La formula delle serie è intelligente perché diluisce trame cinematografiche in ennemila puntate e, quindi, consente economie di scala perché chi le segue alla tv tradizionale in quella settimana di interregno tra una puntata e la successiva la bramosia di sapere il seguito stempera la delusione di sorbirsi i rimandi iniziali della nuova puntata a quella precedente, mentre i malati che si sparano otto-episodi-otto in una botta – io l’ho fatto per Stranger Things – non vanno tanto per il sottile e sprecare ore di girato superfluo ai fini della trama (noi che siamo di bocca buona) non è certo la fine del mondo. Ma è intelligente anche perché la formula delle serie si potrebbe applicare a tutti i settori delle nostre esperienze, e non vorrei fare della filosofia da tanto al mucchio (che poi è la mia specialità) dicendo che le nostre esistenze sono un po’ così e se potessimo pesarle al netto, separando la tara dalla sostanza lorda, chissà quanti inverni sul groppone ci troveremmo. Di certo non i cinquanta che ci aspettano dietro l’angolo. Anche l’amore a puntate, magari scritto con una sceneggiatura che mette una patina anni 80 anche se sono finiti da un pezzo ma solo perché a quei tempi sì che abbiamo dato il massimo. E poi allora non c’era l’Internet ed è per questo che, mentre condividevo queste mie considerazioni qualche sera fa al telefono con Jonathan Franzen, lui che come me non vede di buon occhio questa deriva digitale e social che sta prendendo il genere umano (probabilmente siamo gli unici scrittori americani al mondo a pensarla così) insomma per farla breve credo di avergli dato l’idea per un nuovo romanzo, da scrivere a episodi come una serie americana e lui che è un vero scrittore americano questa cosa dovrebbe comunque venirgli come si deve. Nel mio piccolo io invece credo che mi accontenterò di sviluppare una cosa che ho visto stamattina. Un tizio non proprio registrato del tutto che camminava spruzzando non so che cosa con un vaporizzatore per poi passarci in mezzo ed è lì che ho pensato che se nel duemila e rotti esistessero gli untori, come ai tempi della peste manzoniana, ecco oggi gli untori girerebbero con un vaporizzatore pieno di qualche schifezza e sarebbero i terroristi più temuti al mondo.
filosofia da tanto al mucchio
a qualcuno interessa un mono-auricolare blu?
StandardCi sono buone possibilità che la vita sia una cosa che ti danno in prestito e poi, al termine del giro, la restituisci all’organizzazione come le audioguide delle mostre o gli apparecchietti simili che hanno le comitive in visita per ascoltare le spiegazioni della guida. Ho partecipato a una visita al Cimitero Monumentale di Milano un paio di sabati fa, con un tempo perfettamente autunnale che, per un’esperienza del genere, era proprio la morte sua. E quella cosa che dicevo prima mi è venuta in mente proprio lì, tra un monumento funebre e una tomba più ordinaria. Ci sono le occasioni in cui – mi è successo alla mostra su Bowie, domenica scorsa – vieni fornito di dispositivi tecnologicamente all’avanguardia. Cuffie della madonna con i bassi amplificati o anche tablet super-velocissimi per seguire al meglio le cose che vedi esposte. Manco a dirlo, quando finisce tutto c’è quasi sempre una ragazza deliziosa a ridosso dell’uscita a cui consegnare i dispositivi ricevuti in dotazione per migliorare l’esperienza di visita. La ragazza è deliziosa ma se la prende un po’ se non stacchi prima la cuffia e lasci a lei l’incombenza.
