il blog e la rotazione delle colture

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Da solo, nel silenzio del box della domenica pomeriggio, mi meraviglio del sistema di mensole che continuano a reggere il peso sproporzionato di cose che sono utili solo a metà. Un’architettura di accantonamento che non ho certo costruito io, considerando che il trapano proprio non fa per me, ma che vista così, in quel luogo che sembra pensato apposta per essere sporco e dimenticato, mi fa sorprendentemente assalire da quel brivido che è unico ed è quello che il genere umano prova esclusivamente in quello stato di solitudine totale di fronte a un progetto. Due cose prima di proseguire: deve trattarsi intanto di solitudine assoluta anche se temporanea, per lasciar scaturire tale sensazione. E poi non capisco quelli che piastrellano il pavimento del garage, che già è scandaloso dover acquistare una stanza pensata per un’automobile, figuriamoci poi ad accomodarla come una sala da pranzo. Ma non è questo il punto. Io che non sono un amante del fai-da-te, nell’assenza totale di suoni e rumori e con quel groppo di piacere che mi percorre dallo sterno all’inguine, riesco persino a capire il mio vicino che è in pensione a 58 anni e che nel box ci passa la sua vita.

Capisco anche mio padre, che curava un orto ma non come fanno tutti, l’orticello dato in gestione dal comune sotto il cavalcavia dell’autostrada che poi non oso immaginare il sapore della verdura, nel senso che è sicuramente roba a chilometro zero perché chi li cura va e viene in bici. Ma i chilometri sugli ortaggi sono tutti quelli delle auto e dei tir che passano sopra, quindi alla fine è meglio la grande distribuzione. No, mio padre aveva un orto in una zona di campagna vera su una collina vera a un’ora di viaggio da casa sua. Mio padre un giorno sì e uno no, una volta in pensione, prendeva la sua Lada Niva e andava a innaffiare, potare, raccogliere, sistemare. Tornava con verdura e prodotti per tutti, roba buona e sana. Un’esperienza che però non condivideva con nessuno. Sono certo che amasse recarsi da solo per trascorrere da solo un paio d’ore con il suo orto, ad affrontare e risolvere problemi senza nessuno intorno. E siccome lo conosco bene, posso immaginarmelo stare in piedi e godersi quel brivido di cui sopra, che non saprei definire ma magari ha un nome, fermo a guardare i settori dei campi coltivati ciascuno con vegetali differenti.

Di queste cose non ne abbiamo mai parlato, e tanto meno possiamo farlo ora visto che mio papà è in quell’età in cui confonde le cose e i discorsi, si ricorda solo pezzi e, spiace dirlo, ma dal punto di vista del dialogo non costituisce più un interlocutore autorevole né è costruttivo intrattenersi con lui. O meglio, io lo faccio giusto per rispetto, perché è mio padre e spero che un giorno anche mia figlia riesca ad essere indulgente con me sul fatto che sono diventato vecchio, che il cervello mi sta andando in pappa e che non posso più proteggerla come quando era piccola. Quindi di lui in piedi che osserva il suo orto godendosi la solitudine del momento ho solo un ricordo di quelli inventati, lo desumo da come rammento mio papà prima che diventasse troppo vecchio per qualunque cosa.

Comunque, e dovreste saperlo se avete un blog, ci sono strumenti per vedere quanti passano a leggere le proprie cose. Oggi stavo dando un’occhiata a questa parte visibile solo a me che in gergo si dice back-end, e mi sentivo piuttosto fiero non tanto perché ho un’audience da paura, perché altrimenti non avrei trascorso la domenica tra box, cantina e pc ma sarei andato alla Blogfest a ritirare il mio premio di miglior cialtrone del web. Voglio dire, io e il mio blog siamo come il mio vicino baby-pensionato con le sue mensole o mio padre con il suo orto, non ricaviamo un centesimo o un quarto d’ora di nulla dalle nostre passioni, ma le coltiviamo ugualmente e per anni, finché abbiamo le forze, finché ci funziona il trapano, finché ci vengono in mente cose da scrivere. Mi sono sorpreso invece perché mi sono accorto di guardare la home page di questo blog, quella che immagino abbiate davanti anche voi, proprio nello stesso modo in cui sono sicuro mio padre guardasse il suo orto. Con quel brivido che sale e scende e che te lo danno solo e unicamente la solitudine e il silenzio, di fronte a un qualcosa che cresce grazie a te, che poi magari lo racconti dopo, ma che in quel momento davvero non vorresti condividere con nessun altro.

