gioventù sbruciacchiata per adulti scottati

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Per qualche ignota combinazione mi trovo al centro di una seconda o terza media in viaggio dagli outskirt verso quella grande mela in stato di decomposizione che è Milano, in piedi nel vano da cui si accede all’uscita del treno dei pendolari. Sfortunatamente si tratta di maschi e femmine ancora in quella fase in cui sono più bassi di me ma di poco, stretti a formare una calca per cui mi ritrovo a poca distanza dai loro cuoi capelluti. Ragazzini forse in visita alla mostra del cervello al museo di storia naturale per contemplare i vantaggi che ricaverebbero usando quello che gli è stato fornito da genitori come me. Questo nel migliore dei casi. Gli altri non staccheranno la loro attenzione da sé stessi e dai compagni, considerando la scala delle priorità tipica della fase di crescita in cui sembrano piombati come sopravvissuti a un naufragio.

Una ragazzina con metà testa rasata e l’altra metà coperta da una folta e lunga capigliatura sfoggia un vistoso anello alla narice destra e porge la metà del proprio auricolare a un’amica. Considerando che mi trovo in mezzo, si avvicinano tra loro mettendosi a commentare con un silente feeling espressivo a pochi centimetri dalle mie orecchie. Il display dello smartcoso da seicento euro di quella con la doppia pettinatura riporta autore e titolo, così leggo quel Fedez che con la sua cattiveria commerciale ha così tanta presa sui più piccini alle prime esperienze con l’autodeterminazione.

Faccio finta di niente malgrado inconsapevolmente le due abbiano ridotto lo spazio che mi consente di leggere il mio libro in piedi evitando che i fili delle mie, di cuffie, non si aggancino a qualche accessorio sporgente altrui. Sto ascoltando il nuovo album di M.I.A. e poco prima di essere tirato nel mezzo di quella condivisione di emozioni pre-adolescenziali mi ero distratto osservando un altro studente con loro di origini cingalesi, chiedendomi giusto se almeno lui a questo pop italiano al vago aroma di rap preferisca la cantante di origini tamil che risuona nel mio microimpianto hi-fi da passeggio, ma forse pretendo troppo considerando il suo look che trasmette una vita di stenti molto più ordinari.

Ma mi rendo conto ancora una volta che il mio criterio di valutazione consolidatosi nel secolo scorso ora non vale più. Prendete ad esempio questa qui davanti a me con il piercing al naso e la testa divisa a metà da due pettinature così antitetiche. Tanto spirito di emancipazione estetica per poi ascoltare un mediocre canzonettaro al soldo di una major come Fedez e per di più tamarro all’inverosimile. Fingere di tifare rivolta per poi assoggettarsi a MTV Italia. Ecco, questa cosa dell’hip hop all’italiana che è diventato il terreno di non-espressione dei giovani d’oggi, considerando che a breve ci sarà pure mia figlia lì con loro che di nascosto da me coltiva già quel genere di ascolti malgrado i modelli che le ho proposto costituisce l’avverarsi di una delle mie principali paure, seconda solo al rimanifestarsi di una dittatura militare dai connotati cileni. Che smacco per uno della mia generazione: dopo il post-punk, l’eroina, il no-future, dover avvertire queste oscure avvisaglie di omologazione proprio dal sangue del mio sangue.

A quel punto mi distrae lo scemo della classe, che avevo già identificato come tale perché tutto preso dai tentativi di conquistare un po’ di visibilità malgrado la sua pelle coperta dall’acne a colpi di cazzate sparate a voce alta, che alle mie spalle legge la pagina su cui è aperto il mio libro dimostrando ai compagni e tutti gli altri pendolari che non dev’essere una cima a scuola. Mia figlia leggeva così in prima elementare, giuro. Anzi meglio. Faccio per farglielo notare ma vengo anticipato da un sagace rimprovero dell’insegnante che nel frattempo si è fatta strada per avvisare i ragazzi di non scendere alla prossima, ma alla fermata successiva. Nessuno però ha riso né durante lo scherzo del libro né alla battuta della prof che comunque era troppo sottile per una generazione così deludente, e tra me penso a quante soddisfazioni mi sarei preso, io, ad avere in classe uno così idiota. Magari me lo ritroverò come infermiere quando avrò ottant’anni e la mia vita sarà nelle sue mani, una cosa che mi fa rabbrividire.

