se vuoi trasformare il tuo ambiente di lavoro sei capitato nel posto giusto

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Federica e sua madre sono due versioni della stessa persona a qualche lustro di distanza l’una dall’altra. Le aziende che puntano sulle pluri-citate pubblicità prima e dopo la cura che, se le avete presenti, non ingannerebbero nemmeno un ipovedente boccalone, dovrebbero imparare dai casi più riusciti di coppie mamma e figlia come questa, quando cioè l’apporto genetico dell’altro genitore è impercettibile ed è facile giocare sul fattore dell’apparente dualismo giovane-meno giovane. La natura si diverte con queste trovate. Federica e sua madre poi vestono anche allo stesso modo e ostentano la stessa andatura, per non parlare del taglio di capelli. I colleghi assicurano che si scambiano i capi di abbigliamento come se fosse una cosa naturale e lo sarebbe se l’archetipo fosse Federica e la madre, come molte donne di quell’età, si atteggiasse a giovane d’oggi. Il nostro caso invece è l’opposto e Federica e sua madre vanno in ufficio vestite entrambe da cinquantenni.

La madre di Federica infatti è riuscita a piazzare la figlia come impiegata nella stessa associazione di categoria in cui lei è in servizio ormai da più di trent’anni, e se ci aggiungete il fatto che Federica vive ancora in famiglia, è single e ha una vita sociale circoscritta al lavoro che svolge, dal quadro che ne emerge uno può trarre tutte le conclusioni che vuole ma, almeno in parte, rimarrebbe vittima di un pregiudizio e di questi tempi voi m’insegnate che è bene lasciarli alle persone poco informate.

C’è infatti una differenza tra le due. Federica vorrebbe introdurre dei cambiamenti in ufficio, a partire da un contact center per organizzare e distribuire in modo più efficace le numerose chiamate che le arrivano e che occupano un buon 75% dell’attività che svolge alla sua postazione. Ha persino messo a punto un progetto completo di studio di fattibilità, KPI e tutte quelle robe inutili che insegnano ai master di marketing e lo ha presentato al segretario generale, una vecchia volpe degli impieghi da imboscato sulla cui scrivania campeggiano numerose stampe di foto della sua collezione di utilitarie d’epoca che conserva in un garage apposito comprensivo di sorveglianza per il quale spende un occhio della testa. Ogni venerdì ne sfoggia una differente e la parcheggia in uno dei posti riservati della sede. L’ultima che ho visto è una Fiat 126 color vinaccia, con il tettuccio apribile e dietro una sfilza di quegli adesivi ellittici che usavano prima di Schengen con la sigla di stati europei che non esistono più ma che testimoniano il glorioso passato da viaggiatore stravagante del precedente proprietario.

Federica si è ispirata al sistema di gestione automatica delle problematiche che hanno le compagnie telefoniche e le assicurazioni, il cui obbiettivo è di farti innervosire nell’attesa in modo da esercitare poi meglio il controllo della criticità. Ci sono fior di studi su questo approccio, credo sia una vera e propria scuola di psicologia, per questo la differenza la fanno quelli che partono con il piede giusto e danno per scontato che, al telefono, ci sarà da passare un bel pezzo. È fondamentale organizzarsi. Internet, un bel libro, la tv, ma mai riflettere sulla scelta della musica di attesa e della brevità calcolata ad hoc del loop scelto e intervallato alla voce che finge di tranquillizzare l’utente. Noi che abbiamo vissuto i fasti del trip-hop, in cui la reiterazione dei frammenti ritmici usati per la base era portata all’estremo, abbiamo un marcia in più in questa forma di resistenza. La sfida di Federica è però quella di proporre una canzone meno snervante della didascalica “Three is the magic number” o quel jingle di Fastweb fatto tutto di vocali in cui chissà quanti di noi ci hanno lasciato la pazienza. Ma non lasciatevi ingannare dalle apparenze. La scelta del brano, di puro valore estetico, è solo una piccola parte del progetto. Vi chiederete come viva la madre questa forte volontà disruptive, come si dice oggi, della figlia, un aspetto che a vederla al computer nelle sue maglie da donna di una certa età nessuno coglierebbe mai. Non ho un’opinione precisa su questo, ma posso sempre informarmi meglio.