porno subito

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La sfida per i prossimi anni consisterà nel difendere i più piccoli da quell’infinito contenitore di schifezze che è l’Internet. Ci sono tante cose belle, eh, per carità, ma insomma. Tanto per cominciare, mi chiedo che ne sarebbe stato della nostra generazione se anziché nascondere “Le ore” nei cassetti della cameretta avessimo avuto a disposizione gratuitamente e comodamente sdraiati sui nostri letti tutto quello a cui oggi siamo esposti. Non so, forse avere cose proibite così a portata di mano le solleva dal fascino della peccaminosità, ma avremo maggiori informazioni sulle conseguenze tra qualche anno, quando i primi tecnodipendenti saranno adulti. Ci accorgeremo se c’è stato un abuso, se abuso o meno ci sono state conseguenze, se c’è ancora margine per correre ai ripari, se nessuno farà più caso a cosa e lecito o cos’è morale o se comunque è più costruttivo avere tutto alla portata di tutti, questo a ogni livello, perché magari è proprio quella la vera democrazia e gli squilibri sociali si sono sempre manifestati proprio a causa di omissioni, diritti negati, attività nascoste. Ma nel frattempo noi “esodati” che siamo a metà tra Ifix Tcen Tcen e Youporn come dobbiamo comportarci? Non sapendo come andrà a finire, nel dubbio ci muoviamo applicando i valori del passato. E per farlo correttamente, oggi, occorre essere davvero preparatissimi sulle nuove tecnologie. Sapere fin dove i nostri figli possono spingersi autonomamente, se subentrano gli approcci con cui il marketing digitale attira l’attenzione e la curiosità dei giovani, se il sentito dire che oggi si dipana a velocità vertiginosa sui social media arriva prima degli interventi dei grandi diretti interessati. O magari noi stiamo qui a preoccuparci ma intanto i nostri figli sono già oltre, usi a un sistema pornografico di per sé che va ben oltre il Lando che si poteva consultare dal barbiere o le vetrine dei giornalai stipate di letteratura a luci rosse. Sembra infatti che il sesso sia ovunque, nei racconti privati e nelle foto che la gente posta su Facebook tanto quanto nei link correlati dei motori di ricerca, per non parlare delle persone in carne ed ossa. Sta a noi prepararci a dare la lettura più appropriata a ciò che accade e a fornire le risposte alle domande che ci verranno poste. Che nell’insieme delle complessità, questa che riguarda la più privata delle sfere private non ha precedenti. Non so, magari saremo chiamati davvero a rivedere tutto dal principio, ma la sfiga è trovarsi proprio qui nel mezzo.

giusto per farsi due pianti insieme in allegria

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L’unico album uscito per una major con il mio nome stampato sul booklet e anche una parte di miei ringraziamenti personali, che poi è una delle cose che inorgogliscono di più del pubblicare un cd, si intitola “La memoria”, disco a cui è seguito un omonimo “La memoria Tour” che, al di là del flop che ne è derivato – non è facile il mestiere dei gruppi sconosciuti – ha un nome decisamente evocativo. Per dire, lo scorso luglio ho fatto un mio personale “La memoria Tour” nella città in cui ho vissuto prima di trasferirmi a Milano, che è poi la stessa che ha dato i natali alla band in cui militavo.

Nel senso che ho trascorso un paio di giorni in compagnia di una coppia di amici con i quali ho voluto ripercorrere prevalentemente a piedi le strade e i luoghi che frequentavo allora e che non vedevo da dieci, quindici, vent’anni. Al di là della bellissima e commovente – nel vero senso della parola – esperienza, qualche giorno fa pensavo a quanto costituisca una fortuna avere il passato così a portata di mano, nel mio caso a un paio d’ore di automobile da casa. Quello che mi separava dalla possibilità di ricostruire una mappa di ricordi ma anche una mappa mentale vera e propria di vie, creuze, scalinate, passaggi e edifici, era davvero vicino e facilmente raggiungibile. Ma sapete com’è, ed è quello che mi ripeto sempre, come voi. Ci sono sempre mille cose da fare e il superfluo anche se è corroborante resta sempre agli ultimi posti delle priorità.