Quindi si aprono le porte e il mio viaggio è finito, per farmi passare le due ragazzine sono costrette a spezzare il filo fisico e metaforico che le unisce in quel discutibile ascolto comune ma non sembrano particolarmente dispiaciute. Lo scemo della classe approfitta del fiume di gente che se ne va per cantare una canzone che dice “mi piace la Nutella, Nutella-a-a”, e ancora una volta penso che se fossi un insegnante delle medie sarei profondamente frustrato, che già come genitore mi aspettano tempi bui.

macro-economia per micro-individui

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Poi un giorno verrà fuori che è vero. Come il declino dei Romani può esser stato causato dal non so che metallo disciolto nell’acqua, magari alla base di questa recessione sussiste il fatto che non abbiamo più voglia di fare una mazza perché preferiamo commentare gli status altrui su Facebook o rincorrere le querelle tra vip su twitter. Quindi individualmente mettiamo un po’ della nostra inettitudine in orario di ufficio e sommata a quella degli altri cinque miliardi di nostri contemporanei alla fine rallenta tutto, tranne la smania di consumare. Sembra la storia del battito d’ali della farfalla e del terremoto dall’altra parte del mondo, vero?

E applicando in senso lato questa debole tesi, pensate alle piccole rogne e gatte da pelare che ci aspettano già pronte e lavate e già mangiate e vestite di tutto punto ogni mattina per accompagnarci durante la giornata. Perché l’umore del singolo non influisce sull’umore della gente, non contribuisce alla sollevazione di popoli, non decreta l’esito di elezioni tanto quanto una gaffe di un candidato a pochi giorni dal voto? Magari le giornate meno produttive sono proprio la causa di quei dati sull’andamento della borsa che snocciolano alla sera gli anchor man dei tiggi, in modo più o meno urlato a seconda dell’indole mentanosa, e sulla produttività incide davvero il mio mal di schiena o il tizio che si è incavolato perché gli si è rotta la chiave nella serratura del cancello condominiale e già è inviso agli altri inquilini perché mette il polistirolo nella carta. Per non parlare delle sciagure che ti porti dietro per settimane, mesi e addirittura anni, quelle per le quali vai anche in analisi. Come fa una società come la nostra a non tenerne conto? Se su tot milioni di persone la metà oggi sono tristi per tutti i loro motivi, stasera potremmo vederne delle belle.

Ma io ho scoperto il motivo per cui, in realtà, non è così che funziona. Posso dimostrare che sulle sorti della nostra civiltà gli adulti non hanno nessuna influenza perché non siamo noi a comunicare con l’esterno. Vi faccio un esempio. Come tanti di voi, io ieri – che già era lunedì, e non aggiungo altro – non ho avuto un attimo di tregua: sveglia, prepara la colazione, controlla che la bambina sia a posto per la scuola, treno, in ufficio fino alle 18, treno del ritorno e poi ginnastica, prepara la cena ché moglie e figlia rientrano alle nove, cena, sistema la cucina, gatti e controgatti e poi nemmeno una pagina di libro, quando leggo a letto crollo immediatamente. Questo naturalmente moltiplicato per due, anche mia moglie non scherza in quanto a logorio della vita moderna. Che cosa volete che trasmetta al suo ambiente di riferimento l’uomo del duemila se è conciato così?

In questo modello in cui gli adulti operano almeno diciotto ore al giorno per quello che i più stigmatizzano con il “mandare avanti la baracca”, gli unici contatti con l’esterno li abbiamo tramite i nostri figli, almeno quelli piccoli, diciamo in età pre-adolescenziale. Sono loro la vera “forza vendita” di questa economia degli stati d’animo, quelli che diffondono sul territorio tutto quello che si costruisce dentro alle mura domestiche. I più piccoli sono quelli che, inconsapevoli dei macro-sistemi, tessono le veri reti sociali e si fanno ignari portavoce delle nostre esistenze. Sono i bambini che anche se si svegliano malvolentieri, poi alla fine finiscono col fare con entusiasmo tutto, e grazie a questo vero e proprio think positive le cose succedono, il mondo va avanti, il morale è quello giusto per carburare il moto di rotazione e rivoluzione di questa palla malaticcia su cui siamo schiacciati senza possibilità di fuga. Noi possiamo tornare nelle nostre scatole, là fuori non c’è bisogno di noi, l’economia gira lo stesso anzi meglio, rimbocchiamoci le maniche che questo è il nostro destino.

quando il nonno va in tilt è meglio una terapia d’urto

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Uno dei tanti motivi per cui questo 2057 che volge al termine passerà alla storia è il curioso caso del novantenne in avanzato stato di demenza senile, divenuto fenomeno virale per i suoi sproloqui e atteggiamenti più che originali.

