una madre non sbaglierebbe mai la taglia dei boxer del proprio figlio

Standard

Non è superstizione, piuttosto statistica. Più fai visita ai moribondi e più diminuiscono le probabilità che ti succeda qualcosa di sconveniente. Due su due a miglior vita è una percentuale del 100%, il che equivale a un jackpot ma al contrario, nel senso che è meglio non vincere o, per lo meno, sperare di arrivare secondi. Se c’è qualcuno più prossimo a tirare le cuoia di noi proviamo a stargli vicino il più possibile e vediamo se questa teoria funziona. In realtà, come ci insegna il Campo Minato poi ribattezzato Prato Fiorito che a pensarci bene è un po’ che non si vede sugli schermi degli ambienti di lavoro rilassati, la prossimità a una catastrofe non è per nulla vantaggiosa, come allo stesso modo si sconsiglia alla gente di ripararsi sotto gli alberi durante i temporali di montagna. E invece è alle persone che soffrono che bisogna stringerle a sé e toccarle, perché il conforto si trasmette come gli elementi conduttori che insegnano alle medie in scienze. Rivolgersi a loro come a quelli che sistemano gli scaffali al supermercato che nemmeno loro sanno dove si trova il sale grosso non serve a niente.

La vecchiaia e la malattia bisogna accarezzarle come si fa con la giovinezza e la salute, ho pensato proprio così mentre stringevo la mano a mia mamma che è in ospedale. E tra tutte le cose che potevo pensare di lei mentre mi parlava con la voce di chi ha il morale sotto i piedi è che ha badato all’approvvigionamento di biancheria intima a suo figlio, che poi sarei io, abbondantemente oltre il conseguimento della maggiore età.

Be’ che cosa avete da ridere? Le dicevo che avevo la mutande con i buchi e il rischio era che, in caso di incidente, al pronto soccorso tutto insanguinato qualcuno avrebbe potuto pensare male di uno strappo sulla cucitura dell’elastico. Così il pomeriggio della successiva giornata di mercato mi trovavo sul letto una risma di boxer blu perfettamente della mia taglia, una missione compiuta con una precisione tale che io non sarei mai riuscito a portare a termine così con successo. Ma nemmeno oggi, anche se mi tocca fare da me. Al massimo, appunto, ancora tra gli scaffali del supermercato, non trovando il sale grosso posso rifugiarmi nella corsia dell’intimo-uomo che frequento con interesse. Ho un debole per l’abbigliamento che si trova esposto nei supermercati anche perché oggi non è più solo appannaggio degli anziani. Quando cerco la mia taglia di camicie a dieci euro mi guardo intorno e capisco che non sono da solo. Per la biancheria intima posso avere a disposizione un vasto assortimento e stare al riparo dalle figuracce con le commesse dei negozi, con le quali sarei costretto a tirare a indovinare se per me ci vuole una M o una L. Solo mia mamma conosce questo segreto, devo spicciarmi a convincerla a dirmelo prima che sia troppo tardi.

potreste allora tenerveli a casa, sarebbe anche un modo per tagliare la spesa pubblica

Standard

La maestra A., che pur nella sua modestia porta avanti il suo lavoro con dignità e il massimo impegno, mi riporta la notizia come se fosse una confidenza, come se la colpa fosse sua se, con gli stessi bambini giorno per giorno da cinque anni, non è riuscita a insegnare non solo le materie ma a trasferire anche un appropriato metodo di studio e di esercizio. Questo perché ci sono almeno una dozzina di bambini che, il lunedì, si presentano in classe senza compiti svolti o fatti parzialmente. Che già a me sembrano pochi, quelli assegnati per il fine settimana. Mia moglie o io ci mettiamo insieme a nostra figlia e la seguiamo mentre porta a termine le consegne, cerchiamo di non intervenire tuttavia prestando attenzione a quello che fa. Un tentativo di non risultare troppo presenti e di non farle sentire il nostro fiato sul collo. Chiaro che se notiamo qualcosa che non va le andiamo in aiuto, ci sembra tutto sommato un metodo corretto, almeno finora ha funzionato. E tutto questo processo scorre comunque senza imprevisti: una manciata di operazioni, qualche frase da analizzare, un paio di esercizi legati a un brano di lettura, poi le paginette di storia, geografia, scienze e inglese. Un totale di un paio d’ore in tutto, distribuite lungo venerdì sera, sabato e domenica.