cose che fanno volare

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Da giovedì scorso mia figlia è in vacanza. Ha dato l’orale dell’esame di terza media e dal giorno successivo ha preso a svegliarsi non prima dell’una. Non so se facciamo bene a lasciarla poltrire così a lungo, ma trovo che qualche giorno di ozio totale se lo possa permettere. La sensazione di non avere nulla ma proprio nulla da fare in un’età in cui non sei più un bambino è una fase che si presenta solo una volta nella vita e mia figlia ci è appena entrata. Non ricordo con quale consapevolezza si trascorrano i tre mesi di stacco prima delle superiori, per noi è facile pensarli come se capitassero a noi adulti ma per un tredicenne è tutto un altro paio di maniche. E non so nemmeno se qualcuno si sia mai rapportato a noi, a quell’età, nel modo in cui oggi noi genitori allestiamo la vita ai nostri figli, non so se riesco a spiegarmi. Io mi ricordo che ero abbastanza abbandonato a me stesso, sia mamma che papà lavoravano e non c’era molto da discutere. Il punto è che oggi quell’età coincide con un clima di leggerezza che non ha eguali. Pensieri da ragazzini, disimpegno, speranze, estate e vestiti leggeri, un sistema in cui sono totalmente de-responsabilizzati e al centro di tutto come mai nella storia del genere umano, in contatto con ogni angolo del pianeta grazie ai social e con una colonna sonora che, come da copione, ha tutte le caratteristiche per svuotar loro la testa dai turbamenti.

Quest’anno la scuola da cui mia figlia è appena uscita ha organizzato un ballo per i ragazzi delle terze. Quando lo abbiamo saputo ci è salita subito l’ansia. Avete presente i film americani, i ragazzi che invitano le ragazze, le limousine e i genitori che osservano le ragazze tutte acchittate abbandonare l’adolescenza? Ma è stato così parzialmente. I ragazzi hanno travisato l’invito a non presentarsi in bermuda e sneakers e si sono conciati come si conciano gli zarri quando vogliono sembrare eleganti, con il gel nei capelli e o pantaloni stretti sopra la caviglia. Le ragazze hanno scelto una via di mezzo ma si sono accordate per partecipare truccate e con le scarpe con i tacchi. Dopo diverse sessioni di shopping intensivo e disperato – quello che si consuma quando cerchi qualcosa di bello, che costi poco e che sia adatto a un’occasione specifica sapendo a priori che, dopo quell’occasione specifica, l’articolo non lo si indosserà più, il tutto con la complessità della mediazione adulto-ragazzo che, a tratti, rende impossibile portare a compimento anche le missioni più semplici – mia figlia ha individuato le calzature giuste, fermo restando che, da ragazza sportiva qual è, nella quotidianità non va oltre le Adidas Superstar. Io ci ho provato a insistere suggerendole di indossare gli anfibi con il vestito nero, in quanto da ragazzo impazzivo per le darkine messe così, ma non c’è stato verso. Dopo qualche prova sui tacchi ho visto così uscire da casa mia, la sera del ballo, una sconosciuta che non corrispondeva per nulla alla ragazzina a cui avevo accudito fino a qualche ora prima ma questo si sa, è una prova a cui non ci si può sottrarre.

Per farla breve, il ballo in sé è stato meno indimenticabile di quanto sarebbe potuto essere. A quell’età sono ancora troppo impacciati per approfittare di un’occasione di quel genere, in più alla festa – che si è tenuta in uno spazio della scuola – era presente una sorta di servizio d’ordine e persino il dj era il papà di uno dei festeggiati. Uno degli adulti infiltrati ha girato qualche secondo di video e lo ha postato sull’immancabile gruppo whatsapp allestito per ottimizzare i preparativi. Una carrellata della sala dove, nella penombra ravvivata da delle vere e proprie luci da discoteca, si vedono ragazzini dimenarsi. Dura pochi istanti, ma a lato si possono notare tre ragazze di spalle saltare a ritmo di una canzone. Quella in mezzo, con il vestito nero e i tacchi, l’ho notata subito per la bellezza ed era proprio lei. La canzone, in quel momento, era quella che probabilmente sarà ricordata come il tormentone di quest’estate, l’estate che forse solo mia moglie ed io ricorderemo per sempre come quella del grande passaggio, il primo straziante – per noi – salto nel punto interrogativo della vita. Ieri ero al bar qui sotto e, mentre aspettavo il panino, alla radio hanno messo proprio “Volare” di Rovazzi e Morandi, e tra me ho pensato maledetto Rovazzi, ascoltando la tua ultima canzone ricorderò per sempre quella dannata festa e mia figlia con i tacchi per la prima volta, nella sua vita.