Comunque l’aver restaurato una parte della mia memoria mi ha fatto anche riflettere sull’impressione che abbiamo quando godiamo di persone, cose ed esperienze nella loro assenza perché l’averle vissute è così breve e totalizzante che non te ne rendi conto fino a quando non ci sono più (le persone), si sono rotte (le cose, ma anche le persone), sono finite (le esperienze, e anche le persone ma in altri contesti). Non lo dico solo io, sappiamo tutti che è un punto di vista centrale del nostro divenire.

Così se l’esperienza non si prova, e magari si è consapevoli che non potrà mai più verificarsi, la nostra delusione è duplice perché prima ci beavamo della sua assenza dal momento che le percentuali di poterla ripetere erano comunque a nostro favore. Un esempio? Ieri è stato il primo giorno di scuola di mia figlia in quinta, ovvero l’ultimo primo giorno di scuola elementare. Ero consapevole di ciò, per questo ero pronto ad assimilarne ogni istante in modo da portarmi a casa più sensazioni possibili, come del resto mia moglie. Poi è successo che mia figlia si vergognava della presenza di entrambi, come biasimarla, oramai è grandicella, così uno dei due genitori – il genitore 2, come si usa dire oggi, che nel nostro caso sarei poi io – si è dovuto sacrificare andandosene. E come potete immaginare non l’ho presa mica bene, sono andato in tilt per tutto il giorno anche se di per sé la cosa non è che oggettivamente abbia tutto questo valore emotivo. Posso immaginare la bambina che saluta le compagne, le maestre che invitano tutti a salire nelle classi, il discorso programmatico con i vari ostacoli che i tagli all’istruzione causano all’educazione dei nostri figli e poi tutti fuori. Le mamme casalinghe a bere il caffè di bentornato, le altre e i pochi papà ai rispettivi posti di lavoro, lo so che è un po’ sessista questa descrizione approssimativa ma da me è così.

Così potremo, un giorno fra dieci anni, per esempio, fare un Memoria Tour anche in questi spazi che abbiamo condiviso con nostra figlia, magari le scuole pubbliche non esisteranno più e i templi dell’istruzione obbligatoria saranno magazzini desueti ricettacoli di macchinari rotti. Che potrebbe essere anche un’esperienza interessante per chi, come me, è appassionato di archeologia della democrazia. Ma non ci sarà cosa più struggente, e vi giuro che solo a pensarla mi si inumidiscono gli occhi, di fare le vacanze tra vent’anni, quando nostra figlia sarà chissà dove, magari in Germania a svolgere il suo lavoro di neurochirurgo, negli stessi luoghi in cui mia moglie ed io le abbiamo fatte con lei piccola. Poi non so dirvi se abbia senso che la vita sia un monumento mai finito, una sorta di fabbrica del Duomo, un mausoleo delle cose del passato che inevitabilmente sottrae terreno edificabile al presente e al futuro. Senza futuro non ci saranno più aneddoti, ma questa è davvero la conseguenza meno grave di tutte le altre che è meglio omettere. E non credo che accadrà mai, ma potrei comunque scriverci su qualcosa.