Chissà però se qualcuno ci prova a mettersi tutto nello zaino e passare inosservato, anche se un museo non è certo il primo autogrill in cui entri, ti mangi un gelato facendo il percorso che ti fanno fare per farti venire voglia di acquistare tutte quelle cose che ci sono all’autogrill e che chissà se qualcuno avrà comprato mai nella sua vita, getti la carta del gelato nella spazzatura, vai sotto a fare la pipì e a lavarti le mani ed esci senza pagare dopo la gimkana tra salami, confezioni di Kinder da millemila barrette, best seller, superalcolici e persino oggettistica che ogni volta mi tenta, a partire dai cucchiai da cucina in legno a forma di basso e chitarra a venti euro, li avete visti?
Ma, tornando al discorso di prima, al cimitero di Milano la dotazione era diversa. All’ingresso mi è stata consegnata una cuffia mono-auricolare blu che, alla fine, la guida ci ha detto di gettare. Io pensavo che le dovessimo restituire, malgrado la semplicità dello strumento, e che ci fosse dietro una struttura dedicata alla sterilizzazione di quegli oggetti intimi come per le cuffie hi-fi di Bowie. Invece no, probabilmente costa di più farle pulire che lasciarle da smaltire o riciclare alla nettezza urbana, di certo nessuno le utilizza una seconda volta, siamo troppo abituati allo stereo per sopportare un downgrade a un mono-auricolare.
Questo per dire che probabilmente, se mi confermate la veridicità della metafora della vita che restituisci a fine giro, c’è qualcosa di poco valore che ti resta alla fine e che in qualche modo ti ha messo in contatto per tutto il tempo in cui sei rimasto in ballo con qualcuno che ti ha dato delle dritte e ti ha suggerito su cosa soffermarti e cosa no. Il Cimitero Monumentale è gigantesco e mica riesci a vederlo tutto e poi, obiettivamente, non tutti si possono permettere opere d’arte come certi vip che vi riposano. Quindi niente, se c’è qualcosa che resta alla fine fate come me. Ho ancora quel mono-auricolare nella sua confezione intonsa nella tasca del piumino 100 grammi che indosso proprio da quel sabato lì, perché poi, per affrontare la visita, ho utilizzato i miei, di auricolari, quelli dello smartphone, perché sono stereo e perché ho pensato che sarebbe stato meglio così e perché non fido poi tanto delle sterilizzazioni anche quando non sono previste perché alla fine, le cuffie, ti dicono di tenerle.
paradiso per principianti
StandardDicono che da quelli della nostra generazione si aspettavano di più perché, alla fine, ci siamo tutti omologati e una volta messo su famiglia e casa abbiamo scelto camere matrimoniali piuttosto standard, seguendo quindi la tradizione di quanto avevano fatto i nostri genitori e i nostri nonni anche se rivisitata con stili più attuali. Nelle camere matrimoniali di oggi trovi sempre un letto a due piazze o massimo una piazza e mezza, un armadio gigantesco, un comò, due comodini o qualcosa che ne faccia le veci con due lampade, magari anche uno specchio.
I più megalomani hanno le cabine armadio o addirittura stanze ad hoc in cui riporre i vestiti, ma la sostanza non cambia. Quadri alle pareti, una poltroncina spesso coperta da indumenti e cose così. Nessuno, per dire, che abbia scelto un arredamento rivoluzionario, magari con i letti a castello o i poster dei concerti dei Subsonica appiccicati con il nastro adesivo sulla tappezzeria. Mi piacerebbe chiedere il parere di chi ci ha insegnato questa convenzione, ma per molti di noi rintracciare mamma e papà è difficile, e non certo perché non abbiamo i recapiti. Sarebbe più semplice se sapessimo dove vanno a finire quando ci lasciano, quando muoiono, per tagliar corto e utilizzare un’espressione che non ci piace.
Ci pensavo ieri sera dopo aver assistito a un documentario su LA2, il secondo canale della RTSI, che secondo me dovreste cercare e vedere tutti. Si intitola “Frammenti di paradiso” e il regista, Stéphane Goël, mette in sequenza una serie di interviste a un gruppo di persone anziane che, in prossimità della morte, provano a descrivere quello che si aspettano dall’aldilà. Un’opera davvero toccante soprattutto grazie ai primissimi piani che, in fullHD, mi hanno permesso di avere la certezza di quanta bellezza ci sia nella vecchiaia e negli occhi di chi prova a immaginare una cosa che non è immaginabile.