ciao papà guarda come mi diverto

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Il mondo si divide tra chi legge libri, guarda film e ascolta musica che fa stare bene e chi legge libri, guarda film e ascolta musica che fa stare male. Il primo partito è quello che ricerca l’evasione dalla vita, il secondo è quello a cui piace riflettere sul mistero della vita e della morte e io sono tesserato dal 1967. Oggi, per dirne una, ho fatto fatica a ricordare se sono orfano di padre da due o da tre anni, spero che non se la sia presa e anzi avrei voluto aver la possibilità di ricordargli come vola il tempo con i rompicapo matematici. Mi sono infatti trovato a fare uno di quei calcoli incrociati in cui si prendono a riferimento avvenimenti di cui si ha la certezza di quando sono accaduti ma comunque i conti non mi tornavano. Ho pensato di chiamare mamma, lei di sicuro questo conteggio non corre il rischio di sbagliarlo, ma poi ho avuto timore della conversazione che ne sarebbe derivata. Di sicuro so che la ricorrenza cade in questo periodo ed è per pura combinazione che ho appena terminato la lettura di “Tra loro” che è il nuovo libro di Richard Ford uscito da poche settimane. Si tratta di un memoir che comprende due testi dedicati al padre e alla madre deceduti. L’opera è molto toccante, come potete immaginare, ma la parte che mi ha indotto più a riflettere è la postfazione dell’autore. Non voglio spoilerare ma dovreste leggerla con molta attenzione. Io l’ho fatto due volte, e non chiedetemi perché.

se il karma è questo allora preferivo i jalisse

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Ormai a cinquant’anni suonati vi sarete ben resi conto che non esiste nessuna relazione di causa-effetto tra cose che non si vedono e cose in carne e ossa, e che probabilmente se queste cose non si vedono è perché non esistono e, di conseguenza, non hanno nessuna capacità di fare il bello e il cattivo tempo qui sul pianeta terra. Forse il bello di scrivere storie e di fare film è proprio questo: ci piace creare scenari inventati in cui si muovono persone inventate che fanno quello che gli diciamo di fare noi, un mestiere che alcuni attribuiscono anche a divinità singole o plurime le quali, disegnando tutto quello che vedete (questo post compreso ma per interposta persona) si occupano poi di mandare in esecuzione gli algoritmi e quella sfilza di if-then-else che a noi mortali ci accompagna da mattina a sera e anzi, a onor del vero è in funzione anche di notte tant’è che ogni tanto succede che qualcosa va in crash e, tutto sommato, non è nemmeno un brutto modo per chiudere il programma. Vi è arrivata la metafora?

E se questa dimensione religiosa risulta una millenaria fantasia, che dire della corrispondenza tra il nostro comportamento e quello che ci può succedere di conseguenza, il cosiddetto frutto delle azioni compiute da ogni vivente che può determinare una diversa rinascita nella gerarchia degli esseri e un diverso destino nel corso della susseguente vita o per lo meno una scorta di fortuna per vivere sufficientemente in pace il prossimo futuro? Ieri sera, tra la numerose interviste a cui si è sottoposto Francesco Gabbani a ridosso della finalissima dell’Eurofestival (che, tra parentesi, se il reggaeton è lo sharknado della musica possiamo dire che l’Eurofestival è lo sharknado delle manifestazioni canore e davvero non mi spiego quanto siamo poveri nel cervello se riteniamo l’Eurofestival una cosa così da sfigati che ha fatto il giro ed è diventata un appuntamento che bisogna seguire per essere fighi), dicevo che tra la numerose interviste a cui si è sottoposto Francesco Gabbani a ridosso della finalissima dell’Eurofestival in una ha detto di non conoscere le sue probabilità di vittoria ma, a proposito del karma protagonista della sua hit, era consapevole di essersi comportato molto a modo prima per ottenere tutto il successo che ha comunque raggiunto, indipendentemente dall’esito della competizione.

