Un aspetto caratterizzante del totalitarismo sovietico di una volta e dei paesi che vivevano sotto tale egemonia era la libertà limitata (una delle tante, mi dicono) circa la disponibilità dei prodotti, di qualunque tipo. Il senso, se ci pensate, non era del tutto sbagliato. Una scrematura all’origine di varietà da parte di un’istituzione che limita fortemente l’arbitrarietà dell’individuo ma che se, fatta bene da gente che ci capisce e di cui ci si fida e che non se ne approfitta subito con la solita solfa delle appropriazioni indebite e delle tangenti, ci consente di risparmiare tempo, risorse ed energie e di dedicarci ad attività più consone all’animo umano. Aspettate, non sto dicendo di essere favorevole alle dittature, il mio ragionamento è molto più grossolano. Ho scoperto l’esistenza di One Drive di Microsoft e della versione cloud di Office e mi sono chiesto che senso abbia, considerando la vastità di Google Drive e le funzionalità di Google Doc e chissà quanti altri servizi gratuiti di questo tipo esisteranno nell’Internet. Che bisogno c’è, quindi, di due o più piattaforme che fanno la stessa cosa facendo correre il rischio agli utenti di entrambi di avere due copie non sincronizzate dello stesso documento, per non parlare di due username e password diversi che ogni volta ti manda in confusione? Il trucco può essere quello di registrarsi ovunque con le stesse credenziali ma poi gli espertoni di sicurezza informatica, se lo sanno, ti chiedono se sei scemo o cosa. Se fossimo sotto il totalitarsmo googliano, e secondo me scherzi a parte non ci vuole molto ma, onestamente, non vedo che cosa ci sia di male, uno non sprecherebbe tempo a provare cose diverse e potrebbe concentrarsi su altre cose, per esempio la sofferenza interiore e la sua trasformazione in materiale artistico. Chi si dedica a questo tipo di discipline sa che bisogna viverle in solitudine con il pc acceso e una connessione a Internet decente. Al contrario, se siete stufi di rimuginare sulle ingiustizie del mondo dalle quali non si cava un ragno dal buco dal punto di vista della produttività e tanto meno della relativa monetizzazione, il mio consiglio è di stare in compagnia e provare con la conversazione. Stare in coppia, in tre o in gruppi più numerosi può fare la differenza. Si chiacchiera e ci si distrae da se stessi. La prova inconfutabile di questo può essere la corsa. Da sempre mi alleno da solo perché mi piace ascoltare la musica e riflettere su quello che dicevo prima, ma questo rende la disciplina sin troppo ascetica. Non ho mai fatto una maratona (e non credo che mai arriverò a farla) ma immagino la lotta interiore tra corpo e cervello che si consuma lungo distanze così lunghe. Ho letto di prove che si prolungano fino al doppio della distanza e mi sembra una cosa folle. Ma, km a parte, correre in compagnia invece abbatte sicuramente della metà il tempo in cui ci si concentra su ciò che si sta facendo e anzi, sono convinto che la percentuale di miglioramento sia molto più alta. Si parla con i compagni di percorso, ci si confronta, e molta della distanza non ci si accorge nemmeno di coprirla. Una procedura che va assolutamente applicata alla vita: stare troppo da soli a scrivere non fa bene, ve lo posso garantire.