Mi ha riportato alla mente una conversazione tra me e un’amica di tantissimi anni fa. In macchina, di notte, lungo una stretta stradina di campagna, avevo abbagliato un daino che anziché scappare era rimasto fermo in attesa, probabilmente, del ritorno della vista. Mi aveva colpito il fatto che avesse ritenuto meno rischioso stare allo scoperto piuttosto che lanciarsi in una fuga cieca. Ricordo di aver spento i fanali per tranquillizzare, per quanto possibile, l’animale.
Illuminati solo dalla luna e dalle stelle, bloccati in macchina avevamo riflettuto proprio sulla morte degli animali – l’amica mi aveva raccontato di una gazza stecchita, notata sotto un cavalcavia dell’autostrada, sdraiata sul dorso con le zampe dritte all’insù, che sembrava uscita da un fumetto. Così abbiamo provato a immaginare come poteva essere il paradiso – proprio come nel documentario che ho visto ieri sera – con la ressa di persone e animali che si ritrovano tutti insieme, perché anche se siamo i dominatori del pianeta non credo che per le bestie qualcuno abbia allestito un aldilà-zoo dedicato.
E tra miliardi di miliardi di esseri ex-viventi (o quello che ne sarà) animali e vegetali, come faremo a riconoscerci? Come faremo a trovare i nostri cari? Per questo, forse, certi comportamenti meno standard per la tipologia di persone a cui apparteniamo possono essere utili. Nel paradiso esiste il progresso? Si ascolta musica di adesso, per esempio, quindi con mio papà o i miei nonni potrò discutere di rap italiano? Sapranno ballare come va di moda ora? Sarà il 2016 anche lì?
per una svolta nell'evoluzione del genere umano
StandardDio ha creato l’uomo operoso. Il diavolo ha rilanciato con l’uomo inoperoso e i due, come i rispettivi creatori, da sempre sono in competizione. Operosi e inoperosi si sono accoppiati e si sono moltiplicati, inizialmente ben compartimentati tra di loro e questo ha generato la prima frattura sociale tra il capitalismo, esercitato dall’uomo operoso e dai suoi discendenti, e dal comunismo, prerogativa dell’uomo inoperoso che vorrebbe spartirsi le ricchezze accumulate dall’uomo operoso convincendolo a parole e a salamelle. Non si sa bene a quale punto dell’evoluzione, fatto sta che un bel giorno uno del clan degli operosi accoppiandosi con una del clan degli inoperosi (o viceversa, su questo la storiografia è piuttosto vaga, quindi potrebbe trattarsi tranquillamente di un uomo inoperoso che ha copulato con una donna operosa approfittando di un suo raro momento di stasi) hanno dato vita a un ibrido, un incrocio che la scienza ha subito classificato come uomo sensibile.
L’uomo sensibile non può essere operoso perché ha i movimenti bloccati dalla precedenza che nella sua mente ha il pensiero creativo rispetto al pensiero operativo. Con il tempo e lo stemperamento della sensibilità con le maggiori o minori percentuali di operosità si sono create infinite sfumature che compongono la classe ibrida degli uomini sensibili. Con un basso grado di sensibilità soggetto a un elevato grado di operosità, l’uomo sensibile ha messo la creatività al servizio dell’operosità, creando l’ingegneria. Agli estremi opposti, un pizzico di operosità diluito in un mare di creatività ha permesso lo sviluppo di figure quali i musicisti rock o gli intellettuali come me (anzi no, io sono sia musicista rock che intellettuale).