Eppure c’è chi o ritiene che siano troppi o proprio se ne fotte o magari pensa che i figli non vadano più accuditi così da vicino così grandi. Sono gli stessi che sostengono che quando loro erano bambini nessuno si sedeva al loro fianco per controllarne l’apprendimento. Un punto di vista che fa acqua, abbiamo dimostrato diverse volte quanto il paragone tra epoche differenti non valga. Più probabile la seconda ipotesi, e cioè che genitori e figli siano lazzaroni in eguale misura. Durante il week-end ci sono sempre mille cose da fare per cui i figli possono anche essere lasciati allo sbaraglio, l’importante è che non disturbino le attività di primo interesse. A quel punto già me li vedo, aggrappati alle console dei videogiochi, o a passare in rassegna i canali tv, o su Internet a inventarsi escamotage per superare le barriere di controllo e godersi il fascino del proibito. Oppure sabato tutti al centro commerciale e domenica al ristorante con amici e parenti, mettici poi le partite da seguire e lo shopping e i cugini a cena e alla fine tempo non ce n’è più. La maestra A. è amareggiata per la scarsa importanza che i bambini danno alla scuola che è quanto di peggio i loro genitori gli abbiano fatto apprendere. Istruzione e insegnanti non sono aspetti vincenti della nostra società, a loro è dovuto il rispetto che si meritano. Stipendi bassi, considerazione al minimo. E possono essere messi in discussione a nostro piacimento, tanto siamo noi che li stipendiamo, vero?

sarò la prima persona a darti il benvenuto

Standard

Qualcuno riaccende le luci, forse l’assistente che è rimasta in piedi all’ingresso, dove c’è l’interruttore. Quella non è né una sala riunioni né un’aula didattica, ma una stanza come tutte le altre, un po’ più grande e adatta a contenere venticinque barra trenta persone sedute, una tv di vecchia generazione con il videoregistratore collegato in scart e una specie di cattedra per chi deve tenere un discorso a un uditorio. Il neon fa i suoi bagliori introduttivi e lascia un po’ tutti delusi, dopo il buio con cui si è seguito il filmato che è appena terminato ci si aspettava un maggiore contrasto, colori più vivi, un surrogato della luce del sole più consono al mood, che dovrebbe essere pieno di speranze e ottimismo. Non a caso quello è uno dei pochi reparti di un ospedale in cui non si cura una malattia, non si guarisce da nulla. Nella maggior parte dei casi si entra e si esce comunque tutti in buona salute.

Ci si riappropria di quel chiarore approssimativo malgrado nessuno cerchi di condividere con il resto del pubblico un po’ di dissenso, stupore, paura e l’ignoto anche solo tramite un’alzata di sopracciglia o altre espressioni mute del volto. Nessuno è nemmeno in grado di capire se, a caldo, le riprese a cui quel gruppo di persone è stato spettatore possano essere categorizzate come film horror, commedia romantica, docufiction o che altro. Gli occhi si abituano alla luce e subentra la consapevolezza degli equilibri delicati da ripristinare. La sensibilità individuale e quella del partner al proprio fianco, la messa in discussione di quell’incontro collettivo programmato come elemento chiave del percorso, la violazione di una intimità alla quale nessuno in altre circostanze avrebbe rinunciato, la difficoltà di comprendere quale supporto morale la presa d’atto di una testimonianza concreta così realizzata possa recare.

L’audio poi, più che le immagini, è stato particolarmente forte, e non nel senso del livello del volume. Sentire le urla di dolore fisico della madre e i versi dovuti allo sforzo con cui esercitava le spinte. Le direttive dell’ostetrica e dell’infermiera che, intorno alla vasca, cercavano di tenere sotto controllo tempi e modalità di quel parto naturale in acqua. Il padre che alternava il ruolo di cameraman a quello di fornitore di supporto alla moglie, ora tenendola per mano e ora incitandola a portare a termine quel prodigio naturale che è la nascita di un essere vivente. Il gran finale, con lo zoom sulla creatura proiettata fuori, presa in consegna dall’equipe medica e indotta a salutare il mondo con un pianto esplosivo, coperto a tratti dai commenti disinibiti del papà con la bocca così vicina al microfono della telecamera. Il tutto senza titoli di coda, una colonna sonora, una fotografia adeguata. Ma lo scopo di aver mostrato quel video sul parto non è entertainment puro, come è facile immaginare. Il corso pre-parto comprende anche quell’esperienza necessaria quanto discutibile, un monito su quanto coinvolgerà quel gruppo di ascolto temporaneo inevitabilmente, di lì a poche settimane. Le primipare sembrano consapevoli di ciò che svilupperanno da sé per sopravvivere, i compagni si fanno domande. E il fatto che il filmato sia finito non risolve il problema. Proprio no.