a mettere nomi su quaderni e altri articoli di cancelleria per la scuola

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Poi un giorno toccherà a te ricordare che il giorno dopo a quello lì è l’ultimo giorno di vacanza prima che riprenda la scuola, chissà se sarà un figlio o una figlia – come è capitato a me – o più di uno ma la sostanza non cambia. Perché di risposta ti verrà chiesto perché sembra ieri che è stato il primo dopo la fine dell’anno scolastico ma è successo tre mesi fa, e nel mezzo ci sono state tante cose che quasi a ripensarle tutte fanno girare la testa. Un viaggio a Marsiglia, la settimana sulle Dolomiti, il campeggio in Costa Rei e persino il volley camp che non ci volevi andare perché separarsi dopo stare così tanto appiccicati non è facile. Non lo è stato per te, figurati per noi. Comunque poi ci sarà quel momento in cui in bagno, prima di coricarsi, si ricorrerà a te come punto fermo di tutto un sistema ineluttabile che va avanti così da boh, milioni di anni? Quant’è che ci riproduciamo e poi moriamo pure? Per ora il compito è mio e metto da parte le cose che non ho ancora capito perché è il mio ruolo quello di metterti a tuo agio con il futuro anche se è ovvio che lì dentro è tutto così ancora in divenire che non c’è tempo per controllare i compiti delle vacanze, figurati soffermarsi su un mistero che più misterioso di così non si può. L’anno scorso, e ne è ancora passato un altro mannaggia, l’anno scorso avevo iniziato a tenere il conto delle settimane così, giusto per avere il polso di questa corsa a non so dove che davvero non capisco che bisogno ci sia di gettarsi a capofitto sempre nel dopo. Vogliamo fermarci almeno un secondo? Solo per farti presente che se poi ho smesso quell’inutile calcolo perché quando le settimane si contano a due cifre significa che c’è già un’altra stagione di mezzo rispetto a quella da cui hai incominciato, se ho smesso è perché potevo permettermelo, eri in quarta e c’era ancora una finestra di disimpegno sufficiente a farmi respirare un po’. Ma ora questa rilassatezza è stata causa di una giusta punizione, sono qui sprovveduto e in castigo ad attendere l’inizio della quinta – l’ultima possibilità poi si inizia a fare sul serio – e per di più nel regno dei consapevoli che quel giorno con cui ho iniziato, quello in cui toccherà a te ricordare che il giorno dopo a quello lì è l’ultimo giorno di vacanza prima che riprenda la scuola può essere anche che io non ci sia più, di certo non sarò lì nel tuo bagno perché sarà casa tua, ma spero che nel frattempo ti sia data da fare per capire che cosa diamine c’è dietro a tutto questo mettere al mondo gente a cui dover spiegare cose così.

quando i figli ti mandano nel panico

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Qualche sera fa ho provato un’esperienza che potrei definire di black out. Mia figlia non si trovava nel posto in cui doveva essere e dove si sarebbe dovuta recare da sola, a casa di mia cognata che si trova a un paio di isolati da qui. Doveva precederci di un quarto d’ora circa, giusto il tempo per sistemare due cose prima di uscire, ma quando abbiamo citofonato e chiesto, come prima cosa, se era arrivata regolarmente dalla zia la risposta è stata quella che mai avremmo pensato di sentire. I primi istanti di incredulità sono trascorsi in un baleno, sapete gli scherzi che fanno i bambini in combutta con gli adulti, ma tra adulti subentra la convenzione che scherzi di questo genere non sono da farsi e quindi si fa capire, in qualche modo, la burla in atto. Alla terza o quarta risposta su mia moglie e su di me è sceso uno strato di un qualcosa che non saprei spiegare, come il cemento a presa rapida che si gettano addosso nei cartoni animati per immobilizzarsi i nemici delle storie, come Tom e Jerry, per dire. A quel punto ho iniziato a correre goffamente per la strada, avevo gli infradito, pur sapendo che nel deserto suburbano delle otto di sera di fine luglio non avrei trovato alcuna soluzione. Nella testa, tutti gli scenari che la cronaca ci ha reso famigliari nel caso di fatti di questo tipo. Mia moglie, nel panico quanto me, ha però avuto l’illuminazione di chiamare i nostri amici che vivono sopra di noi, hanno un bambino compagno di giochi di mia figlia da sempre. Lei aveva capito male dove si sarebbe svolta la cena ed era salita da loro. Non so quantificare il tempo che è trascorso, forse nemmeno un paio di minuti che sono stati comunque troppi. Molto di più di quando, da piccola, al parco giochi capitava che per qualche istante scomparisse dal campo visivo per poi tornare a rendersi visibile da dietro l’albero in cui era temporaneamente transitata. Ecco, non saprei come altro definire la sensazione se non con il buio, completo. Da non ripetere.

