasione. Ma io mi rendo conto, ogni minuto che passa, che quello sport non fa al caso mio. La gradinata per la quale abbiamo i biglietti omaggio è di una scomodità vergognosa. Non ci sono sedili, come dice il nome stesso non siamo in tribuna. La pietra è fredda e dopo un po’ il fastidio inizia a farsi sentire insopportabile, tanto più che le occasioni per saltare in piedi per azioni clamorose si fanno sempre più rade. Senza contare poi che davanti a me e a mio padre non c’è nessuno, lo zoccolo duro dei tifosi occupa un settore più laterale. Oltre a loro gli spettatori saranno qualche decina. Di conseguenza nessuna scusa per alzarsi, far finta di infervorarsi un po’ o esultare per qualcosa.

Se avessi saputo che gli spalti erano così inospitali avrei chiesto a mio papà di portare un paio di cuscini, magari gli stessi che avevamo comprato l’estate prima all’Arena di Verona. Da qualche anno i miei genitori ci portavano in vacanza sul Lago di Garda. Questa comprendeva la visione di un’opera alla stagione lirica estiva. Era encomiabile l’impegno dei miei genitori, che cercavano di stimolare in noi la passione per i classici dell’opera. A dirla tutta io mi annoiavo a morte. Stare fermi e seduti in quell’anfiteatro romano ad assistere a uno spettacolo di cui non si capiva una parola per ore era oltre i limiti della sopportazione. Convincevo sempre mio padre ad acquistare i cuscini dai venditori che passavano in mezzo alle gradinate. Chissà quanto costavano e quanto spendevano i miei per alleviare almeno parzialmente quella specie di dolore da decubito. Ma forse il problema è più ampio considerando che, quando mio padre mi portava a teatro, quindi con sedili comodi e al calduccio, mi addormentavo all’istante. Russavo pure, e lui mi svegliava scuotendomi con il dovuto disprezzo. Diciamo pure che uno non si rende conto di quanto costi avere una famiglia finché non mette su la propria. La vacanza sul Lago di Garda, giusto per fare un esempio, si concludeva sempre con qualche giorno a Venezia. Un albergo per 6 persone a Venezia, in agosto. E io che volevo sempre mangiare la pizza, quindi a pranzo e a cena ristorante per 6, a Venezia, in agosto. Per non parlare delle scocciature che davo a mio papà quando, nel bel mezzo dell’Aida o del Trovatore, mi scappava la pipì. Mio padre mi accompagnava in cima all’Arena e io la facevo contro un muro e non capivo perché mio padre mi lasciasse fare la pipì lì perché avvertivo che il liquido poi scendeva lungo le gradinate, lievemente inclinate, e chissà, prima o poi avrebbe lambito qualche spettatore.

Invece allo stadio purtroppo quella domenica non mi scappa, così non ho nemmeno una scusa per chiedere a mio papà di andare in bagno o di accompagnarmi via. Quando la partita finisce con la vittoria dei nostri, rimaniamo a goderci lo spettacolo dei giocatori che vengono a prendersi gli applausi degli ultras. Ne approfitto per ricordare a mio padre che qualche estate prima la nostra squadra ha scelto come luogo di ritiro pre-campionato il paese dove abbiamo la casa sull’appennino e che li abbiamo visti fare ginnastica nel prato dietro la nostra cascina.

Per tornare a casa prendiamo l’autobus, come all’andata. Ci sono un gruppo di ragazzini con le bandiere biancoblu, uno di loro mi guarda e mi chiede se sono io il portiere della squadra. Io gli dico di no, e penso che se fossi davvero il campione in erba che la grande squadra di serie A ha prestato alla nostra di serie C non mi muoverei certo in autobus, tanto meno dopo un successo pieno come quello della partita appena terminata.

ciao papà, vedi che a differenza tua me la cavo da sola?

