Il vento, venendo in città da lontano, le porta doni inconsueti, di cui s’accorgono solo poche anime sensibili

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Ieri lungo un’elegante strada perpendicolare a viale Molise, che se non siete di Milano (non è un difetto, nemmeno io sono nato qui) è uno degli anelli concentrici a elevato scorrimento intorno al centro città, ho sentito forte e chiaro il profumo dei funghi. Non funghi cotti, come li chiamiamo noi i funghi a funghetto o fritti o anche scottati sulla stufa di ghisa come quella che avevo in campagna. Nemmeno i funghi sott’olio che preparava mia nonna con interminabili giorni di lavorazione, le superfici dei mobili disponibili sgomberate dai suppellettili e sommerse di funghi bolliti e il forte odore dell’aceto. Per non parlare dei funghi da supermercato, quella roba insulsa che la usi per cucinare il sugo ma che non sa di nulla e a mangiarla non dà nessuna soddisfazione. Intendo invece il profumo dei funghi con il gambo piantato saldamente nel sottobosco e la cappella che si mimetizza con le foglie che l’autunno non risparmia a nessun albero, sempreverdi esclusi. Ho attraversato la strada e appena salito sul marciapiede opposto mi è subito arrivato alle narici l’odore inconfondibile dei funghi. Non potevo fermarmi perché i treni non aspettano quelli che si distraggono a cercare i funghi in città, e, a proposito, mi sono sentito subito un po’ come Marcovaldo. Ho dato solo un’occhiata veloce in giro ma di aiuole o strisce di terra non asfaltate dove trovare i funghi urbani non ne ho viste nemmeno mezza. Illusione olfattiva? Reminiscenza proustiana? Oppure ho forse equivocato un odore corporeo di qualche passante dalla discutibile igiene personale? Chissà. La stagione però dovrebbe essere quella giusta, così ho deciso che oggi proverò a cercare con più calma. Vi do appuntamento a dopo la lavanda gastrica.

quanti minuti erano, quelli di celebrità pro capite?

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Quando gli hanno chiesto se se ne intende di funghi, ha contratto il viso in quell’espressione come a dire “a me me lo vieni a chiedere”, ma non gli è venuta bene perché seduto sulla poltrona del barbiere con il telo stretto intorno al collo gli risultava difficile voltarsi di lato a meno di non sembrare affetto da emiparesi. Così l’ha fatta con un po’ di sforzo usando lo specchio come guida ma non è la stessa cosa. Le persone come lui – e come me, del resto – con i lineamenti così asimmetrici, quando sono riflesse risultano l’opposto della loro natura e fanno fatica loro stessi ad esprimersi a smorfie perché perdono tutti i punti di riferimento. Tutto è agli antipodi del loro modo di controllare il corpo e così la contrattura dei muscoli del viso risulta innaturale. Per farla breve, si è come composta una maschera di parossismo apparentemente eccessiva per una notizia del genere, poi invece sin troppo contenuta nel momento in cui il pensionato che teneva banco con le sue storie di ritrovamenti soprannaturali ha dato due ditate sul suo smartcoso, così  sproporzionato per le sue mani prematuramente fiaccate dall’artrosi e gli ha fatto vedere la fotografia.

Che poi la conoscete anche voi la tipologia di avventori che si può incontrare la mattina di un giorno feriale nella bottega di un parrucchiere da uomo. Anziani maschi benestanti che non hanno di meglio da fare che usare quel posto come ritrovo, di certo più economico e salutare di un bar dove bicchieri di bianco e videopoker attirano quella curiosità dilatata dall’inoperosità di chi dopo decenni di fatica si ritrova forzosamente con le mani in mano. Così eccoli qui a trattare gli argomenti tipici da maschi benestanti di mezza età tendenti alla vecchiaia, temi che virano tutti verso vino, ristoranti, racconti inerenti ristoranti e vino e, da qualche anno a questa parte, elettronica consumer. E che poi ancora l’elettronica consumer serve sempre più come supporto dei due temi tradizionali, le gite eno-gastronomiche e le vettovaglie acquistate in tali occasioni, per testimoniare l’abbondanza delle portate o una notizia bomba come quella da cui siamo partiti, che è il ritrovamento di un fungo da 11 chili e mezzo. Non ci credete nemmeno voi, dite la verità.

E quella del “porcino geneticamente modificato” è stata la battuta di risposta dell’uomo che era servito in quel momento da uno dei due soci dell’esercizio, che, prima di verificare alla fonte il miracolo compiuto, aveva dichiarato la sua provenienza. E cioè quel paese dell’appennino in cui l’aria di mare si incontra con l’aria di montagna facendo sì che i funghi, lassù, siano particolarmente buoni. Cosa che non si è mai capito se si tratti di una  leggenda metropolitana, anzi, campagnola, soprattutto di questi tempi in cui le confezioni di funghi locali vengono spesso contraffatte con prodotti non autoctoni, per dirla con un giro di parole, un po’ come succede per ogni manufatto occidentale dall’89 o giù di lì.

Ma l’immagine non lasciava spazio a equivoci o bufale degne dei più popolari social network. La foto del suo ritratto con in braccio quel porcino mannaro, il mico-mostro da undici kg e rotti, alto come un esemplare di cane di mezza taglia, un ombrello largo come un trentatrè giri, retto a fatica come certi uomini tengono stretti a sé i nipoti in età prescolare, era disponibile a tutti. Così l’altro parrucchiere, quello temporaneamente a riposo, ha fatto notare al fortunato autore del ritrovamento che se avesse comunicato la notizia ai media – non ha usato proprio quest’espressione ma il concetto era quello – la sua foto sarebbe finita su tutte le prime pagine dei quotidiani locali e, sicuramente, alla tv, che di questi tempi è satura di programmi di cucina e di torbide anomalie della natura e dei comportamenti dei suoi abitanti. La preferenza va a quelle umane, ma in mancanza di meglio una devianza dal regno vegetale farebbe comunque la sua sporca figura. Ce lo immaginiamo tutti, vero, il plastico del bosco con l’iper-fungo da Vespa.