La sensibilità induce a far lavorare gli altri al posto nostro. Da una parte quindi gli ingegneri con tanta operosità e il minimo di creatività necessaria si sono inventati i ruoli manageriali nelle aziende, dall’altra i musicisti rock e gli intellettuali, non appena se ne presenta l’occasione, con il loro vissuto sensibile e poco operoso le studiano tutte per sfruttare il lavoro degli altri a loro vantaggio.
Ma se vogliamo spezzare una lancia per l’uomo inoperoso e per gli ibridi frutto di incroci di sensibilità a maggioranza di inoperosità, l’uomo operoso e il versante più operoso degli ibridi in questo periodo dell’anno è facile riconoscerli perché sono già al lavoro vestiti di tutto punto nei loro uffici pregni di aria condizionata e, soprattutto, sono felici di essere lì perché è nel lavoro che trovano la vita.
Gli inoperosi invece, che la vita la vedono solo nella vita in sé anche se da una certa età in poi si pongono il dubbio se sia questa la giusta direzione per non esaurire le risorse vitali per sé e per il nucleo a cui appartengono (e di cui spesso sono alla guida), in bermuda e Birckenstock prolungano ferie in eccesso e seguono il corso della natura, che vuole le stagioni dell’uomo in linea con le stagioni del tempo. L’uomo operoso in camicia e cravatta incontra l’uomo inoperoso in sandali e jeans corti o l’uomo sensibile con tenute intermedie per esempio camicia + jeans + camper solo su certi mezzi pubblici, il primo diretto in ufficio, il secondo a godere l’essenza della giornata in un luogo di intrattenimento culturale o naturale, il terzo mentre si reca al suo lavoro creativo e tutti percepiscono la reciproca appartenenza ma l’antica rivalità e l’incredulità verso gli ibridi sensibili oramai vive latente e sopita nelle convenzioni sociali di tutti.
Il mondo ha trovato infatti un equilibrio perfetto in cui l’uomo operoso senza rendersene conto e senza privarsi di nulla produce anche per l’uomo inoperoso e l’uomo sensibile, e se vi piace il livello di evoluzione in cui per puro caso siete stati predestinati sappiate che tutto quello che vedete è grazie all’uomo operoso e quindi, se siete tendenti in qualche modo all’inoperosità, ricordatevi di fare un cenno, anche finto, di plauso all’uomo operoso che si reca verso il posto in cui esercita un lavoro manuale sui mezzi pubblici e che anche oggi, come sempre, lavorerà anche per voi. Se siete sensibili potete puntare sulla vostra abilità di storyteller, osservare i comportamenti delle due categorie, provare a scrivere una manciata di righe e vedere che cosa ne esce. Io non ci ho capito nulla.
la morte e l'oblio (parte prima)
StandardQualche mese fa, nel corso di una tavola rotonda andata poi in onda alla tv di stato canadese, lo scrittore Edward Severnett ed io discutevamo proprio sulle incoerenze nello sviluppo del senso dello spazio durante la fase del pensiero intuitivo, come la definisce Piaget, una conversazione nata grazie alle riflessioni su Tom, il protagonista del suo ultimo romanzo “The river off”. Tom crede che a parte certe grandi isole come le nostre Sardegna e Sicilia, tutte le altre siano poco più che scogli affiorati sulla superficie del mare e si stupisce dei turisti che vi si recano in macchina, perché teme che una volta sbarcata l’auto dal traghetto non ci sia posto più per nessuno. Gli ho mostrato così la foto del poco conosciuto Isolotto di Bergeggi, nei pressi del quale ho fatto numerosi bagni da ragazzo, e il caso ha voluto che Eddie abbia preso spunto da lì. Ha riconosciuto infatti la meta di diverse estati di vacanza ai tempi dell’università, quando era legato a una studentessa italiana di scrittura creativa. Il problema è stato anche quello di definire quale potesse essere il concetto di scrittura creativa americana per una studentessa italiana, indipendentemente dalla sua familiarità con le spiagge liguri. Servernett però si ricordava alcune su composizioni acerbe ma pregne di reminiscenze classiche e ha citato un passaggio in cui un poeta di chiare matrici decadentiste – uno alla Tarchetti nella migliore della sua forma – si ferma a osservare un mucchio di teschi in un ossario e a ciascuno chiede a chi appartenessero, da vivi. Un dialogo muto solo in apparenza. Io ero un magistrato, diceva il primo. Io un pastore del quindicesimo secolo, un altro. Io stavo per cambiare il mondo con la mia invenzione, ha detto il terzo. Io ero una donna bellissima che ha avuto ragione su tutto, un quarto, e così via. Ogni teschio a ripercorrere in poche battute un’esistenza più o meno rilevante nelle epoche diverse e più disparate fino a quando, diventati anonime ossa, nessuno, in nessuna parte del mondo, si è mai ricordato più di loro.