le conseguenze dell’amore

Standard

La vita bisogna prenderla così com’è: quanta verità in una sola riga, anzi metà, specialmente di questi tempi in cui non c’è più Clarence Clemons che fa i soli di sassofono. E non ci si può fare nulla se sono in tanti a indossare tute di taglia approssimativa e scarpe da ginnastica nel weekend, la gente è stata persuasa dalle riviste specializzate in benessere urbano a sentirsi più comoda così, poco elegante e con abbinamenti di colore da divisa sportiva. Figuriamoci poi nell’anno delle olimpiadi dopo tutte quelle sfilate di atleti e campionesse in completi e tailleur nazionalisti, per assistere alle quali abbiamo persino rinunciato a qualche serata delle nostre ferie estive.

Ma quella frase lì, quella che ho scritto all’inizio, mi rendo conto che si tratti di una vera e propria rivelazione. Non che non lo sapessi già, o per lo meno non immaginassi che fosse proprio così, ma sentirselo dire dalla propria zia al telefono mentre si cerca di offrire il conforto alla perdita dello zio dopo che entrambi si è convenuto sul fatto che arrivare a un traguardo che già nessuno vorrebbe tagliare e in più in condizioni così come è arrivato lui, che sembra una presa in giro dopo una vecchiaia dignitosa, è meglio spingersi in avanti con il petto come fanno i centometristi e arrivarci prima possibile. Senza tuta e senza divisa, chiaro, nessuno vorrebbe ritrovarsi in un luogo sconosciuto tutto sudato e magari con la biancheria non proprio immacolata che chissà poi magari c’è qualcuno come al pronto soccorso che ci deve spogliare per sistemarci per bene, anche se sono convinto che là c’è tutto buio e a quel punto chi se ne importa.

Quegli zii, quelli di cui adesso è rimasta solo lei, avevano un figlio che era mio cugino, appunto, e che un giorno ha venduto tutto quello che aveva, persino un lettore cd portatile. Ha lasciato il lavoro, i genitori e anche me che eravamo piuttosto uniti perché oltre a essere cugini primi eravamo anche quasi coetanei e frequentavamo lo stesso gruppo di amici e se n’è andato a cercare fortuna in Messico. Qualche mese dopo l’ambasciata ci ha informato che era morto, ha avvisato noi che sull’elenco telefonico eravamo i primi con quel cognome e siccome gli zii non erano in casa ci ha pregato di comunicare noi l’accaduto ai genitori. Ricordo che ho accompagnato mia mamma da suo fratello e non vi sto a raccontare com’è andata perché è facile immaginarselo. Ma tutto questo mi è venuto in mente proprio quando ho sentito mia zia dire che la vita bisogna prenderla così come viene. Perché intanto dove sta scritto che i figli poi un giorno se ne vanno a vivere distanti e che tutti gli animali lo fanno, forse perché la natura è così altrimenti il branco o il clan o la famiglia, chiamatelo come preferite, poi diventa troppo numeroso tra nipoti e pronipoti e bisnonni e avi non c’è da mangiare a sufficienza per tutti. Meglio dividersi e spartirsi i territori di caccia.

Ma non riuscirete a convincermi, proprio per nulla. Dove sta scritto che non c’è posto per tutti e che c’è bisogno di avere un casa propria con un arredamento economico e degli hobby se poi è così piacevole anche solo passare il tempo a guardarsi perché non c’è nulla che valga di più, figli e padri e madri che cercano di capire come è stato possibile, chi ha avuto per primo quell’idea vincente di brevettare la meraviglia di esserci, a pochi metri, basta mettere il segnalibro e allungare il braccio e ci si sente, in carne e ossa.