vuoi più bene a mamma o a papà, e non è una domanda

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Un altro aspetto verso il quale dovreste porre attenzione è che quando poi i bambini iniziano a crescere, verso i dieci anni per esempio, chi ricopre il ruolo di madre torna a staccare di netto chi ricopre il ruolo di padre dal punto di vista del riferimento su tutti i fronti. Nel senso che i papà restano pur sempre molto presenti ma laddove i figli cercano contenuti più elaborati difficilmente vi troveranno adeguati ma, sono certo, non ve ne faranno una colpa perché le cose stanno così. Le madri hanno molte cose di più dentro e i figli vi trovano risposte senza interruzione così viene naturale aprire un canale privilegiato da quella parte. Noi padri non dobbiamo prendercela né sentirci messi da parte perché molto probabilmente poi avremo altre occasioni per metterci in luce, l’importante è non abbassare la guardia e rimanere lì sempre pronti con quella funzione di back-up che comunque a volte serve, nella quale possiamo dare il meglio e concentrare tutti i numeri che ci siamo preparati e non riusciamo mai a mettere in scena. I figli ci stanno a sentire e imparano perché sanno che siamo complementari a un sistema autosufficiente in cui temporaneamente è assente il protagonista, o si sta riposando, o sta leggendo. Il divario tra le parti genitoriali – ci sono naturalmente eccezioni, per carità – penso sia proprio una questione di natura come la nascita, che non può derivare per forza che da lì, o altri fenomeni di cui il genere umano ha documentato i principi per cui accadono sempre allo stesso modo. Come se al momento di fare un passo decisivo, di quelli che ti segnano la vita, i fronzoli di cui noi ci facciamo belli facendo foto creative alle torte di compleanno o lanciando e recuperando palloni sulla spiaggia passassero inderogabilmente in secondo piano e valori di saggezza, di vision – come si usa dire oggi – prendessero il sopravvento come unico processo praticabile. Il mio consiglio è di rimanere in silenzio con la nostra meraviglia e imparare, far tesoro di quello che accade perché comunque noi ci siamo passati da bambini, sappiamo come funziona e ce ne siamo beati. Poi però le sovrastrutture ci hanno messo in mano altri strumenti che sì, servono, ma ecco più che strumenti sono accessori che, se ci pensate bene, non è proprio che siano tra di loro sinonimi.

internazionale futura umanità

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In questo periodo vacanziero è piuttosto frequente incontrare pendolari inusuali sui mezzi pubblici. Si stanno diradando infatti le attività estive più a basso costo organizzate per i bambini, e chi non ha la possibilità di usufruire di iniziative più o meno private si vede costretto a portare con sé i propri figli al lavoro. Stamattina ne avevo uno vicino a me tutto fiero delle sue due medaglie in plastilina verniciata simil oro e argento che portava al collo, premio delle competizioni a squadre organizzate da un oratorio locale. Già bello abbronzato e incurante di quella dentatura approssimativa tipica dell’età, non sembrava turbato dell’orario, del fatto di dover seguire la mamma che sedeva al suo fianco in chissà quale ufficio dove probabilmente a quest’ora si starà già annoiando una volta trascorsa una mezz’oretta a fare i compiti, un’altra a passare in rassegna i passatempi insoddisfacenti che la madre gli avrà suggerito di portare con sé. Poi mettici che la mamma non potrà dargli retta e aggiungici le attenzioni di colleghi e superiori, l’imbarazzo di essere fuori luogo ed ecco che la scocciatura in qualche modo si deve manifestare. Ma mentre osservavo come voleva farmi notare senza farsi vedere quei due ciondoli artigianali, riflettevo sul fatto che una società che non mette al centro la qualità della vita dei bambini pur avendone le possibilità economiche ha qualcosa che non va. E non venitemi a dire che i bambini devono anche imparare ad annoiarsi e tutte quelle cose lì perché è vero ma non è quello il punto. E non sono nemmeno convinto quando mi ricordano come eravamo noi da piccoli, abituati a stare in casa da soli anche a dieci anni e a raggiungere in strada e nei cortili gli amici e passare i tempi morti anche così. Non si tiene conto infatti che allora spesso i genitori non lavoravano entrambi, i nonni erano molto più giovani di ora, e nei casi estremi gestirsi il tempo fuori e dentro casa in autonomia non era un problema. Non è che il mondo fosse migliore, è che probabilmente c’erano meno complessità o forse non ci si dava peso, le persone erano meno vulnerabili sotto tutti i punti di vista o non so. Magari siamo noi adulti di oggi che siamo molto più deboli di chi ci ha preceduto, siamo cresciuti tra mille paure e ora le riversiamo sui nostri figli. Sì, probabilmente è così. L’unico aspetto positivo è questa commistione tra vita privata e professionale che si vede in giro, che potrebbe servire a stemperare la rigidità con cui ci apprestiamo a svolgere le nostre mansioni. Immaginate uffici, aziende, studi, fabbriche e anche posti rumorosi dove per uno che è concentrato a scrivere, a far di conto, ad assemblare pezzi, a vendere contratti al telefono, a fianco c’è una sua versione in miniatura che magari si chiede che diamine di lavoro sta facendo suo papà. Forse così l’economia potrebbe comprendere che adattarsi alle esigenze dei piccoli – ancora più che a quelle dei pensionati – può costituire una possibilità sicuramente più concreta di sopravvivenza per tutti.