scontro di inciviltà
StandardOggi è tutto talmente liquido, ancora per dirla come coso là Bauman, che si mescola che è un piacere. Tragedie e Pokemon scorrono veloci insieme rimestate dai gorghi e lungo le insenature inquinate del nostro divenire che volge verso le cascate finali oltre le quali boh e nessuno che si prenda la briga di mettere tutto in pausa e darsi un contegno. Questo perché le cose sono un gigantesco sistema multitasking, noi stessi non siamo in pochi in quella frenetica ora di punta che è questo periodo storico dove tutti ci teniamo a confermare la nostra presenza, quindi finisce che il particolare perde la gara decisiva con il generale e nel minestrone informativo color acqua sporca che ne deriva certi dettagli non si vedono più, se avete fatto almeno le medie saprete qual è la questione dei solventi e dei soluti. Ma all’indifferenza con cui approcciamo la drammaticità di certi eventi – i cui aggiornamenti consultiamo al ritmo di “The Show Must Go On” dei Queen, e già per questo probabilmente non abbiamo scampo – non esiste un piano di redenzione standard o comunque plausibile. La presentazione stessa delle notizie, incasellate sulle pagine web di quelli che una volta rispettavamo come quotidiani autorevoli, con il criterio digitale e scellerato che le appaia nell’opposta portata del loro significato, si presta perfettamente alla nostra impostazione emotiva per cui a meno che la morbosità per il macabro non prenda il sopravvento ecco che già siamo sul clima tropicale, sull’angelo del violoncello suona per i malati terminali, su Pellè che vola in Cina con Viktoria e i tifosi impazziti per la coppia. Non so da chi abbiamo imparato questa sorta di schizofrenia che probabilmente è indotta dall’autoconservazione o da quell’intuito ipocrita che spinge a mollare tutto e tutti e metterci al sicuro. A chiudere gli occhi, tapparci le orecchie, serrare la bocca. Ecco, questi sono i nostri primati, nel senso delle scimmie, però.
fenomenologia della copertina
StandardIl connubio o la dicotomia bello dentro/bello fuori è antico quanto le farfalle nella pancia, quelle dell’innamoramento e non certo le avvisaglie della dissenteria anche se è facile che siano coeve con quel modo di esprimere tale concetto in greco antico con cui i ragazzini studenti del ginnasio si divertono un sacco, considerando la sua assonanza con una parolaccia di uso comune. Ma, lasciando da parte l’ideale di perfezione fisica e morale dell’uomo, sta a noi decidere se appunto si tratta di una corrispondenza veritiera o invece una fregatura esemplificabile nel fenomeno del mattone dentro il videoregistratore che ha ottenuto persino dignità di disciplina a sé con tanto di laurea specialistica sotto il nome di Marketing.