Il veterano del post-punk, così lo chiamano i frequentatori del Circolo “G. Casaleggio” di Milano, uno dei luoghi storici della cultura del partito di regime radicato sul territorio che, in orari diurni, accoglie molti anziani del quartiere alla ricerca di un centro di aggregazione dove trascorrere il tempo, scambiare quattro chiacchiere e giocare ai videogiochi dei loro tempi. Ma il signor R. B., novantun anni il prossimo maggio, è ormai una vera e propria attrazione locale, suo malgrado.

Si presenta conciato alla moda del secolo scorso, quando il signor R. doveva essere proprio una testa calda, oltreché un musicista dilettante ma attento alle tendenze. Recita a memoria scioglilingua che, a detta degli storici della musica antica, sono riconducibili al precursore di quella che è oggi la principale forma di espressione artistica. Il suo cavallo di battaglia è il rap di “Fight da faida” di un autore della fine del xx secolo, tal Frankie Hi-Nrg Mc, uno dei tanti dissidenti nostalgici della repubblica spazzati via dalla rivoluzione del quarto Vaffa-day. Il signor R. si diletta anche nelle riproduzioni di ritmi obsoleti con la bocca, durante le quali i suoi conoscenti sconsigliano la sosta nelle sue vicinanze, facile immaginare il perché. Cita di continuo artisti e gruppi musicali ormai cancellati dalla memoria comune popolare e digitale.

Secondo il geriatra che lo ha in cura, si tratta di una forma di demenza, in cui tutta una serie di condotte volutamente dementi, esercitate durante la sua vita, hanno preso il sopravvento sul comportamento. Se avesse trascorso la vita raccontando barzellette, abitudine comune tra gli anziani prima della rivoluzione digitale e della consacrazione del pop come arte nobile, probabilmente ora si limiterebbe a far arrossire i suoi congiunti con qualche freddura spinta, come usava tra i nonni di una volta privi dei freni inibitori.

“Sicuramente mio marito ha condotto una vita all’insegna dell’eccentricità, sotto questo profilo” chiarisce F. D., la moglie novantunenne ma di tutt’altra lucidità mentale. “Ha passato buona parte della sua vita a imparare testi di canzoni, a storpiare frasi e parole per lavoro, ad armonizzare qualunque melodia compresa la sirena dell’ambulanza l’ultima volta in cui è stato necessario ricorrere al soccorso, e ad accattivarsi il plauso dei suoi contatti sui social network con contenuti sempre pensati per suscitare simpatia”.

La signora F. racconta qualche altro aneddoto a cui avrebbe dovuto prestare maggior attenzione, presagi di difficile comprensione del decorso mentale del marito. “I primi tempi della pensione, intorno ai 75 anni, li ha trascorsi guardando per intero le serie di cartoni animati preferite da nostra figlia quando era piccola, come Il giro del mondo in 80 giorni o Sherlock Holmes”. Decine di episodi visti senza interruzione e per più volte, con le stesse reazioni emotive. “Versava spesso qualche lacrima durante la sigla, perché si ricordava tutti i momenti trascorsi insieme a lei, cui è fortemente legato, malgrado viva negli Stati Uniti ormai da più di trent’anni”.

Decisamente un segnale di depressione che non lascia ombra di dubbio sull’equilibrio del signor R., una persona facile ai sentimentalismi ma anche capace di azioni che hanno dell’incredibile. “Qualche anno fa”, continua la signora F., “ha riesumato un vecchio strumento musicale elettronico che deve aver conservato a mia insaputa, nascosto da qualche parte. Poi tramite il Grande Archivio Informatico dei Cittadini ha rintracciato un paio di suoi amici musicisti ancora vivi, con i quali si è incontrato per realizzare un suo antico progetto: suonare i Joy Division da vecchio e vedere l’effetto che fa”.