musica da camera

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Tutt’al più sognava una modesta esibizione per pochi intimi in casa, nell’ingresso di ampia metratura di cui un qualsiasi architetto lungimirante ne avrebbe ridiscusso la funzione ricavandone un stanza da letto, per raccogliere in quell’ala dell’appartamento dei primi del novecento tutta la zona notte. Una sorta di salone di risulta che ospitava il pianoforte verticale in cui l’esecutore si sarebbe esibito rivolto di schiena a qualche fila di sedie prese in prestito dalla latteria sotto casa, occupate per l’occasione da un paio di vecchie zie appassionate di musica classica, ma di quelle a cui dopo il pranzo di Natale facevi sentire una sonatina di Mozart e dopo i tre o quattro bicchieri di moscato a supporto del pandolce cadevano addormentate alle prime battute del secondo tempo, che in alcuni casi può risultare oltremodo soporifero e inutilmente struggente. Avrebbe invitato i cugini come li voleva lui, quelli che si vedevano nei film tipo “Incompreso” con il gilet senza maniche sulla camicia e il farfallino colorato, i pantaloni corti di lana al ginocchio e le polacchine, tanto oramai nessuno più si vestiva così e i cugini, quelli grandi, già si facevano di eroina nelle Renault 4 dei loro amici, gli stessi che prima svolgevano solo il ruolo di pusher, di sicuro meno convenientemente. Per entrambi, chiaro. Tutt’altro che inventata era invece la cugina di secondo grado che sembrava una principessina dei cartoni animati, ed era infatti un’eccezione. Con i capelli biondi lisci e lunghi e gli occhi azzurrissimi e un viso da pubblicità del Baby Shampoo Johnson, proprio come l’aveva vista al cinema qualche settimana prima e si era vantato con gli amici e con me che quella fosse davvero una sua parente ma che invece non c’era nulla di cui vantarsi, purtroppo tra parenti certe cose non si possono fare. Le ultime file della platea infine occupate da qualche vicino di casa, come la coppia di ottuagenari con il figlio pittore sessantenne così amanti dell’arte da vederla anche nelle crepe dei soffitti, nei magazzini desueti del cortile e nelle grondaie colme di guano di piccioni. O il panettiere di sotto che si era persino fatto insonorizzare la camera perché il giovane concertista si esercitava ogni santo pomeriggio e non si è mai capito il perché, sarebbe dovuto essere il contrario, non vi pare? Ma la paura di svegliarlo gli era rimasta dentro anche da grande, quando ammoniva gli amici ipercinetici di non saltare e loro, come logica conseguenza, saltavano più forte perché l’imposizione poteva sortire l’effetto contrario. Comunque poi quel concerto da tenere dopo il successo dell’esame che non ha mai sostenuto non c’è mai stato, o almeno non mi ha invitato come aveva promesso e non me ne stupirei perché ci saremmo vergognati entrambi visto che studiavamo musica con lo stesso insegnante. Mi ha detto sua mamma che è rimasto solo il pianoforte verticale rivolto contro il muro e le file di posti vuoti dietro, come un vero e proprio teatro che ha chiuso i battenti in una immagine di repertorio, quando si vuole trasmettere il concetto che qualcosa di artistico è giunto al termine, quella vecchia aria della musica che è finita e gli amici se ne vanno. E a sottolineare il rancore che è nato da lì, anche a rischio di enfatizzarne la drammaticità, qualcuno che era meglio non mettere al corrente di quell’idea difficile da realizzare, fermo sulla porta di ingresso ad aspettare il pubblico con cui condividere l’orgoglio per un figlio pianista.

c’è un idraulico in sala?

