diritto di smog

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Si fumava in camera da letto, anche prima di addormentarsi, magari in inverno e con la finestra chiusa. Qualche pagina di libro o la recensione di un disco sulla rivista preferita accompagnata dall’ultima sigaretta del giorno, da spegnere nel posacenere a fianco con la réclame di una nota marca di pastis e il mozzicone che rimaneva lì, molto spesso insieme agli altri, fino alla mattina dopo, come minimo. Così ci si coricava nella nebbia, persino le tende si impregnavano delle esalazioni del tabacco spesso irrimediabilmente, tanto al primo lavaggio si decideva per cambiarle del tutto, non sempre il giallo nicotina si abbina con il resto dei mobili e il colore delle pareti. Si collezionavano addirittura pacchetti di sigarette vuoti con i quali si creavano le più ardite costruzioni da esporre in bella mostra. Altre volte li si svuotavano alla ricerca di rimasugli di tabacco nei momenti in cui di sigarette in casa non ce n’era nemmeno una. Sembra una pratica inutile e ridicola, ma se replicata su centinaia di confezioni vuote alla fine qualche tiro ci scappava sempre.

E si fumava in bagno, leggendo il giornale, facile indovinare facendo cosa, buttando il mozzicone con lo sciacquone e ogni volta ricordando la leggenda metropolitana dello stolto che aveva fatto lo stesso gettando prima batuffoli di cotone imbevuti di alcol. Si fumava nei club e ai concerti, ed è per questo che era sempre consigliato un abbigliamento da mettere a lavare poi il giorno successivo. La puzza di fumo che impregnava i vestiti era proverbiale anche sui treni quando addirittura la percentuale di spazi per i fumatori e i non fumatori era più o meno uguale, tanto che anche i pendolari non fumatori puzzavano tanto quanto gli altri. Ci si accendeva la prima sigaretta del primo pacchetto sul locale delle sette e trenta, il secondo lo si inaugurava a metà pomeriggio, aspettando il treno del ritorno dopo l’ultima lezione in facoltà. Ma si fumava anche in ufficio, ambienti in cui il nervosismo portava a un consumo in eccesso e, in prossimità dei computer usati dalle fumatrici, la quota rosa di cicche spente si distingueva per il rossetto sul filtro. C’erano anche aziende in cui qualcuno si rollava sigarette “rinforzate”, nella mia carriera ho collaborato con almeno un paio.

Tra gli ambienti privati uno dei luoghi preferiti dai tabagisti era senz’altro l’abitacolo dell’automobile, e non c’era arbre magique che tenesse. C’erano quelli che riempivano di mozziconi tutti gli spazi adibiti, ricordo addirittura un tizio che si rifiutò di spostare l’auto di un mio amico che gli ostruiva il parcheggio. Entrò nel bar e disse che l’avrebbe spostata lui senza disturbarlo, ma aveva aperto la portiera e aveva visto la montagna di sigarette spente e dal forte odore di fumo, lui che non fumava, si era sentito male. E anche se oggi ci sembra un’abitudine assurda, si fumava e tanto anche nei bar e nei ristoranti, dopo il caffè o a metà pasto e fa sorridere che se non ci fossero stati incendi e tragedie ci sarebbe anche sembrato normale fumare senza sosta al cinema e a teatro. Si faceva colazione tutti insieme con il cappuccio e il cornetto al tavolino, e poi in molti pronti a suggellare il rito del completamento dell’opera, l’ingrediente segreto a sancire la digestione parziale o totale. Me ne offri una, hai d’accendere, queste erano le cose che si sentiva dire più spesso. Ma seduto a fianco c’era sempre chi manifestava insofferenza più o meno palesemente, e il fumatore poteva anche indispettirsi – quella era la vera cultura antiproibizionista – e  rispondere che non era vietato e che comunque esercitava il suo diritto di smog. Diritto di smog un cazzo.