Riflettevo però su quante volte è successo e succederà ancora che compriamo un prodotto per l’etichetta, il packaging, la copertina, la forma, il colore e tutti gli altri fattori estetici per poi rimanere delusi della sostanza, dal contenuto, del funzionamento, delle prestazioni, del fatto che in pratica non c’è corrispondenza tra quello che l’estetica ci ha fatto idealizzare e l’oggetto in sé. Lascio a voi espertoni di design e marketing di prodotto tutto ciò che concerne lo studio della dimensione esterna, come avrete capito non è il mio mestiere. Vorrei invece condividere qualche considerazione su tematiche su cui mi sento più ferrato e mi riferisco a musica e letteratura. L’estetica delle copertine dei libri gioca scherzi bruttissimi, per esempio, e ultimamente le case editrici stanno sempre più imparando a tentare il pubblico che entra in libreria “per vedere che c’è di bello” con grafiche e illustrazioni davvero sexy che suscitano l’interesse ben oltre il riassuntino o la fascetta con i giudizi di valore della critica accreditata. Esistono casi di corrispondenza tra copertina che soddisfa il proprio gusto e qualità narrativa, per esempio non ricordo di aver sbagliato scegliendo un volume della Minimum Fax di un autore sconosciuto, mentre devo ammettere che, pur avendo una grafica che con quel codice a barre sfiora la perfezione, qualche delusione dalla ISBN Edizioni l’ho avuta. Questo è il motivo per cui consiglio a tutti di frequentare le biblioteche, è tutto gratis e ci si possono permettere tutti gli errori di scelta senza sperperare il becco di un quattrino.
Una cosa che non farei mai, e se mi conoscete saprete il perché, è comprare un disco basandomi sulla bellezza della copertina. Intanto perché l’immagine a corredo quasi sempre non è rappresentativa del prodotto. Cosa c’entra, per dire, un uomo che prende fuoco stringendo la mano a un altro con “Shine on you crazy diamond”? Intorno alla musica si muovono artisti visivi e fotografi che fanno del loro meglio per aggiungere del valore alle composizioni ma per pura autoreferenzialità. Per non parlare del fatto che oggi chi è che acquista canzoni a scatola chiusa, considerando che si tratta di una forma artistica quasi completamente digitale? L’unica possibilità di lasciarsi attirare dalle copertine dei dischi è in prossimità delle bancarelle di usato, quando nei contenitori di dischi da poche lire ci troviamo a scartabellare per trovare qualcosa di interessante. Solo lì ci rendiamo conto di quanta roba è stata stampata inutilmente e lasciarsi attrarre da una foto o da un disegno è il modo più certo per buttare via dei soldi.
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StandardSentivo uno psicologo raccontare che non sono pochi i casi di nativi digitali che alla domanda “quanto fa 2x – x” rispondono 2. In effetti da un punto di vista digitale non fa una piega: prendete una jpeg con su scritto 2x, cancellate la x, e osservando il risultato compatitevi in libertà sul vostro obsoleto modo di vedere le cose. Non capisco però tutta questa paura del cambiamento: magari tra mezzo secolo le discipline come le conosciamo noi saranno rivoltate come calzini. Il nostro peso sarà espresso in giga e prima della prova costume ci zipperemo senza nemmeno il bisogno di trattenere il respiro per non far traboccare la pancia oltre l’elastico del costume. Fare l’artista non sarà più necessario, questo non lo so spiegare perché già oggi è così ma spero abbiate compreso che cosa intendessi. Interessanti anche i risvolti di questo fenomeno da un punto di vista linguistico. Pensate per esempio a quanto potrebbero essere veloci le nostre conversazioni avulse dai termini che ai fini del contenuto sono ininfluenti. Le parole che utilizziamo per far prendere al cervello una boccata d’aria fresca e inviare alla lingua la risposta pertinente alla domanda che ci è stata posta. Non fate quella faccia, se il cervello elettronico è veloce il mondo si aspetta da noi che facciamo altrettanto. Ma come si fa capire il superfluo verbale? Semplice. Avete presente le indicizzazioni che si facevano con Wordstar e che nessuno capiva mai a cosa potessero servire? Bene. Un adulto italiano pronuncia una media altissima di volte l’avverbio “praticamente”, che è notoriamente un intercalare come a Genova diciamo belin ma non per questo dev’essere giustificato per forza. Digitalizzate una vostra conversazione, poi cancellate tutti i praticamente e ponderate il peso del file ottenuto e la sua lunghezza. Si tratta di un’operazione che vi libererà tempo e spazio da reinvestire nelle attività che preferite. Io poi con l’avverbio “praticamente” ho un conto in sospeso perché, fondamentalmente, sono un teorico. Il mio intercalare preferito, a parte belin che da quando vivo a Milano non lo dico più, è “in teoria”, questo la dice lunga sulla mia voglia di lavorare. Dico e scrivo cose in teoria ma se poi mi chiedete di farvi degli esempi pratici vi rimando a qualcuno più concreto di me, questo è uno degli aspetti di cui mi sono liberato e ora, vi giuro, ho tantissimo tempo a mia disposizione per contemplare tutte le astrazioni che voglio.