E dev’essere proprio questa la visione che in quel momento hanno avuto tutti e soprattutto lui, che ormai il fungo lo aveva affettato, impanato, in parte bollito per la sua conservazione sott’olio, ma per la maggior parte cucinato, mangiato e digerito. La fama che sfuma per non aver saputo sfruttare appieno la scoperta sensazionale, limitandosi a uno scatto sfocato con cui bullarsi con gli amici paesani nel negozio del barbiere, quando invece si poteva aspirare a qualcosa di più, addirittura il Gabibbo, chissà. Così la conversazione si è esaurita con quell’addio ai sogni di gloria e d è virata su argomenti più morbosi come i vicini di casa di un secondo pensionato che era lì per farsi tagliare i capelli, a differenza del primo. Di questo però, a differenza del caso del porcino, anzi, del porcione, ne parla già qualcuno, in paese. Una coppia di genitori con un figlio unico undicenne che un giorno rientrano dal lavoro e si trovano tutto il guardaroba tagliato a listelle di stoffa rettangolari. E quando dico tutto intendo tutto. I completi da ufficio del papà compresi quelli per le riunioni di un certo livello, roba firmata e di valore. I vestiti griffati della mamma che il dress code della multinazionale in cui si occupa di marketing le imponeva. I Levi’s 501 di entrambi che indossavano nel tempo libero e nei momenti di svago outdoor. Ma anche le felpe e le tute del ragazzo, la sua divisa da calcio. Un patrimonio in abbigliamento tagliato meticolosamente a strisciole nemmeno fosse stato passato da quelle macchinette a manovella per la pasta fatta in casa. Dopo qualche ora di indagine domestica è venuto fuori che l’autore dello scempio era stato proprio il figlio, che non ha trovato di meglio per attirare l’attenzione su di sé di papà e mamma così presi dal lavoro. Il che sembra una storia da film americano, quelli in cui poi il bambino anziché reagire così – che già è un comportamento inaudito – comprano armi al supermercato all’angolo e fanno una strage.

I due soci del negozio si sono guardati sbigottiti. L’esperto di funghi con un incrocio di tasti ha bloccato il suo smartcoso e lo ha riposto via. Un bambino problematico supera a dismisura un fungo da record e vince su ogni conversazione. E tutti avevano appurato che nemmeno di quello non vi era traccia nel Corriere. Una volta si faceva di tutto per diventare famosi, qualcosa dev’essere cambiato.

sono muffe e non ho mai capito perché

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Una volta che pioveva così, no anzi pioveva proprio a dirotto ma eravamo più avanti nell’estate, era agosto inoltrato e forse anzi quasi settembre perché era già stagione da funghi, altrimenti mio padre non avrebbe avuto quell’idea. Mi ha detto vieni, mettiti gli stivali di gomma, la mantella da pioggia, prendi l’ombrello e vieni che andiamo a cercare le schicamelle. Le schicamelle, che poi si pronuncia sckikamelle con la sc dolce di sci, è il termine dialettale per chiamare le mazze di tamburo. Così siamo usciti nella pioggia, e pioveva forte, lui davanti e io dietro a lui, ciascuno con gli stivali di gomma verde e il suo ombrello e la mantella da pioggia e un cavagno in mano. Il cavagno è, sempre in dialetto, il cestino che si usa per portare i funghi raccolti. Io ero dubbioso sugli esiti di quella battuta di ricerca e avevo anche paura ad andare nei boschi, avevo letto che in caso di temporale è meglio stare alla larga dagli alberi perché attirano i fulmini e si può anche morire bruciati. Così mi sono tranquillizzato quando ho capito che non andavamo verso l’alto, dove finiva la strada e i pini e i castagni si infittivano, ma ci stavamo dirigendo a valle passando però attraverso i prati. Siamo scesi nei campi che io vedevo sempre dalla collina ma non ero mai andato lì e credevo che nemmeno ci si potesse camminare vicino, i contadini sono molto gelosi delle loro proprietà. E a dir la verità non capivo il perché di quella sortita, non si va a cercare funghi in posti così. Ma quei prati li abbiamo superati, c’era un sentiero che da casa nostra non si vedeva e che ti consentiva di attraversarli, e siamo arrivati a un filare di alberi le cui radici erano coperte dall’erba molto alta, quei punti in cui è difficile fare fieno perché la trebbiatrice non ci arriva e poi gli uomini con il falcetto si dimenticano di completare l’opera. Pochi metri oltre gli alberi c’era un canale che raccoglieva l’acqua necessaria all’irrigazione dei campi successivi. E lì in mezzo mio padre mi ha fatto cenno con la mano con cui reggeva il cavagno. Indossava una mantella di una lunghezza spropositata, e pensare che già lui era molto alto, e visto così sembrava un pipistrello. Abbiamo riempito i nostri contenitori di schicamelle cercando di non bagnarci, tenendo sempre l’ombrello aperto e cercando di non farci sgocciolare la pioggia addosso a vicenda. I funghi non appartengono ai proprietari del terreno su cui crescono, probabilmente è così e io non l’ho mai chiesto. Siamo rientrati poi a casa, la stufa a legna era accesa come sempre, e quei pochi prataioli che avevamo preso insieme a quegli altri esemplari più nobili li abbiamo fatti abbrustolire lì sopra e mangiati così.