non me ne parlare

Standard

Giusto per chiudere il cerchio sulle complesse dinamiche famigliari nel caso in cui tutti i componenti hanno un’età compresa tra i quaranta circa e gli ottanta o giù di lì, è significativo sottolineare l’idea che gli anziani genitori hanno dei figli adulti e quali ricordi portano con sé del loro vissuto. La componente materna tradizionalmente si sofferma spesso sul periodo tra i zero e i dieci anni. Tutto il resto della vita, magari anche fatto di successi e soddisfazioni personali e professionali giace invece in una memoria back-up raramente consultata, il che induce a pensare che i suddetti successi e soddisfazioni personali e professionali in realtà abbiano un misero valore relativo. La componente paterna, invece, specie se tende a quell’esplosivo mix di umore nero (giustamente) causato da età avanzata e depressione più o meno latente, conserva con sé pronti da sfoggiare a ogni incontro con i figli – occasioni in cui, essendo rade e tenendo conto che la memoria non è più brillante come un tempo, facilmente si tende a ripetere sempre le stesse cose – quei due o tre aneddoti fortemente imbarazzanti per la controparte. Cioè capita che sei lì a cena e così d’emblée ecco che senti tuo padre raccontare di quella o quell’altra volta che e così via. Ora è piuttosto naturale avere commesso errori nella propria vita e avere cose di cui vergognarsi, pochi sono immuni dalla normalità, ma diciamo che in quattro decenni e rotti di esistenza argomenti inediti di discussione possono essere facilmente rinvenuti. Così uno inizia da capo ogni volta con lo stesso spirito positivo e i buoni sentimenti fino a quel momento di rottura: rottura dell’armonia, rottura di coglioni.

segni dell’antica fiamma

Standard

Sinceramente non ricordo quando sia successo a me, ammesso che a me sia successo. Sta di fatto che qualche giorno fa, mentre eravamo a spasso freschi freschi di vacanza, mia figlia a sette anni e mezzo e quasi in terza elementare ha fatto un po’ di domande sull’amore, sui sentimenti e sulle relazioni al suo papà. A me. Ammetto che è dal giorno in cui ho scoperto il sesso della creatura che si stava sviluppando dentro mia moglie che aspetto con angoscia momenti come questo, un temibile elenco di incontri ineluttabili con il destino che comprende, in ordine cronologico, altre scadenze quali il primo ciclo mestruale o il suo primo appuntamento.

Ma verso questi ultimi due, sarà che mi sembrano ancora lontani, non nutro una particolare ansietà. Giuro. Nel primo caso si tratta di un passo dello sviluppo naturale, come lo svezzamento o i denti da latte che lasciano il posto a quelli da adulti. E per quanto riguarda il primo appuntamento, per ora, mi limito a un boh, cioè nel mio immaginario ci sono numerosi film americani in cui i padri guardano le figlie in attesa che il campanello suoni e che dicono loro che sono bellissime tanto da poter far girare la testa a chiunque, mi viene in mente per esempio Pretty in pink. Ecco, magari la fatidica sera schiatterò di gelosia ma mi sforzerò di comportarmi così, e, appena uscita, metterò su i Psychedelic Furs, mi attaccherò alla bottiglia di Cognac e piangerò sulla spalla di mia moglie, che più razionale di me mi consolerà mettendomi al corrente di tutte le informazioni che ha raccolto di nascosto sul (o sulla) mini-pretendente.

Invece, b-movie americani a parte, ammetto di non essere stato abbastanza pronto a sostenere una conversazione sull’amore proprio ora, cioè così presto, temo di non aver reagito con la acuta sagacia che ha contraddistinto fino ad ora il mio ruolo di padre (ehm). Ma forse non era ancora la volta decisiva, cioè si è trattato di una chiacchierata sui generis, volta a soddisfare la curiosità scaturita dalla sua ennesima lettura vacanziera. I termini con cui mia figlia ha presentato le sue argomentazioni sono rispettabilissimi ma ancora nella sfera un po’ caotica della prima infanzia. Dove cioè l’amore è quella cosa che i bimbi vedono nell’unione dei genitori (quando sono uniti, naturalmente) e che si alimenta da fonti aleatorie quali i cartoni animati, le porcherie della pubblicità e della tivù, le canzoni, i libri, i fumetti, le copertine delle riviste da grandi (e purtroppo da adulti) nelle edicole, i racconti dei propri fratelli/sorelle maggiori o dei fratelli/sorelle maggiori dei compagni di classe, i compagni di classe che mediano, anzi, distorcono tutto quanto, probabilmente la fonte più pericolosa.