il nome della cosa
StandardAlla gente le cose gliele devi spiegare per bene perché altrimenti non capisce. Per questo certi prodotti hanno tanto successo: hanno nomi azzeccati che trasmettono in pieno la loro essenza. Basta con i nomi evocativi che tanto i consumatori hanno tante balle per la testa con tutte queste informazioni che assorbono su Internet. Non è più tempo per i ragionamenti e le deduzioni, tantomeno per le metafore o i sensi traslati. Come diceva quel filosofo che si fa in terza liceo ciò che è è e non può non essere, ciò che non è non è e non può essere. La vita scorre come un torrente impetuoso verso una foce, non abbiamo bisogno di distogliere l’attenzione dal generale per il particolare perché ogni semplificazione potrebbe essere l’ultima a restare impressa nel nostro intelletto. Ma la realtà delle cose viene in nostro aiuto. C’è una marca di scarpe che si chiama Scarpa. Io che sono un intellettuale di sinistra – cosa che si evince da ogni mio scritto – ne ero all’oscuro perché il mio campo percettivo avverte solo le Clarks e in casi particolari certi modelli di Camper da architetto. C’era un impiegato di quelli che vanno in ufficio con le scarpe da trekking – non vorrei essere il suo dirimpettaio – probabilmente per affrontare con disinvoltura l’altopiano urbano. Saliva le scale della metro davanti a me e sfoggiava appunto un paio di scarpe Scarpa. Sulle scarpe Scarpa c’è scritto proprio così sopra, e secondo me serve così non corri il rischio di sbagliare, al limite ti confondi tra destra e sinistra (che tanto con Renzi l’equivoco è all’ordine del giorno) ma sei sicuro di calzare le scarpe perché hai la più precisa delle istruzioni impressa a caratteri evidenti sulla scarpa Scarpa. Altri esempi di marketing didascalico si trovano per esempio in certi superlativi assoluti come Intimissimo, così sai che sono mutande perché c’è scritto sulla targhetta e anzi, roba più intima di quella davvero non ce n’è, un superlativo relativo o un banale comparativo non sarebbe stato opportuno a proposito di tette e chiappe. Il consumatore non ama i paragoni con il prossimo. Mi viene in mente anche l’Erbolario, sapete tutti che vende prodotti naturali di bellezza ma per certi tamarri come il sottoscritto ha sempre solleticato la fantasia. Chissà: se un giorno un certo tipo d’erba sarà legalizzata busserò alla porta del signor Erbolario per farmi vendere il marchio e cercare di far stare bene la gente come dico io. Avete capito dove voglio andare a parare: mi piacerebbe stimolare la vostra fantasia e inventare nomi di prodotti formulati con la loro natura intrinseca. La pasta Pasta, la colla Colla, le lampadine Lampadine e così via, sempre che si possa e non ci sia una sorta di copyright sulle cose di dominio pubblico. La cosa Cosa, questa sarebbe il massimo.