Mai sentito una comportamento così bizzarro. Al Circolo Casaleggio non è più una novità. Quando accenna passi di break-dance malgrado la precaria mobilità i gestori comprendono che è il momento di avvisare la consorte che si precipita, per modo dire, a togliere l’arzillo novantenne dall’imbarazzo. “Lo riaccompagno a casa e cerco di fargli capire che quei tempi sono passati, che da allora ad oggi c’è stata in mezzo tutta una vita di cui non ci possiamo lamentare. Siamo siamo stati molto fortunati”. Ma il metodo più veloce per tranquillizzarlo potete immaginare in cosa consiste. “Ci mettiamo subito in videoconferenza con nostra figlia, che con grande pazienza e amore gli si rivolge come faceva da piccola, e lui si rilassa, si mette il cuore in pace, contento come è sempre stato”.

la cosa che mi piace di più della vita siamo noi

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Ieri sera, poco prima di addormentarsi, mia figlia mi ha chiesto che cosa mi piacesse di meno della vita. Che non è una domanda di quelle da fare in quei momenti, quando stai per coricarti e hai così tanto tempo da passare da solo con te stesso nell’attesa di prendere sonno. Anzi, ci sono ampie possibilità di non addormentarsi più, a volte basta una preoccupazione non calcolata e buonanotte. Anzi, buonanotte un cazzo. Ma sapete, il debole che noi primipari attempati abbiamo per i nostri figli unici è così sovradimensionato che qualunque aspetto del nostro ménage genitoriale ci manda in brodo di giuggiole. Questo nel mio caso accade ogni volta che si instaura una conversazione tra me e mia figlia, sia che si parli di sciocchezze che dei massimi sistemi. Ciò significa che anche una domanda che presuppone una riflessione amara, quando mi viene formulata da lei la risposta che mi viene da dare subisce il condizionamento ambientale e non riesco a immaginare nulla di brutto. E infatti ieri sera ho ribaltato subito la questione, immaginando un condensato di giovanottismo e fabiovolismo con addirittura un titolo per un qualcosa di non ben specificato, ma comunque riconducibile a “la cosa che mi piace di più della vita siamo noi, io e te”. Perché a fare dell’ironia pungente e del sarcasmo sulle parole degli altri siamo bravi e solerti tutti, ma quando si tratta di cose belle, di buoni sentimenti, di amore, alla fine ci troviamo tutti con una tazza di tisana fumante in mano sotto lo stesso capannone industriale in cui si forgiano le peggio smancerie. E mettetevi nei miei panni, a fianco di una bambina nel pieno di quella fase in cui convivono, senza pestarsi i piedi, Peppa Pig e gli One Direction, quel momento di transizione in cui le scene degli attori che si baciano fanno schifo ma è tutto un parlare di chi piace a chi, tra i compagni di scuola. Così ho dovuto davvero pensare a lungo a cosa mi piacesse di meno perché lì, in quel frangente, con l’abat-jour che è un mappamondo dalla luce soffusa, mia figlia con il pigiama verde e gli occhi appesantiti dal sonno che però continuavano ad osservarmi, in quell’istante proprio non mi veniva in mente niente che non mi piacesse.

dal diario segreto di una bambina di dieci anni

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Caro diario, come stai? Io bene, grazie per avermelo chiesto.

Mia figlia non lo sa, ovviamente, che resti un segreto tra me e voi. E vi giuro che non lo leggerò mai più di nascosto, un po’ me ne vergogno ma è capitato e basta e non si ripeterà, davvero. Promesso.

siamo quel che sono

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Che se poi il venire su irrequieti o teppisti o geni o persone normali dipendesse dal luogo, avremmo dei veri e propri centri di eccellenza in città come Siena o quei paesini medioevali sulla cima dei colli toscani, con le mura e il vino da trecento euro la bottiglia, che ti affacci dalla finestra la mattina per far prendere aria alla tua casa dei tempi di Lorenzo il Magnifico e vedi le torri di San Gimignano, la foschia sulle colline, il profumo della legna che scoppietta nel fuoco e la sicurezza di un conto in banca che si alimenta solo per le tre o quattro settimane in cui affitti il pianterreno a turisti americani che non badano certo a spremere il loro budget per le vacanze per una differenza di zeri, loro che al massimo vanno a cercare la storia nelle cattedrali costruite tra la prima e la seconda guerra mondiale o nella finta Venezia a Las Vegas.