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Questo sono io, avrò avuto si e no dieci o undici anni perché come si vede dalla foto sono ancora in quella fase in cui quando un essere umano è davanti a un obiettivo fa di tutto per essere simpatico, si schermisce dalla propria timidezza con un pizzico di idiozia che qui è ben rappresentata sia dalla posa da dipinto dell’antico egitto che dal serpente di gomma che tengo in bocca, che poi non si capisce bene che cosa ci facessi in gita a Pisa con quel rettile giocattolo. Forse me l’aveva comprato mia mamma per farmi stare buono, ma se me l’ero portato da casa avete tutte le buone ragioni per prendermi in giro nei commenti.

Ma se confrontate questa foto con quest’altra, con la maglietta a righe orizzontali verdi con le maniche tirate leggermente su, che sarà di un anno dopo, potete notare il balzo di crescita. Anche un po’ nello sguardo, faccio così con gli occhi perché è finito il tempo dei balocchi e siamo già in odore di ormoni. E che odore. Potrei andare avanti così per ore, anche con quest’altra foto in cui fumo un sigaro a quattordici anni alla cresima della figlia dei migliori amici dei miei, è ovvio che si tratta di uno scherzo se no nessuno l’avrebbe documentato, tanto meno mio padre. Questo perché vorrei passarvi il messaggio che tutto sommato sono una brava persona, ho trascorso un’infanzia normale e forse le occasioni in cui mi sono comportato male si contano sulle dita di un paio di mani, massimo tre.

Per esempio quando con l’amico Mario, con cui si cazzeggiava alla grande anziché preparare gli esami a lettere, facevamo esperimenti sociologici come far finta che lui era il mio accompagnatore e io lo psicopatico che minacciava di volersi gettare dal finestrino del locale in corsa sotto lo sguardo perplesso degli altri passeggeri. O trascorrere ore nei bar popolati da pensionati mattinieri a litigare in linguaggi inventati fino ad alzare la voce e venire alle mani, cercando di non tradire con le risate la nostra attività di ricerca sul campo. È che io come qualcuno di voi ho una faccia di quelle che sembrano dirti sempre che gli dispiace di disturbare, e quelle poche volte in cui noi perennemente pronti a chiedere scusa non lo facciamo rischiamo grosso perché prevaricare non è nel nostro registro. Mia mamma è così, forse ho preso da lei.

Se non ci credete, provate a chiederle perché non ha mai rimproverato seriamente mio papà di non voler acquistare una lavastoviglie per la casa di campagna. Se vi è già capitato di leggere da queste parti, mi riferisco proprio a quella casa che non c’è più da quando quel cretino evasore totale di mio cognato se l’è portata via con un colpo di genio criminale avallato dalla nostra natura remissiva, e ora il posto in cui ho passato tutte le estati da zero a quattordici anni è di proprietà della banca da cui è stata ipotecata. Ma tornando alla storia della lavastoviglie, mio padre si è sempre opposto all’acquisto. E lo ha fatto con il suo modo insopportabile di rimandare, ha sempre detto che prima o poi l’avrebbe comprata ma c’era il grosso ostacolo che in quel paese dell’appennino trovare un idraulico disponibile in breve tempo e in grado di collegare l’elettrodomestico alla rete idrica sarebbe stato impossibile. Così finisce la storia della lavastoviglie che non c’è mai stata, in una casa che non c’è più.