Sappiamo però poi come è andata a finire, o almeno lo sappiamo noi che per sembrare fighi abbiamo più o meno seguito la finalissima dell’Eurofestival. Come un qualsiasi appuntamento importante in cui impegnandosi al massimo c’è la possibilità di vincere, non ci siamo impegnati al massimo e siamo arrivati sotto a nazioni che sarebbe meglio che la musica la vietassero ai loro abitanti, tanto non se ne capiscono. D’altronde se vai a un festival come quello che lo seguono per la maggior parte in posti dove la lingua italiana non se la incula di pezza nessuno, con un testo che non fai nemmeno lo sforzo di tradurlo in inglese perché guai si perdono tutti i giochi di parole, allora piazzarsi come ci siamo piazzati (e come ci piazziamo negli altri appuntamenti importanti della storia e dello spettacolo) non fa una grinza.

E il mio non è assolutamente un giudizio morale perché sono il presidente onorario del club di quelli che si accontentano e, come dice il motto, un po’ di goduria se la gustano. Perché si tratta di un club che è in realtà uno spin-off o, per dirla in politichese, una corrente di un club più nutrito che comprende tutti quelli a cui le cose non vanno come devono andare e che possono dimostrare, come dicevo ora, che karma o non karma, credenze a cui rivolgere preghiere o fare fioretti o meno, le cose come vanno non le smuovi di un millimetro a meno che non ti rimbocchi le maniche e non ti apri una partita iva per diventare un fautore del tuo stesso destino che suona un po’ come la formula “datore di lavoro di me stesso” che hanno i vostri amici dell’università della vita su Facebook.

E per farvi un esempio del karma di noi occidentali vi racconto questa storia che è successa a un mio amico. La figlia di questo mio amico ha giocato fino alla stagione scorsa in una squadra di pallavolo allenata da un vero e proprio subumano che insultava pesantemente le ragazze durante le partite e che faceva di tutto per mettere le giocatrici (e di conseguenza il loro genitori) in competizione con meccanismi psicologici piuttosto provanti per l’età delle atlete, tutte adolescenti. “Sei una merda!” gli urlava da bordocampo, “Fai cagare!”. Così, a fine campionato, i genitori hanno iscritto la ragazza in un’altra società che si è rivelata un vero e proprio paradiso della sportività. Il nuovo allenatore è un educatore oltre a essere un tecnico qualificato, le ragazze fanno gruppo, tra i genitori vige un’armonia che, mi racconta il mio amico, difficilmente si vede altrove. L’unico problema è che la vecchia società, quella con l’allenatore subumano, gioca per vincere con alti tassi di agonismo generati dal terrorismo che il subumano incute sulle atlete. Nella nuova si pratica invece lo sport, le ragazze si divertono di brutto e se si vince o si perde è lo stesso, l’importante è fare squadra e partecipare. Ma il campionato giovanile delle società “cattive” e di quelle “buone” è il medesimo, tant’è che proprio stamattina, mi racconta ancora il mio amico, le due squadre, quella vecchia con l’allenatore subumano e quella nuova con l’allenatore gentleman, si sono scontrate. La morale della storia del mio amico qual è: se esistesse il karma, se esistesse una qualunque forma di giustizia divina o di legge naturale per cui chi si comporta in modo sbagliato secondo i canoni della società occidentale (la stessa di occidentali’s karma), un incontro tra la squadra guidata dal subumano e quella dell’educatore dovrebbe concludersi come in un film, come in Rocky, in cui il cattivo soccombe e il buono, anche con gli occhi pesti, si gode gli abbracci e la vittoria. Ma nella vita vera in cui non c’è nemmeno un sceneggiatore sfigato come il sottoscritto gli eroi buoni, o almeno la figlia del mio amico e di conseguenza il mio amico che è il padre, difficilmente hanno la meglio e se qualcuno vi illude del contrario non dovreste credergli.