Voglio dire, uno ha il culo di nascere a Colle Val D’Elsa anziché a Gela e secondo il concetto del posto che ti dà i natali il destino ti timbra un lasciapassare per la fortuna nella vita e da lì è tutto in discesa, mentre laggiù è tutto in salita. Sì, di certo la latitudine non ha importanza come la bellezza ma cerchiamo di essere meno ipocriti sulle proprie radici, nel senso che se abiti in un casale delle Marche anziché al Centro Edilizia Popolare alla periferia quella brutta di Genova, o se davanti l’uscio hai un filare di cipressi anziché un pilone dell’autostrada con tutti i liquami inquinati che ti cadono nei vasi quando piove hai un punteggio di partenza diverso e se proprio non sei uno zuccone qualcosa dalla vita riesci anche a ricavarci. Non è detto, eh, ma io ne sono abbastanza convinto.

Mia moglie ed io per esempio parlavamo della fortuna di chi vive a Roma, come quei due nostri amici che abbiamo conosciuto in campeggio, che possono ogni fine settimana visitare la città e magari una vita sola non basta. Al primo giro ti fai tutto il periodo repubblicano e imperiale, poi quello medievale e via così fino all’EUR che, se non fosse che è legato architettonicamente al peggio della storia italiana, esprime – ma questo è un mio punto di vista – uno dei punti più alti della nostra civiltà. E una volta finita l’arte, c’è tutto il resto della cultura fino al semplice passeggiare con il naso all’insù per bearsi di tutti i palazzi vecchi e nuovi. Insomma, rispetto all’antropizzazione della periferia nord di Milano c’è un bella differenza. Ho perso il filo. Ah, ecco. Non tutti i romani, non tutti i residenti a Colle Val D’Elsa, non tutti i parigini crescono belli dentro, diventano luminari di qualcosa o vogliono bene al prossimo indistintamente, perché l’ambiente ha la sua influenza ma ci sono gli irrequieti anche ad Assisi in barba a San Francesco, credo, anzi se c’è qualcuno in sala che viene da quelle parti prego di confermare la mia teoria.

Allo stesso modo, se hai la fortuna di nascere con degli strumenti dentro, hai la possibilità di diventare un adulto sereno sia che i tuoi abbiano un appartamento con tutti i crismi, sia che la tua stanza consista nella living room raffazzonata di un quasi-bilocale, con quei divani letto in cui di giorno ci si siedono persone e animali e verso le nove di sera accolgono i figli delle famiglie meno abbienti. Come per le città, le abitazioni possono influire sul carattere delle persone ma non in maniera direttamente proporzionale all’ordine che vige al loro interno, o meglio è possibile che uno che cresce nel casino abbia poi qualche problema di adattamento alla vita ma anche no.

Il gradino successivo di questa scala di giudizio riguarda le famiglie e i genitori. Nel senso che alla fine nasci dove nasci ma la città è quella e ti rimane un po’ dentro, magari ti abitui all’edilizia moderna della suburbia in fase di espansione con tutte le villette a schiera ma se cresci diciotto o vent’anni in una casa dei primi del novecento comunque ti ritrovi nelle proporzioni sproporzionate di quei soffitti e quei pavimenti, e i genitori che ti porti dietro praticamente tutta la vita, in diverse condizioni e forme a seconda delle varie età tue e loro, alla fine resteranno sempre quelli e non c’è verso di cambiare. Insomma, io non lo farei. Almeno non sempre, di certo non ora.