Ma in quei venti anni in cui tutti speravamo nel deus ex machina che sconfiggesse la testardaggine contadina di mio padre e salvasse le mani di mia mamma dai detersivi, lei ha lavato piatti per tutto il tempo dei nostri soggiorni in campagna, anche quando portavamo amici, fidanzate, parenti a casa. E vi giuro che spesso mi sono offerto di sostituirla e le ho risparmiato quella ulteriore fatica a suggello della preparazione del pranzo o della cena, tanto che ancora oggi quando capita di trovarmi in un appartamento privo di lavastoviglie, con amici o con parenti, mi offro volontario, proprio come in questo momento.

Sono una nullità in cucina, è un ambiente in cui non posso dare nessun apporto se non a fine pasto, con spugnetta e detersivo. Ho affinato una tecnica velocissima in grado di raggiungere risultati sorprendenti con il minimo spreco di acqua calda e in tempo record, se volete vengo a casa vostra a farvi una dimostrazione e magari vi porto le foto di me da ragazzino con il serpente in bocca o mentre imito Fonzie che non sono riuscito a pubblicare perché in realtà non sono nemmeno digitalizzate, sono in un trumò di mia mamma e quando è tanto che non le guardo, come ora, cerco di ricordarle come posso e poi mi si aprono collegamenti a catena che nemmeno potete immaginare.

adelina ripensaci

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Il periodo a cavallo tra maggio e giugno è noto ai più come la stagione dei saggi, non nel senso di “individui presi a esempio per la loro statura di competenze” ma di “rappresentazioni cumulative volte a sancire la fine di un qualcosa con la pubblica dimostrazione che quel qualcosa ha fatto fruttare i soldi dell’iscrizione”. Saggi di danza, di sport e, naturalmente, di musica. Mentre cerco di limitare i danni di un lavoro esageratamente sedentario, per fare un esempio, nella stessa ora e nella palestra accanto un plotone di ragazzine indossa bombette, bastoni e lustrini per muoversi al ritmo di Espana Canì, tanto che se in quella scuola di avviamento alla danza ci fosse mia figlia sarei oltremodo perplesso dalla scelta del brano per il saggio di fine anno. Nel duemila e rotti i generi musicali con cui gratificare gli appetiti di successo dei genitori sono svariati, e il paso doble – ballo di indubbia dignità – risulta superato non poco. Ma la verve di sperimentazione della classe docente cui affidiamo il tempo libero dei nostri bambini è facilmente riscontrabile un po’ ovunque. Proprio ieri sera ho assistito a un’esibizione di una quindicina di alunni di una insegnante di pianoforte che opera sul territorio, una classe composta sia da teneri frugoletti di pochi anni che subiscono lo strumento fino ad adolescenti smaliziati che già in parte lo tengono in pugno e lo usano come tale. Lo strumento musicale è infatti uno strumento come tutti gli altri, non dimentichiamolo. Come un cacciavite, un bisturi, una chiave inglese. Bisogna usarlo a proprio vantaggio secondo l’operazione che si intende portare a termine. Non mi soffermo sulla scarsa cura con cui si insegna ad andare a tempo, che trovo sia altrettanto importante del rispetto l’esecuzione corretta delle note sul pentagramma. Salto tutti i passaggi intermedi fino all’ultimo alunno, il più grande, che ha chiuso la serata suonando due brani. Un pezzo di Ludovico Einaudi, che trovo noioso e inutile tanto quanto Allevi, e un equivalente di Espana Canì per la danza, ovvero “Ballade pour Adeline” di Richard Claydermann, che tradisce evidentemente l’influenza e l’età anagrafica dell’insegnante visto che non vedo come un ragazzino di 14 anni di oggi possa aver scelto la colonna sonora di serate pacchiane su navi da crociera, una melodia da televendita anni 80 quelle con il logo del biscione in bella vista, in basso sullo schermo, roba che nemmeno Augusto Martelli e che nessuno userebbe neppure come accompagnamento per l’oroscopo alla radio. Un’amica, durante l’esecuzione, mi ha fatto notare che la bravura della punta di diamante di quel corso di musica potrebbe aumentare il suo ascendente sulle coetanee, considerando la visione sentimentale della vita di quel pianista in erba sintetizzata in un brano così, in quello che reputo un successo del pianismo commerciale più sterile del dopoguerra. Ho pensato solo che se fossi una ragazza e qualcuno mi dedicasse una canzone di quel tipo potrei rimanere traumatizzata e convertirmi al Death Metal a vita.