benvenuta

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Il momento in cui si palesa per la prima volta il tanto auspicato dialogo tra adulti con i propri figli arriva, prima o poi, e il passaggio a questa fase ha molteplici chiavi di lettura e, conseguentemente, permette altrettanti spunti di riflessione. Ma facciamo un passo indietro: li vogliamo grandi o piccoli, questi figli? Li preferiamo desiderosi di accudimento come gli animali domestici (spesso loro surrogato) oppure li vediamo pronti prendere in mano il nostro progetto come eredità qualunque esso sia, un’impresa, una passione o anche solo il primato nello stare al mondo che ci siamo costruiti e grazie al quale abbiamo trovato la formula per vincere sul prossimo? Certo, ogni variabile comporta conseguenze differenti dall’altra parte del rapporto. Figli piccoli implicano giovinezza lato nostro, figli adulti come minimo la mezza età. Insomma, basta che vi decidete. Io prendo un po’ quello che mi viene, un approccio ignorante che però al momento mi ha dato ragione. Ieri sera, per dire, eravamo soli a cena e per la prima volta ho avuto l’impressione di chiacchierare con una ragazza grande. C’erano già stati dei presagi riconducibili a quel particolare stato d’animo che va di pari passo con la condizione tipicamente femminile che conosciamo bene. Si erano verificate occasioni sporadiche in cui, durante alcune conversazioni, erano emersi processi logici molto diversi per i canoni della nostra famiglia e che potevano essere riferiti a un individuo a se stante anziché un elemento parte di un contesto che rielabora a modo proprio il lessico, il vissuto, il visto e il sentito in casa. Invece ieri sera a cena ho fatto domande a cui ha risposto una che si vedeva trovarsi al di qua della vita, o che comunque c’era già da prima ma è stata la prima volta in cui me ne sono accorto. In ogni caso, benvenuta.

ragazzi studiate, che è meglio

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Il futuro sta nelle cose che non sono quello che dovrebbero essere. Un libro senza trama, un disco senza suono, una casa non abitabile, cibo che non si mangia e una sedia che non ti regge. Campanelli che suonano fuori dalla porta e dentro non si sentono, scoop che rivelano cose trite e ritrite, spot pubblicitari in cui si omette il nome del prodotto. “Compratelo!”, dicono gli attori alla fine. Ok, ma cosa? Sui social, in questo futuro così irriverente verso l’evoluzione dell’uomo, si fanno conversazioni senza capo né coda, si fanno richieste senza poi curarsi della risposta ottenuta. Persino i PC hanno tastiere mute che inviano input a cazzo al sistema operativo, una funzionalità che non sfigura tra abitudini come mangiare avanzi di cibo senza riscaldarli prima, parlare senza dire niente, mettersi in macchina e partire senza destinazione. Ci si ferma dove capita e si pernotta lì, nel primo albergo che si trova. Sempre che in questo futuro esista ancora il settore dell’accoglienza. Io credo che tra un secolo le uniche costruzioni sopravvissute al progresso saranno i Data Center, e sapete perché? Io, tu che stai leggendo, tutti voi abitanti del mondo mondiale che riempite l’Internet di roba a partire dai milioni di miliardi di mail su Gmail che non cancellate perché tanto il signor Google vi lascia trilioni di terabyte di spazio a disposizione e chi se ne importa. Da qualche parte tutte queste cose devono essere contenute, o pensate che il Cloud sia composto veramente dalle nuvole che vedete in cielo? Ecco, moltiplicate questo accumulo compulsivo per i miliardi di persone che ci saranno nel 2117 e provate a pensare a quanti armadi di server dovremmo avere a disposizione. Noi esseri umani vivremo nei sottoscala di questi centri di calcolo ma tanto, come dicevo prima, per noi esseri umani sarà indifferente.

Scusate la completa sfiducia nel prossimo, ma ieri l’altro ho partecipato a un’assemblea di classe con i genitori, la classe di mia figlia, intendo, e sembra che in terza media più della metà dei ragazzi si presenti regolarmente alle lezioni ogni giorno senza aver svolto i compiti, con l’avallo dei genitori o, comunque, senza che i genitori si oppongano alla loro negligenza. Moltiplichiamo questo comportamento per dieci, cento, diecimila, mille milioni di scuole al mondo e tentiamo una proiezione sulle prossime generazioni e poi vediamo se non mi darete ragione.

