novantuno, l'assolo di sax soprano

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Peggio di un pezzo fusion c’è solo un assolo di sax soprano su un pezzo fusion, con quegli acuti irritanti che già hai la testa divisa in porzioni quanti sono gli strumenti che suonano perché, si sa, nella fusion è di rigore andare ognuno per i fatti propri, per non parlare dei batteristi che a furia di scomposizioni ci vorrebbe un canale intellettivo per ogni elemento del set di cui si compone la loro batteria e se considerate che i batteristi fusion non lesinano in quanto a tamburi e piatti uno, dopo un pezzo, ci esce pazzo, e se poi ci metti uno dei timbri più estremi dell’arco acustico del mondo mondiale (il sax soprano, appunto) la musica diventa una vera sofferenza.

Ma se resistete all’esperienza di ascolto vi troverete sicuramente migliori alla fine del brano anche se abbandonati dalle vostre mogli o più single di prima, perché se già le donne odiano il progressive è facile definire il sentimento che provano verso la fusion. In questo mi sento femminista anch’io perché certa fusion è un mero esercizio di stile o masturbazione strumentale e già vi vedo pronti con le vostre eccezioni e così vi fermo subito dicendo che fatta eccezione per i Weather Report e gli Steps Ahead mi dispiace ma non mi convincerete mai.

Il fatto poi che la fusion sia un genere prettamente da uomini (le donne in questo sanno molto meglio di noi prendere decisioni in grado di migliorare la loro qualità della vita) lo si evince anche dalle espressioni che i nostri visi mascolini assumono seguendo emotivamente le traiettorie impazzite che gli strumenti solisti fanno, a partire proprio dal sax soprano, durante le esecuzioni.

Una delle cose più divertenti osservando il pubblico della fusion e del jazz, che ricordiamo è composto per i tre quarti da gente che suona fusion e jazz e per un quarto da veri e propri casi umani e un altro quarto dalle compagne di vita di tutti questi e lo so che in tutto fa cinque quarti ma se siete addentro alla fusion saprete che i tempi dispari vanno per la maggiore, dicevo che una delle cose più divertenti osservando il pubblico della fusion e del jazz sono le smorfie che la gente fa ascoltando le improvvisazioni e gli assoli dei musicisti.

Avete presente quello spot che si vede alla tv in cui si mettono alla berlina le nostre facce allo specchio quando ci facciamo la barba? Ecco. Se frequentate i concerti fusion ci si diverte molto di più a dare le spalle al palco e osservare le smorfie che fanno gli ascoltatori, il modo in cui serrano le labbra, corrugano la fronte, spalancano gli occhi alle aperture improvvise, inclinano la testa nei passaggi più intricati, la chiudono tra le spalle nei momenti di disorientamento armonico, alzano il mento nei casi di incomprensione melodica, si rasserenano a valle delle risoluzioni più rassicuranti, ondeggiano il capo quando ritrovano il ritmo, arricciano il naso quando l’uno, il battito che è l’inizio e la fine, l’alfa e l’omega, viene volontariamente occultato per aumentare il senso di fuggi fuggi generale tra i musicisti.

E questa volta, visto che siamo in tema di codici comunicazionali strampalati e linguaggi che generano incomprensione, vediamo se avete capito il titolo che ho dato a questo post, che è un titolo veramente fusion.

giuffre, bley, swallow

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Non sono un esperto di jazz, lo ascolto e ho anche cercato di suonarlo e, non essendo un tecnico e, soprattutto, avendolo studiato solo superficialmente, difficilmente sono in grado di esprimere giudizi più approfonditi di bello, mi piace, un po’ troppo mainstream, cool, che palle, eccetera. Anche perché pure il jazz è finito nel calderone delle contaminazioni, fortunatamente, trasmettendo ai non addetti ai lavori un’immagine di un genere che, una volta severo, ha iniziato a prendersi un po’ meno sul serio e che oggi comprende una gamma di spin-off che vanno dall’avanguardia punk-jazz alle Montecarlo Nights da anticamera del dentista.

E dal jazz viene uno, anzi due dei dischi più importanti della mia collezione, quegli ascolti che metto su e resto lì fermo, con uno stato d’animo reverenziale, perché contengono in sé tutto. Li considero l’alfa e l’omega dell’armonia, perfettamente equidistanti tra il jazz e la musica classica contemporanea, acceleratori di elucubrazioni serviti a una temperatura fredda al punto giusto. Sto parlando di Thesis e Fusion del Jimmy Giuffre Trio, l’ensemble guidato dal clarinettista scomparso nel 2008 e composto insieme a Paul Bley e Steve Swallow.

Thesis e Fusion sono due dischi usciti nel 1961 e poi racchiusi giustamente in un unico doppio CD pubblicato nel 92, perché sono uno il completamento dell’altro. Vi rimando ai gezzofili più autorevoli del sottoscritto e soprattutto a questo bel post di Borguez, che ha organizzato ottimamente i molti spunti di quest’opera, io certo non sarei stato in grado di metterli in forma così comprensibile. E, come lui, sottolineo la difficoltà di inquadrare facilmente un capolavoro musicale estremamente moderno allora come oggi. Peraltro, ho scoperto che su Dustygroove è disponibile anche in vinile.