Ogni bambino ha una sua innamorata, a quanto pare, e non tutti sono corrisposti, fortunatamente. Perché c’è Tizio che dice di amare tutte, ma solo in due ammettono di essere fidanzate con lui. Ci sono già le classiche catene, A che ama B ma B è innamorato di C che però ama D che vorrebbe stare con E a cui è antipatico A. Eh, bambina mia, c’est la vie. Ne vedrai di ogni. E le bambine che vogliono baciare altre bambine non necessariamente, cerco di spiegarle, hanno un orientamento omosessuale. Gli esseri umani si abbracciano e si baciano anche perché si vogliono bene, ci sono numerosi livelli di amicizia, l’amore è un’altra categoria, non necessariamente al culmine di intensità. E c’è Caio che dice di essere ossessionato, ama mia figlia dalla scuola materna. Tranquilli, tutto sotto controllo, so a chi si stia riferendo, sono mesi che non si vedono più, non c’è pericolo di un fidanzamento prematuro.

E poi, le dico, da qui alla terza media, età in cui più o meno avvampano le prime cotte serie, c’è tempo, chissà quanti bambini o ragazzini avrai conosciuto e avrai considerato simpatici. Ma a quel punto sono un po’ scosso, chissà se davvero sono stato esaustivo. La guardo, lei mi sorride e mi prende per mano. Papà, prima di salire in casa giochiamo un po’ a ping-pong? Whew, tiro un sospiro di sollievo, forse sono ancora ai primi posti della sua classifica. E ho ancora qualche mese di tempo per prepararmi meglio.

una parte di noi

Standard

Cerco di raccontarvela come me l’hanno raccontata loro, io non c’ero e quindi spero di non inventarmi particolari, magari presa dall’entusiasmo, e di mantenermi fedele ai fatti. So che si sono dati appuntamento verso le sei, all’uscita della Coop. Non l’Ipercoop, che è gigantesca e ha più uscite e poi è fuori dal paese e ci si più solo arrivare in auto, o in bici ma se fa caldo, non certo a febbraio. La Coop quella piccola, il supermercato di una volta, dove si va a far la spesa giorno per giorno. Beh, per farla breve, si sono incontrati lì fuori.

Lui tornava dal lavoro, era un venerdì – notte di silenzi e di luna piena, eh, scusate, papà mi ha contagiato con la mania delle citazioni dalla musica pop – dicevo era venerdì, e era riuscito incredibilmente a chiudere tutte le urgenze a cui stava lavorando, che poi non ho ancora capito che cosa voglia dire lavorare alle urgenze, ma il lavoro non si può pianificare? Il giorno X era ormai passato da un pezzo, quasi due settimane, e quindi poteva succedere da un momento all’altro. E quel venerdì era un venerdì particolare: sarebbe cambiata la luna, quella sera, quindi tutto faceva pensare che finalmente fosse il momento buono. Un’intervista dopo pranzo e poi subito via verso casa, tra i sorrisi e gli abbracci delle amiche colleghe.

Lei invece, a casa da un paio di mesi, era alla Coop giusto per il pane e il latte, e soprattutto per fare quattro passi, tutti le dicevano che fa bene camminare e fare movimento, nella sua condizione. Da lì sono rientrati insieme, un check se tutto era pronto, la valigia con il necessaire per stare qualche giorno via e qualcosina già per me. Poi le operazioni di routine: mangiano qualcosa, seguono il tg3, le telefonate del caso, si tutto ok, stiamo bene, appena ci sono novità vi informiamo, non preoccupatevi. Credo che per precauzione abbiano persino lasciato l’auto fuori dal garage, lui è il più ansioso. Ha stampato persino il percorso più veloce, a seconda dell’ora di percorrenza ci potrebbe essere traffico in un senso o nell’altro, meglio avere strade alternative. Dopo cena sono scesi gli amici dal quinto piano per un momento di relax e una partitella a burraco. Verso le 23 gli amici tornano a casa, sì se abbiamo bisogno vi chiamiamo. A quel punto, ecco che succede. Il tempo di chiudere la porta con tutte e quattro le mandate, lei entra in bagno per prepararsi ad andare a letto. E proprio in quel momento avverte qualcosa. Panico. Anzi, niente panico. Entrambi seguono la procedura di emergenza che hanno programmato da mesi, un’ultima occhiata alla casa che non sarà mai più come prima, lui si carica lo zaino e la valigia sulle spalle e via, si parte.