ciao mamma guarda come non mi diverto

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Crescere i figli è un’esperienza totalizzante, e vista dal basso (in senso anagrafico) dei prodotti hi-tech della Stokke e della pedagogia creativa di Bruno Munari sembra spropositatamente lunga. Certo, si resta genitori per sempre. Ma basta fare due calcoli per avere il valore percentuale di quanto i nostri figli resteranno sotto la nostra ala protettiva, potranno essere controllati a vista, gli si potrà dire cosa fare e cosa no, ascolteranno la musica che gli consigliamo, in generale si lasceranno assecondare. A essere ottimisti vent’anni, ovvero un quarto di vita. In realtà già verso i quattordici si trasferiscono in un mondo parallelo anche se vivono sotto il vostro stesso tetto, ciò non deve esimerci dal non dare un’occhiata ogni tanto su quello che combinano dal vivo e sui social, in modo da intervenire proattivamente in caso di bisogno. Ma, e non vorrei spoilerare, ad un certo punto poi tutto finisce.

Proviamo a chiederci così che cosa fanno i genitori dopo l’esperienza totalizzante della genitorialità, quando poi i ragazzi dal mondo parallelo fanno armi e bagagli verso la loro vita autonoma e indipendente. Mamma e papà si comprano i camper e vanno a evangelizzare l’Italia e l’Europa sui brillanti successi di figli e nipoti, quando ne hanno, o girano il mondo in aereo con outfit discutibili e marsupi con il logo del tour operator, a parte quelli con la pensione minima, il cui raggio geografico di azione è sensibilmente inferiore? Si prendono ripetizioni dalle coppie rimaste all’asciutto per imparare a riscoprirsi in due? Voglio però tranquillizzarvi: dicono che ci sia ancora un ampio margine di contatto con propri figli per un bel pezzo, questo a patto di un impegno precedente alla costruzione di un rapporto unico in natura (e impensabile mentre li accompagnate per mano alla scuola materna) che è quello di considerarli adulti come voi, perfettamente alla pari. Se poi i figli surclassano papà e mamma in quanto a professionalità in un certo campo facilmente si ribaltano le parti. Chi non sogna una figlia chirurga in grado di fornire un supporto ai genitori anziani nell’unico campo che da una certa età età in poi conta davvero, che è quello della salute?

Nella maggior parte dei casi, però, è assente questo legame “pratico” reciproco o anche mono-direzionale. I figli oramai di mezza età fanno un mestiere di cui magari le loro madri nemmeno capiscono la qualifica, le madri sono anziane e malandate e anche distanti e quindi la possibilità di supportarsi è ridotta all’osso, ci si dà solo dell’affetto al telefono ogni tanto ma si sente che manca qualcosa. Il legame si fa sempre più liso da tempo, sbiadito dall’uso, dalla vita stessa, dalle mille cose da fare, dal disorientamento di trovarsi in mezzo tra due pezzi di sé che si allontanano in due direzioni opposte e non saper da che parte saltare e nella confusione. Nel mentre il tempo sapete come si comporta nei nostri confronti, e così poi ci si trova che c’è più ben poco da fare.

conoscere il passato non aiuta a interpretare il presente, almeno in musica

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Il pop oggi è un terreno di scontro generazionale tanto quanto anni addietro lo sono stati le rivalità tra genitori democristiani e figli simpatizzanti di autonomia operaia, madri formate alla scuola gentiliana contro giovani seguaci del sei politico, padri rispettosi delle regole e adolescenti autoriduttori o, per fare un esempio più consono, fan della musica classica di mezza età intransigenti su tutto il resto contro chi portava il rock in casa. Ma, come vedete, si tratta di piani antitetici, si parla di reazionari contro giovani ribelli, temi con cui scornarsi perché frutto di posizioni opposte. Invece la nostra generazione cresciuta nel pop e che ha passato la vita a erigere monumenti al pop si è sorprendentemente trovata contro la generazione dei loro figli che non ne vogliono sapere delle nostre lezioni di musica pop, un’attitudine, la nostra, che fa parte dell’approccio generale per cui ci sentiamo giovani anche a cinquant’anni e pensiamo di saper insegnare ai giovani (quelli veri) come si fa ad essere giovani.

In pratica abbiamo occupato i luoghi in senso lato e traslato e i momenti culturali che per natura appartengono ai giovani, e ora loro, non trovando spazio, si sono spinti giustamente oltre e secondo me è per questo motivo che ascoltano della musica veramente di merda, sempre che l’ascoltino. Perché noi genitori pop ci troviamo di fronte sia i figli che ascoltano della musica veramente di merda che quelli che non ascoltano musica, il che per noi che siamo nati e cresciuti con la musica come fattore distintivo è inconcepibile. Come non mangiare. Come non bere. Come non respirare.