Post scriptum: resta irrisolto i mistero del Kit Kat versus Kitekat: possibile che nessuno abbia mai querelato l’altro per eccessiva somiglianza di nome? Trattandosi poi di prodotti entrambi del settore alimentare ma per target diversi, ogni volta si corre il rischio di farsi uno snack al pollo e di dare ai gatti dei wafer al cioccolato. Possibile che nessuno si sia mai confuso?
il bello della lettura è che ci si può anche distrarre durante
StandardFede è un figlio unico e i suoi zelanti genitori – gente piuttosto facoltosa – sono stati davvero lungimiranti nel fargli dei ritratti a ogni compleanno da un fotografo serio, la versione costosa delle fototessere, per capirci, che ai tempi di Instagram nessuno tiene più in considerazione. Oggi però Fede vanta una collezione di una ventina di passaggi seriali e documentati della sua vita come se mamma e papà nei primi anni 70 avessero previsto l’invenzione dei social media e di tutto ciò che si può fare con del materiale cosi. Altro che quelli che si fanno la foto nello stesso posto alla stessa ora per anni e poi ne traggono video che diventano virali sul web. Questo conferma secondo me il fatto che non serve spingersi troppo lontano per trovare il passato. È sufficiente muoversi di qualche anno al contrario della direzione verso la quale ci si dirige abitualmente, anzi a dir la verità bastano un paio di mesi, tre settimane, pochi giorni e persino una manciata di secondi e il gioco è fatto. Quando ci siamo accorti che il passato è passato e, appunto, non torna? Lo scarto di tre anni indietro, in foto come quelle di Federico, mette in risalto solo qualche dettaglio. A cinquant’anni la foto della patente, che è una delle peggiori disgrazie dell’umanità considerando che la fai a diciott’anni e poi te la porti dietro fino a quando non te la rubano o la perdi, è un bel salto triplo carpiato con avvitamento in quel buco nero che è la nostra vita così distante che sembra quella di un altro. Sarà per questo che proprio a causa della diffusione di Facebook (che poi secondo me dovrebbe chiamarsi Second Life se non fosse già un marchio registrato) il nostro approccio alla vita è cambiato. Se prima quelli con la testa tra le nuvole erano la minoranza, oggi avere un’esistenza parallela è un comportamento istituzionalizzato se non una vera e propria forma mentis. Io ne ho approfittato e conduco una vita parallela negli ambienti e nelle storie dei libri che leggo, nei film, nella musica che ascolto, tanto tutti sono presi con le loro gif animate e a me e quelli come me nessuno dà nemmeno retta. Se mi vedete assorto non c’è nessuna differenza con quelli che stanno stalkerando le ragazze o che si stanno inventando esperienze da condividere perché sotto sotto fanno una vita di merda. Magari poi anche la mia non è da meno, solo che chi legge da sempre si sente superiore a chi non legge, forse perché a differenza degli status di Facebook altrui o delle foto con la battuta incorporata, nel caso dei libri si fa fatica di arrivare alla fine, occorre impegnarsi un po’. Poi il bello della lettura è che ci si può anche distrarre durante, a volte nel mezzo di un romanzo prendi una strada secondaria con i pensieri e ti ritrovi mezz’ora dopo ad aver letto meccanicamente pagine e pagine e invece con la testa sei finito da tutt’altra parte. Anche quando scrivi: parti dalle foto di Federico e poi non sai come va a finire. Anche questo fa parte della virtualizzazione che ti permette l’uso del cervello non elettronico. Data una piattaforma fisica – che è il nostro corpo, diciamo l’hardware – sopra ci fai girare quello che vuoi e non importa in quale parte della testa queste cose funzionano perché comunque funzionano che è una meraviglia. Per non parlare di quando leggi e ti addormenti, a me a volte capita e quando mi sveglio con il libro sul petto è sempre una bella sorpresa.