Cattura

indovina chi viene a trovarvi

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Oggi sono in visita ai miei. Mentre leggete queste righe che sto scrivendo ora, che è ieri sera rispetto al momento in cui stanno attirando la vostra attenzione, sono in visita da mamma e papà che vivono nella dépendance dei custodi di quel monumento alla mia adolescenza che è la casa in cui sono nato e dove i miei tuttora abitano. Ho maturato la convinzione che fare i figli è forse l’unico modo per ricambiare quello che i nostri genitori hanno fatto per noi, che è una visione piuttosto ipocrita perché probabilmente loro sarebbero più contenti se tutte quelle attenzioni che rivolgo altrove le rivolgessi a loro ora che sono vecchi, o forse no perché a volte sembra che delle mie ingerenze non sappiano che farsene. Anzi. Provate a convincerli di qualcosa che esula dal loro modo di vedere le cose. Provate a consigliargli di fare cosà anziché fare così. Leggevo che con l’età tendi a sviluppare sempre maggior cura su te stesso che forse è una forma di quell’anelito alla sopravvivenza per cui tutte le risorse a un certo punto le tieni ben strette. Comunque, essendo per mia fortuna un adulto che vive distante, la visita dai miei è un concentrato degli altri mesi di lontananza anche se, devo dire, alla fine mia madre cerca di omettere la parte diciamo dei doveri di cui dovrei occuparmi o almeno essere messo a conoscenza, che riguarda la salute e varie altre cose di cui è meglio non parlare, e si cerca di trascorrere le ore insieme come tutte quelle famiglie anomale che a un certo punto della loro storia sono composte solo da adulti. Una cosa che non riesco a non descrivere come poco naturale perché restano i sedimenti di quel conflitto di interessi per cui loro mi hanno lavato, alimentato, fatto studiare, hanno chiuso un occhio anzi due su tante cose che a pensarci ancora adesso provo vergogna. Quindi siamo adulti in un rapporto in cui c’è la mia vulnerabilità che è quella parte della mia vita che è stata di loro competenza, sempre che se la ricordino. C’è la loro vulnerabilità fisica ed emotiva, malgrado quel chiudersi affettivamente ci vuole davvero poco per ferirli, per vendicarsi del fatto che non sono più in grado di badare a te anche se non ne hai bisogno ma si sa, di questi tempi un back-up può tornare utile. Comunque, per farla breve, ogni volta che si conclude questa non stop di 48 ore in cui miracolosamente si completano due parti, un suffisso dentro di me e la sua matrice da cui ad un certo punto questa cedola mi è rimasta in mano, come quella porzione dei biglietti dei concerti che resta all’ingresso, tutte le volte è un evento piuttosto complesso che non saprei definire se piacevole o doloroso. Di certo è grave, nel senso di pesante, e mi si riempie un serbatoio che non riesco ad esaurire come un qualsiasi pieno di carburante, nel viaggio di ritorno, malgrado corra più veloce che posso.

qualcosa di bello

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Ieri mattina avevo proprio voglia di qualcosa di bello, solo che ero stufo di dovermi scavare dentro per trovarlo. A volere intensamente che accada una cosa si hanno le stesse possibilità di successo che tentare di piegare forchette con la forza della mente, lo sapete meglio di me, ma malgrado ciò ho pensato che cosa formidabile può essere, con questo stato d’animo, se qualcuno ti ferma per darti una buona notizia. Magari una persona che non ti aspetti che ti si rivolge con questo intento proprio in un lunedì mattina quando siamo tutti cupi, lottiamo per la sopravvivenza, ci fanno male le scarpe nuove che abbiamo comprato durante il weekend o semplicemente piove e l’ombrello è rimasto nell’altra borsa.

E nel mio caso mi sono immaginato di entrare in ufficio e di sentirmi dire qualcosa di eccezionale magari proprio dal mio capo, cosa che poi come è facile desumere non è successa. Il punto è sempre quello. Io come tutti voi – lo spero per voi – non mi posso lamentare di nulla, anzi. Sono fortunato sotto molti punti di vista. Ci sono dei margini di miglioramento, per esempio vorrei non essere proprio così lasciato alla deriva dalla mia famiglia di origine, mi piacerebbe arrivare a toccarmi la punta dei piedi quando eseguo gli esercizi di allungamento in palestra da seduto, mi tornerebbe comodo qualche soldo in più in busta paga, e chi non lo vorrebbe. Ma malgrado davvero non abbia nulla da obiettare, ieri mattina ho passato al setaccio tutti i sedimenti che voi non vedete perché vanno a depositarsi nel vissuto personale altrui, in questo caso il mio, e alla fine quello che ho trovato è qualcosa da scrivere, queste stesse parole, ma proprio non facevano al caso mio.

Ieri mattina, insomma, volevo qualcosa proveniente dall’esterno, qualcosa di fuori dall’ordinario, qualcosa di bello ma di bello davvero. Forse è per questo che poi ieri mattina mia figlia ha vomitato a scuola, ma ha assicurato alla maestra che ce l’avrebbe fatta a resistere fino alla fine delle lezioni. Malgrado ciò, la scuola ci ha avvisato. Io così l’ho chiamata, la maestra, che già mi stupisce il fatto che le maestre in classe rispondano alle telefonate al cellulare. Le ho detto che il lunedì è una giornata impegnativa perché ci sono tante materie importanti e volevo che mia figlia rimanesse in classe a meno di non farcela proprio più, ma la maestra non ha capito, poi forse sono io che al telefono con un’autorità come la maestra di mia figlia mi emoziono e mi mangio le parole, e ha riferito a mia figlia se poteva resistere malgrado stesse male perché sono il papà e la mamma, quelli a essere impegnati. Un equivoco che mi ha talmente spiazzato che non sono stato in grado di recuperare, poi non volevo disturbare troppo la lezione e ho ringraziato e riattaccato. Così ho fatto la figura di quello che vuole sbolognare i bambini alla responsabilità della scuola anche se ero pronto a tornare indietro, andarla a prendere subito e a trascorrere con lei la giornata a casa, che era quello, ho scoperto dopo, quel qualcosa di bello di cui avevo voglia.