Eppure è così e, tra le due varianti di questo decorso della civiltà come la conosciamo, non so quale augurarvi e augurarmi. Mia figlia, per esempio, ascolta roba tutto sommato di qualità ma, in quanto perfettamente integrata nel suo tempo, ogni tanto mi fa sentire canzoni che giudico vergognose, quasi tutte riconducibili ai fenomeni rap e trap locali, o brani resi celebri perché usati nemmeno in spot tv ma come sottofondo a meme di youtube, cose condivise che si diffondono a macchia d’olio e di cui si è smarrita la paternità (altro aspetto per me inconcepibile) fino al pop del momento, che tutto sommato tra quello che offre il panorama commerciale è il meno peggio. Io che sono piuttosto rigido su queste tematiche cerco comunque di non esprimere giudizi (nel tempo qualcosa mi è scappato, con conseguenze peggiori rispetto alla causa scatenante) e faccio del mio meglio per capire. Ed è questo che fa riflettere: decenni degli ascolti più estremi, di Clock DVA, Einstürzende Neubauten, i Ministry (cazzo, i Ministry), Ornette Coleman, Drexciya ma anche moltissima musica di adesso e millemila altra roba complessissima per poi non riuscire a comprendere Ghali o Sfera Ebbasta. I loro pezzi si librano negli ambienti di casa nostra riprodotti su supporti di qualità pessima – smartphone e pc portatile, questo è l’Hi-Fi con cui i nostri ragazzi stanno crescendo – e non avete idea di come si infrangano in mille pezzi contro il mio universo sonoro. La musica è cambiata e probabilmente non è nemmeno più musica, il pop è morto ma per fortuna io mi sento in forma.

atlante illustrato delle sensazioni, vol. 1

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Alle volte si sente la vita di un figlio battere nel petto e fare le nostre veci nel cuore, nemmeno si trattasse una banale giustificazione per non aver svolto i compiti che il prof. Destino ci ha assegnato per il tempo che ci resta. Si avverte la smania di un tredicenne che abbiamo lasciato ai suoi doveri di cambiare pelle, di cambiare corpo e aumentare la propria età a dismisura, pratica di cui noi genitori siamo ampiamente veterani. Se abbiamo impiantato qualche piccolo innesto di noi in loro, secondo quanto dovrebbe essere in teoria, in quelle sequenze di istruzioni contenute nei codici elicoidali di cui certa ingegneria si riempie la bocca, avvertire con un recettore indistinto da qualche parte dentro di noi (rigorosamente la mattina) quello che i figli sperimentano in quel momento, i palpiti dell’amore che si delinea confuso, gli sconvolgimenti dell’apprendere cose nuove in classe, la consapevolezza di nuove esperienze che vanno strutturandosi in un materiale a noi sconosciuto come risultato di una immaginaria stampante 3D, lo scorgere da qualche parte cose mai viste delle quali si prova una vaga percezione della loro possibile utilità in qualche tempo o in qualche spazio del futuro, capita che questo genere di sensazioni si facciano spazio in noi padri e madri come interferenze di una tv privata sulle frequenze di un palinsesto nazionale, cose che oggi col digitale oramai appartengono a una letteratura di fantascienza popolata da giovani ribelli pronti a colpire e a morire come se la vita fosse un film e i protagonisti loro.

Non so voi ma a me, la mattina mentre mi reco in ufficio, queste incursioni sono frequenti. Mi basta leggere le parole latino e greco in un libro ed ecco che mi sento come lei, la mia di figlia, posare lo sguardo oltre la finestra dell’aula di terza media per chiedere all’ignoto che avvolge la scuola che cosa sarà studiare quelle materie che al momento sono solo nomi indistinti, ma come è molto più probabile il tutto è frutto di quell’impercettibile moto in avanti che hanno i convogli ferroviari, quelli per i quali per qualche secondo non si capisce se ci si sposta da questa parte o dall’altra, in avanti o indietro, se in partenza sia il treno o la stazione e c’è bisogno di qualche conferma prendendo altri punti di riferimento. Dal finestrino entra un raggio di sole, ci sono tangenziali sovrappopolate da autoarticolati all’orizzonte, e nello stomaco si avvertono i crampi della fame di una colazione oramai lontana.