Ma, e almeno questo è quanto sostengono loro, non è stato semplice. Avevano pianificato di farlo in acqua, ma per essere meno vincolati avevano prenotato addirittura una camera adibita a questo tipo di cose, nella quale potesse rimanere anche lui e partecipare attivamente a tutte le fasi. Avevano seguito anche un training, lui poi in segreto mi ha confessato che era rimasto piuttosto impressionato da un video che avevano proiettato, ma avrebbe comunque resistito fino in fondo. Ma lì qualcosa non ha seguito il corso giusto. Addirittura dopo ventiquattr’ore non era successo niente, lei a intervalli regolari si alzava e camminava sorretta da lui, poi si appoggiava e soffriva, come soffrono tutte le donne ma chissà che tipo di dolore è, mi hanno detto che ci sono probabilità che un giorno lo dovrò sopportare anche io.

Passa un giorno intero e la cosa inizia a preoccupare entrambi, lì alla struttura a cui si sono rivolti tengono comunque tutto sotto controllo. E anche se la filosofia è quella di seguire la natura, se la cosa ritarda ancora un po’ hanno deciso di intervenire. E così fanno, a distanza di trentasei ore, praticamente. Loro due si salutano, si abbracciano, perché nel modo in cui andranno le cose lui non potrà esserci. Solo personale dedicato e, ovviamente, lei. La protagonista vera. Insomma, io non mi ricordo nulla. Ma mi hanno detto che mi hanno tirato fuori e avevo una specie di tubo arrotolato intorno, e che se non fossero intervenuti con le maniere forti poteva anche essere pericoloso. Ma dicono che, per me, questo sistema alternativo è stato meno traumatico della procedura standard.

Insomma quindi ho messo la faccia fuori da lì e ho iniziato a strillare, poi lei mi ha stretto in braccio e piangeva, mamma si commuove sempre per qualsiasi cosa, alla fine dei libri, sui titoli di coda dei film e anche per la pubblicità della Barilla. Dopo i controlli, mi hanno infilato in una scatola trasparente e portata con una specie di carriola su, nel reparto dove mi aspettava il mio papà. Anche lui, appena mi ha visto, ha pianto un po’, gli hanno messo un camice verde che gli stava malissimo con le scarpe che aveva su, ma mi ha assicurato che non c’erano altri modelli. Quindi cuffia, mascherina e guanti e poi è venuto vicino a me. C’era un buco, in quella scatola, lui ha infilato la mano dentro, gli ho afferrato un dito, e con quel poco che potevo vedere credo di aver letto il labiale di quello che ha detto, una cosa tipo “ti sarò sempre vicino”. Già. Tra poco portano su anche la mamma, dài che si comincia.

manifesto rancore

Standard

Q.: Dottore, temo di aver causato una frattura insanabile nel rapporto con i miei genitori.
A.: La fermo subito. Le ricordo che anche lei fa parte della categoria.
Q.: Sì, lo so, ma preferirei continuasse a trattarmi da figlio. Li odio. Odio il fatto che siano vecchi e siano diventati individualisti, egoriferiti, poco affidabili, sempre bisognosi d’aiuto. Sperperano per loro e sono avari con me. Non si interessano delle cose che faccio, parlano solo di cibo. Così vivo costantemente nel senso di colpa: da una parte mi sento di dover amarli in quanto padre e madre, dall’altro cerco di evitarli e ogni volta che accade di dover passare tempo con loro vado in ansia. Detesto la loro casa piena traboccante di cose che continuano ad accumulare. Cose inutili, libri, riviste, giornali, vasi, piatti, soprammobili. Non gettano le cose rotte, non gettano le cose che non servono più e che continuano a giacere pieni di polvere in ogni cassetto, o in bella vista su ripiani, librerie, tavolini. La mensola sul camino, murato da quando mia mamma scoprì che vi entravano i topi dal tetto, è sommersa da orologi. La sveglia della casa di campagna della nonna, la paccottiglia cinese comprata a un euro, il finto pendolo rotto da secoli. Le pareti sono nascoste da piastrelle, stampe kistch e quadri di nessun valore.
A.: E nella sua ex-cameretta?
Q.: Gli stessi poster che avevo appeso da ragazzo. I Cure, Morrissey, i Depeche. Alcuni sono stati sostituiti da vecchi calendari dozzinali.
A.: Si ricorda i poster che sono stati sostituiti?
Q.: Avevo una gigantesca riproduzione della celeberrima foto di Che Guevara. Sparita.