multisala, tanti divertimenti in uno

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Sto aspettando che termini il sequel di un film per bambini di cui non ho visto nemmeno il primo episodio, seduto su una specie di divano nella hall di un multisala di provincia. Dalle mie parti funziona cosi: nel limite del possibile si portano i bambini al cinema parrocchiale che è una causa da sostenere, sia per una questione di principio che sotto il profilo economico. Costa poco e fa provare quell’effetto di comunità che nei posti come quello in cui vivo, in cui non si capisce bene la fine di un paese e l’inizio di un altro e quando tutto diventa città e metropoli, tutto sommato dà l’ebbrezza dei vecchi tempi, quando i bambini giocavano in strada e altre superficialità di un’epoca finita da un pezzo. La scelta di riserva, quando si vuole andare al cinema ma alla sala dell’oratorio non c’è niente di interessante, è il multiplex al profumo di secchiello di popcorn.

In entrambi i casi la dinamica è la stessa. Si mettono insieme tre o quattro compagni di classe e un genitore li accompagna, fa i biglietti, gli indica la sala e i posti. I bambini si sistemano e l’adulto di turno, oggi sono io, può fare quel che crede. La spesa nel centro commerciale annesso, per esempio. Io questa volta mi sono portato da leggere, sono al primo romanzo di Richard Ford che con Sportswriter è balzato nella top ten personale al fianco dei vari Auster, Delillo, Homes, Everett, Coupland e compagnia bella. Mi accomodo su un divanetto multicolore e per farvi capire quanto mi piace quel libro non mi distrae nulla, né il casino delle famiglie che corrono dietro ai figli né gli adolescenti all’assalto delle sale.

Fino a quando rifletto proprio su quell’utenza e mi meraviglia quel contrasto tra bambini troppo piccoli e le sagome cartonate dei loro eroi, le bestiole gialle di Cattivissimo me o i mostri della Pixar. Per non parlare delle scritte a caratteri cubitali: multisala con una freccia che campeggia sopra l’ingresso del cinema, per differenziarlo dal centro commerciale che gli fa da contorno, i cartelloni pubblicitari di attività locali che sperano nell’investimento in advertising tradizionali puntando a una clientela che i soldi li spende diversamente, a botte di 16 euro a testo per un film con occhiale 3D per esempio. E mentre osservo le famiglie mi sovviene un articolo che mi ha letto dopo pranzo mia figlia, una biografia di Martin Luther King, che è nato lo stesso anno di mio padre ma è stato assassinato a 39 anni. Questo solo perché tra un gruppo e un altro di paganti che si dirigono alle varie sale poso gli occhi su una pagina del libro e leggo proprio quella data, 1968, e l’attenzione sulla storia dura un’altra volta poco.

Vengo distratto da un dialogo tra un coppia di trentenni che si sono seduti a fianco a me. Sfogliano il dépliant con tutta la programmazione della giornata e si scambiano pareri molto vaghi sentiti altrove per scegliere quale film vedere, il che mi sembra curioso perché a me non verrebbe mai in mente di passare un pomeriggio in un multisala in quanto tale e poi lì, a seconda di cosa danno, decidere il film. Voglio dire, se vado al cinema vado a vedere un film non vado a vedere l’edificio indipendentemente dalla programmazione. Non so se mi sono spiegato.

