Ho aperto una coppetta di un dolce che spopola nelle réclame in tv a qualunque ora del giorno e della notte ma non era per niente sexy come l’avevo visto presentato nello spot, tanto meno rispetto all’etichetta stampata sulla confezione. Quello dell’immagine rappresentativa del prodotto è un annoso problema che andrebbe probabilmente smascherato fino in fondo ma qui non siamo a Report e nessuno ci propone come presidenti della repubblica. E poi chi siamo noi per denunciare la disonestà della società dell’immagine quando l’individualità del fotoritocco è alla base del nostro modo di fare marketing di noi stessi? Potremmo allestire una sorta di sistema di debunking per i selfie dei nostri amici dei socialcosi che non corrispondono assolutamente alla realtà. Chiaro che apparire belli piace a tutti, e ve lo dice uno che è talmente asimmetrico che in foto viene scambiato per un dipinto cubista. Ma diamine, perché ingannare così caparbiamente le cose come stanno e vivere una vita parallela d’illusione fatta di filtri di app e di editing grafico? Io ne ho un paio su Facebook che conosco personalmente e che, credetemi, se li vedete in foto sono tutt’altre persone. Un mix di pose volutamente tenute per limitare le irregolarità dei lineamenti in prospettive tutt’altro che naturali a cui vanno ad aggiungersi strati successivi di aggiunta di punti luce e saturazione dai quali escono così agli antipodi nemmeno si fossero messi nelle mani del re della chirurgia plastica. Non siete così. Che poi che senso ha, mi chiedo, se poi ci incontriamo e siete irriconoscibili? Alla fine vi immagino talmente snaturati e scollegati dalla verità dei fatti da restare vivi e vegeti lì nel vostro mondo in cui risultate attraenti ma solo nei vostri collage di pixel digitalmente artefatti, perché poi se uno vi vede dal vero rimane talmente disorientato dalla differenza con quello che si immaginava che magari gli scappa pure la voglia di conoscervi a fondo per scoprire che magari, di persona, siete interessanti lo stesso.
fotografia
la vita al netto dei filtri di Instagram
StandardDice di noi più una foto che millemila parole, sostengono i luoghi comuni, ma lasciatevi servire che un po’ me ne intendo che mica è vero. Se siamo disabituati a leggerci e a descriverci ciò non toglie che non facciamo più caso alle righe e alle parole nascoste tra di esse, che sovente sono anche più esplicite. Il guaio è che nelle conversazioni e nei soliloqui è difficile applicare gli effetti speciali che ne esaltano il significato, bisogna impegnarsi un po’ di più, metterci la testa, capire, e ci sta pure un sano fraintendimento perché il confrontarsi con la voce o con la penna (per modo di dire) è così. Ti capita una frase di senso compiuto e la tua attenzione coglie a fondo solo quello che vorresti ci fosse scritto, magari il sostantivo protagonista dei tuoi sogni in quel tuo momento storico e da lì non ti smuovi. Poi ti chiamano per tutti i chiarimenti e tu cadi dal pero. Avete presente, vero, quelli che ti scrivono una e-mail e poi ti telefonano per dirti che ti hanno mandato una e-mail e te ne raccontano per filo e per segno il contenuto? Si tratta di un caso di cross-media pure questo o è un banale esempio di mancato controllo delle proprie ansie? Ma è valido anche il processo inverso: mandi una e-mail a qualcuno anticipando che a breve lo chiamerai, e lasciatemi dire che così ha più senso, io lo faccio sempre perché la posta elettronica è meno invasiva e uno può leggersela anche se è a casa in mutande, non fa nessun tipo di squillo quindi non si corre il rischio di svegliare il destinatario, è impossibile disturbare la gente quando è a tavola. Le foto invece parlano chiaro e anche troppo, nei frequenti casi di sovraesposizione artistica per gli effetti vintage che vanno tanto di moda. Ma nessun filtro anni 70 è così potente da ricostruire ambienti che c’erano allora e che oggi hanno lasciato il posto a qualcosa di sicuramente più utile ma molto meno gradevole. Vedete questo enorme megastore bianco di articoli da ufficio in fondo a questa piccola strada a ridosso della ferrovia? Lì c’era un cinema, uno dei tanti che hanno ceduto il passo alla modernità e al business, che ancora prima era un teatro parrocchiale. In quella sala, che faceva per lo più spettacoli pomeridiani per ragazzi e bambini, ho visto pochissimi film, e a dir la verità ne ricordo solo due: No nukes, il film-concerto del 1980, e una pellicola dedicata ai Kiss di cui non ricordo il titolo e a dir la verità nemmeno la trama. C’era Sara seduta al mio fianco che sembrava aver fatto il bagno in uno dei profumi più di moda di allora e a me, a parte quello, non mi importava di nient’altro.