appena sufficiente in puericultura rende l’idea dell’attitudine di un genitore moderno

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Non lo trovate scandaloso? Con la nuova svalutazione dei voti e dei giudizi grazie ai quali siamo diventati grandi finisce che risulta che siamo tutti inadatti a fare i genitori, e la cosa mi fa sorridere perché mia figlia ha appena cambiato la prof di francese che è di manica stretta rispetto alla precedente, per cui tutti i nove di prima ora sono sette a malapena e camminare. D’altronde se è il destino che aspetta cose come ogni valuta, i temi oggetto del giudizio dell’opinione pubblica e persino certa cultura che ciclicamente viene messa sugli allori e dopo denigrata, non vedo perché non debba essere messo in discussione anche il mestiere più antico del mondo che non è fare soldi con il proprio corpo ma tirare su dei figli.

Guardate allora la colonna di questo quadrimestre: io mi sono ritrovato un appena sufficiente e non riesco a capire dove ho mancato. Certo, se ci mettiamo a pensare a cosa se ne faranno i nostri figli a settant’anni di tutte le innaturali attenzioni che gli abbiamo dedicato finiremo tutti con quei voti di latino che prendevo io in prima liceo che davvero, non so proprio cosa abbia spinto la Bagnasco a non rimandarmi.

Gli animali seguono i loro figli in ogni minchiata che fanno fino a venti o trent’anni? Vedete leonesse e leoni sugli spalti dei palazzetti a litigare con altri felini selvatici adulti per l’arbitraggio delle partite di pallavolo dei loro cuccioli? Conoscete madri e padri draghi di Komodo che prendono le difese della loro prole mettendo in discussione l’autorità dei professori e persino del preside? Avete le prove che gli scorpioni tappezzino le loro tane, ammesso che gli scorpioni vivano in tane, con foto di loro mentre tengono in braccio i loro piccoli al mare in Sardegna, ammesso che gli scorpioni trascorrano le vacanze estive per sette anni di fila nello stesso campeggio in Sardegna perché i loro piccoli si sono fatti gli amici lì? Ci sono ungulati padri che dicono alla figlia “sei una grande”, che la mettono nella top ten degli esseri viventi di maggiore influenza e sono completamente rapiti dalle sue gesta tanto da mettere in secondo, terzo piano e pure seminterrato la loro soddisfazione professionale? Non sto parlando di me, eh, sono esempi inventati.

Mentre cenavo, ieri sera, osservavo proprio un quadretto che ho appeso in casa con una sequenza di scatti su fondo blu di me che tengo mia figlia in braccio in acqua, a dire la verità eravamo in Corsica ma fa lo stesso. Così prima mi sono chiesto se mio papà mi abbia potuto mai aver tenuto in braccio così, e in caso positivo è impossibile da ricordare e forse è per quello che grazie alla fotocamera digitale ho – giuro – migliaia di foto di mia figlia fin dai suoi primi anni perché vorrei che almeno con le immagini mantenesse il ricordo di un periodo fondamentale della mia vita che probabilmente non coincide con la sua perché non se lo ricorda, era troppo piccola e c’erano altre priorità come completare tutte le connessioni neurali e diventare una persona fatta e finita.

E forse è per questo che ho preso un quattro meno in ricordi spontanei. Questa è una forzatura bella e buona e chissà se tutto questo focus sul sangue del nostro sangue non causi loro dei problemi. È la prima volta nella storia dell’umanità in cui al centro dell’esistenza delle generazioni di adulti non c’è né la sopravvivenza o mantenere acceso un fuoco tanto meno sfamare una famiglia, salvarsi dal campo di concentramento o portare a casa uno stipendio. Oggi ci siamo chiusi sui nostri figli e poveri i nostri figli, vedremo che ne sarà di loro ma anzi no, non vedremo un cazzo, perché alla domanda “cosa se ne faranno i nostri figli a settant’anni di tutte le innaturali attenzioni che gli abbiamo dedicato” la risposta è cazzo ce ne frega, saremo già morti ma gli abbiamo voluto un bene che non ha precedenti né paragoni nel mondo animale vegetale e persino delle cose inanimate e non sentiremo nessuno lamentarsi.