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Le giornate non iniziano con il verso giusto quando trascorri la notte lavorando. Ma no, non avete capito. Non intendevo fare il turno come in ospedale o negli impianti industriali a ciclo continuo, che poi smonti e hai quelle poche ore di recupero per reimpadronirti di te e della tua vita privata per poi essere pronto a tornare sul posto di lavoro. Mi riferivo a quando passi una parte del tempo dedicato al sonno a interpretare situazioni professionali secondo il mood onirico con uno spesso strato di coscienza attiva che fa da bordone e che è pronta a metterti di fronte alle tue responsabilità. Come a dire che sì, stai vivendo una situazione paradossale perché sei nel bel mezzo di un incubo, ma attenzione perché la realtà, con tutte le cose che ti aspettano, non è da meno. Poi subentrano le ore immediatamente precedenti all’alba, quelle in cui se hai la sfortuna come me di avere animali domestici sono quelle in cui si alternano fasi di sonno leggero a tentativi di convincimento altrui che va tutto bene, che non è il caso di raspare contro stipiti o l’imbottitura del letto perché si può resistere ancora un po’ a stomaco vuoto, in questa casa non è mai morto nessuno di fame. Ed ecco l’aggravarsi della situazione. Oltre alle incombenze che si rovesciano su noi poveri impiegati come se qualcuno appollaiato sopra stesse scuotendo un’agenda e gli impegni, acuminati come souvenir di chiese gotiche, ci cadessero addosso senza rispettare alcun ordine cronologico, ecco l’approssimarsi della musica in testa. Che se in condizioni normali costituisce un lieto diversivo da accompagnare a ritmo con il proprio passo o da fischiettare sotto la doccia, la mattina sortisce un effetto di soffocamento del resto dei pensieri. Se sapessi disegnare, illustrerei la sensazione risultante come una pozza di acqua (la mente) sommersa di schiuma livida e inquinante (la musica in testa) su cui galleggiano rifiuti non biodegradabili come bottiglie di plastica vuote di olio per motori (gli impegni professionali del dì). Se sei fortunato è una delle canzoni che preferisci e alle quali leghi bei ricordi. Se sei invece in balìa del destino, ti capita come a me e ti devi trascinare per almeno un’ora con Scream and Shout di will.i.am ft. Britney Spears, giusto perché mia figlia, ieri sera, mi ha fatto vedere il video prima di coricarmi. La stessa figlia che  stamani poi mi ha chiesto un bacio prima di uscire di casa da sola, bardata per il freddo che non si capisce quando finirà, con lo zaino per la scuola sulle spalle e quello per lo yoga sul davanti, con l’ombrello perché piove e il cappellino di lana, pronta a scendere sotto ad aspettare la compagna di classe la cui madre accompagnerà entrambe. Sono i momenti in cui penso che ci vorrebbe una seconda macchina. Ma, e torno a ripeterlo all’infinito, noi adulti non ci possiamo permettere l’autocommiserazione. E io, a dirla tutta, nemmeno l’auto. Tout-court.

abbasso il tre

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Ogni tanto rimprovero con la dovuta amorevolezza mia moglie e mia figlia perché in alcune occasioni non sono sufficientemente pazienti. Forse è il modo in cui viviamo, non noi della mia famiglia ma noi in generale, noi abitanti del mondo occidentale che siamo abituati ad avere risposte alle nostre ricerche in 0,14 secondi e rotti grazie ai motori di ricerca al fulmicotone e grazie a Internet. Grazie al pulsante on/off della tv, alle auto che non serve più a nulla dover lasciar scaldare il motore, alla canzone che ci piace che non dobbiamo più aspettare che prima o poi la trasmettano in radio per sentirla. I frutti di stagione che non dobbiamo più attendere la stagione, tanto è sempre estate o autunno o primavera o inverno da qualche parte nel mondo.