Nel frattempo qualche spettacolo finisce. Escono di gran carriera dal corridoio cui si affacciano tutte le sale due ragazzi nordafricani, vestono giubbe smanicate di colori sgargianti e si allontanano di corsa, potete immaginare che cosa ho pensato. Là dentro, da qualche parte, c’è mia figlia e due sue amiche da sole. Vedo passare tante ragazzine e ragazzini e penso che un posto così, con tanto andirivieni di giovanissimi, potrebbe essere un posto perfetto non solo per la delinquenza tradizionale, avete capito cosa intendo. E per certi versi mi sento sospetto anch’io che osservo le persone passare, seduto da quasi due ore nello stesso punto della hall del multisala con un libro in mano che trascuro per tutte queste cose ed è inutile aggiungere che sono l’unico che è lì di domenica pomeriggio a fare una cosa anomala come leggere un romanzo anziché spippolare sullo smartcoso, mangiare gelati o popcorn o chiacchierare con altri. Non lo scrivo perché poi so già cosa uno può pensare, la superiorità morale e la cultura e cose così.

Insomma, qualcuno potrebbe pensare male, sono anche vestito abbastanza trascurato anche se non indosso smanicati di colore sgargiante. E mi rendo conto di tutto questo quando mi alzo, da lì a poco le bambine di cui sono in attesa usciranno da una delle sale, e due inservienti mi vengono incontro con passo piuttosto nervoso e penso che oddio, ora mi chiederanno cosa ci faccio qui e ci farò una figuraccia con tutte le famiglie e invece no. Mi fanno solo notare che ho lasciato il mio telefono sul divanetto, mi è caduto dalla tasca dei pantaloni. Li ringrazio, lo raccolgo e, non avendo con me carta e penna, lo uso per annotare l’accaduto.

di cosa profumano i vostri figli

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Li scrivo qui perché anche se è passato poco tempo non voglio dimenticarmene. Mi riferisco agli odori che si sentono quando c’è un bambino in casa, diciamo tra i zero e i dieci anni, la mia esperienza è questa. E ho già letto e sentito dire che poi subentra un altro genere di aroma, per certi versi meno gradevole perché riguarda la crescita, lo sviluppo, gli ormoni in subbuglio, le scarpe di gomma portate fino allo sfinimento e gli indumenti a fine giornata dopo ore e ore di scuola e di allenamento. Facciamo così una lista di quello che si sente addosso ai figli quando sono più piccoli perché poi piccoli non lo sono più e, a meno che non abbiate la fortuna di fare gli insegnanti del nido, materna o scuola primaria, tutto ciò finirà prima o poi in cantina con i quaderni a quadrettoni pieni di lettere panciute, attività manuali colorate in modo disordinato, vasini pupazzi lettere di Natale e tante altre cose che poi basta che mi viene da piangere.

Ho pensato di raccogliere qui questa lista di profumi dell’infanzia perché stamattina ho percorso un tratto di strada dietro a una mamma con un passeggino che sprigionava un forte odore di timo che non sentivo da anni, da quando mia moglie ed io lo spalmavamo sotto il naso e sul petto di nostra figlia – addirittura sotto i piedi, ci consigliava mia suocera – per mitigare raffreddori e intasamenti delle vie respiratorie. Io poi andavo matto – una vera e propria droga – dell’odore del cuoio capelluto, approfittavo di quando mi si addormentava addosso per snasare quella fragranza tipica dei primi mesi. Poi le creme e gli oli che si spalmano dopo il bagnetto, c’era una marca che preferivo su tutte, ogni tanto penso di acquistarne una confezione anche se non serve più giusto da tenere pronta in caso di malinconia olfattiva. E c’erano le gocce di essenza che aggiungevamo all’acqua del vaporizzatore, acceso fino a notte inoltrata per mantenere l’aria umidificata durante il sonno. Il profumo della pelle abbronzata mescolato a quello delle creme solari e della salsedine al mare, che a differenza degli adulti nei bambini è tutto molto soft.

Avevamo anche dei pennarelli profumati, ogni colore era un frutto diverso ed era sorprendente l’effetto sinestetico nei bambini e mi dispiaceva quasi usarli per la paura che poi finissero, tanto che qualcuno è ancora funzionante ma ha perso il suo effetto. Certi alimenti poi, dalle pappette alle minestrine e ancora prima al latte in polvere e i plasmon, l’alito che non è mai sgradevole come non si sentono mai le puzze corporee forti fino a quando poi comincia un po’ di quell’odore da tutto il giorno a correre e saltare che è il presagio che un equilibrio si è rotto, è il momento di farsi un archivio delle sensazioni che non si proveranno più. Che poi non è vero, magari da nonno avrò una seconda possibilità. Ora tocca a voi, la lista è ancora lunga, vero?