Questo accorciamento globale che ci fa sentire tutti come quella fatta di elastici che faceva parte dei Fantastici Quattro, ci allunghiamo e arriviamo subito ovunque. Con il pensiero, perché abbiamo il nostro prolungamento elettronico, anzi più di uno. Con le gambe, perché per compensare il fatto che abbiamo importato tutto il mondo in casa nostra per consumarlo tirandolo fuori fetta per fetta dal congelatore per poi passarlo nel microonde, ci sforziamo di fare ogni giorno quella rampa di scale che ci separa dalla nostra immobilità professionale e spesso precaria a piedi, addirittura facendo gli scalini due e due perché lo dice anche Elisir. Con le braccia, perché abbiamo ogni tipo di facilitatore che ci porge le cose e fa sembrare tutto più comodo, per non parlare dei telecomandi e le console tanto che ammiro a dismisura in modo con cui utilizza il dispositivo per il controllo della tv mia figlia. Lo tiene vicino al televisore, e quando vuole alzare il volume del suo cartone preferito perché di là facciamo baccano con le nostre discussioni su Bersani si alza dal divano, afferra il telecomando, lo punta verso la tv, alza il volume, ripone il telecomando lì dove l’ha preso e torna a sedersi sul divano. Ecco, è da lei che mi devo sforzare a imparare. È dai bambini che dovremmo prendere ripetizioni per non estinguerci nel giro di un paio di generazioni, consumati nella nostra fretta di anteporre il dopo al presente.

Non ci credete? Uno dei motivi per cui adoro il sabato mattina, bramo affinché arrivi al più presto e come tutti voi non cambierei il sabato mattina nemmeno con la più vantaggiosa delle dritte sulla schedina vincente, è che il sabato mattina è il momento in cui mi siedo allo scrittoio con mia figlia, dopo la colazione, e la assisto mentre fa i compiti. Io non so se sia giusto o sbagliato, mia figlia frequenta la quarta elementare e non mi sembra di ricordare che quando avevo la sua età mamma o papà mi dessero supporto nello studio. Che poi non è che l’aiuto, perché è bravina, anzi, posso dire che se la cava piuttosto bene e, per ora, le piace. Mi metto lì e la seguo mentre fa l’analisi grammaticale o le frazioni perché è anche un modo per stare insieme, stare vicini, crescere e condividersi, e  finché non mi chiederà di lasciarla in pace o manifesterà segni di insofferenza alla mia presenza me ne guarderò bene dal privarmi di quel momento di vero relax.

Perché i compiti sono un’attività che i bambini fanno mettendoci il tempo che occorre. Le operazioni vanno fatte passo dopo passo, e non c’è nulla che possa anticipare il risultato. Occorre arrivare fino alla fine, magari poi c’è da fare pure la prova e confrontare i due risultati per vedere se è tutto a posto. Le divisioni si risolvono così, cifra dopo cifra. Abbasso l’otto, il sette nel quarantotto ci sta sei volte con il resto di sei. Scrivo sei e abbasso il due. Un processo da seguire con una lentezza che è inevitabile, non assoluta ma standard e contro la quale non si può sperare di vincere. Come il tempo che l’acqua ci impiega a bollire. Un fagiolo nel cotone a spaccarsi per fare uscire la piantina. Per fare i compiti ci si siede a un tavolo in ordine, con tutto il necessario, e si costruisce a mano quel pezzo di esperienza, se non addirittura di conoscenza, che resta. Non è digitale, non è solubile, non è a effetto immediato, non è usa e getta, tanto meno in mater-bi e destinata a un riciclo fruttuoso. Ha una massa, un volume, esercita una pressione e prende la forma del contenitore umano che la circonda. La tocchi e ha la sua grana, la sua consistenza. Da quel momento la porti sempre con te. Ecco, fate i compiti con i vostri figli, perché sono loro che vi aiutano a rimettere in sesto tutte quelle cose che nemmeno pensavate vi servissero più. Sono ancora lì da qualche parte e si ricordano di voi perché voi, a vostra volta, gli avete dedicato il tempo necessario.