filosofia da tanto al mucchio
almeno in 3D, è il minimo sindacale
StandardSe siete monodimensionali, quando la dimensione è totalizzante e per qualche motivo si interrompe, va in ferie, vi chiede il divorzio, chiude per il weekend o si conclude del tutto, il vostro unico lato – chiaro o oscuro che sia – va in tilt e, di conseguenza, ci andate anche voi. Conosco gente che vive per il lavoro e manda mail anche il primo maggio anziché marciare con le bandiere rosse o, in caso di pioggia, stare a casa con la famiglia e i gatti a consumare Netflix (il concertone oramai non ha più senso alcuno). Dipendenti che hanno relazioni solo tra colleghi e che dall’ufficio non uscirebbero mai se non per un aperitivo con i colleghi, una pizza con i colleghi o quattro passi in centro con i colleghi, anche la domenica. Ci sono individui che vivono per lo sport che praticano e seguono compulsivamente e, quando terminano campionati, allenamenti, partite da giocare e squadre da tifare sulle gradinate, vedono la bella stagione sotto una prospettiva che ha dell’incredibile e, pur di boccheggiare nell’afa della loro solitudine culturale, si attaccano ai tornei estivi o seguono i propri beniamini nei ritiri. I musicisti si attardano tra di loro fino all’alba dopo le serate live perché poi a casa sanno di non trovare nulla di così vicino al loro habitat naturale e, quando chiude tutto, piuttosto che scendere dal palcoscenico della loro vita cercano persino i bar delle stazioni di servizio in tangenziale o i porchettari sul ciglio delle strade di provincia per prolungare l’effetto di quello che hanno suonato ancora un po’ (posso confermare questa esperienza e il dramma di subire da soli il forte ronzio nelle orecchie, ci sono passato anch’io). Tutta questa casistica si manifesta quando rientriamo in queste categorie umane senza lasciarci lo spazio per alternative, il che è un modo pessimo di gestire la propria vita, ve lo dice uno a cui piace sparare giudizi così gratuiti e tutt’altro che verificati. Il mio consiglio è di disallestire la vostra componente monomaniacale per dare spazio a più cose. Musica e letteratura e collezionismo di figurine. Sport e giardinaggio e volontariato sulle ambulanze. Lavoro e rugby e pittura ad olio. Informatica e scoutismo e coltivazione di cannabis con quelle specie di mini-serre che vendono anche in Internet e che ti permettono di fare tutto in casa. Fai-da-te e apicultura e rally. Esoterismo e birre artigianali e danze popolari. Scrittura e gioco delle carte e assistenza agli anziani. Più le cose sono strambe e prendono direzioni diverse più le vie di fuga dal nostro centro, che nella maggior parte dei casi coincide con noi stessi, saranno sgombre da tutto il ciarpame che la fatica di vivere ci induce ad abbandonare per strada. Provate nuovi percorsi: magari ci incontreremo, prima o poi.
condividi e fai girare se anche tu ti senti più importante degli altri
StandardSe considerate che tutto quello che vi circonda, nel bene e nel male, esiste solo se lo percepite con almeno uno dei vostri cinque sensi, potete capire quale sia la vostra centralità nell’ordine delle cose. Ci avrete riflettuto anche voi, suppongo: prima che nasceste è vero che ci sono stati gli antichi romani, la rivoluzione francese e persino miliardi di milioni di gente mandata al massacro in guerre di cui non gli è mai importato una sega a nessuno? Cosa sono storia e storiografia per confermare tutto ciò se, malgrado vi sforziate, proprio non vi ricordate nemmeno un istante precedente al primo istante della vostra vita che vi ricordate? E poi, se quando chiudiamo gli occhi le cose non ci sono più, perché non potrebbe essere che una volta trapassati non resti davvero più nulla dal momento che è tutto buio, tutto silenzioso, tutto asettico, inodore e insapore e vuoto? Questa visione multi-egocentrica delle cose però ci porta a riflessioni sotto prospettive inusitate. Se tutti siamo creatori del cosmo, inteso come quella miliardesima di miliardo di parte che compete al nostro metro quadro di esistenza, chi ha ragione? Chi è in grado a tutti gli effetti di tenere in piedi tutto questo sistema che va dalla prima sintesi proteica sino a domenica prossima, tanto per essere realisticamente lungimiranti? Chi si sente di fare la prova a spegnere se stesso per verificare se le cose si interrompono davvero o tutto questo è solamente una boriosa speculazione filosofica? Chi, alla luce di questo approccio, ha la forza d’animo di sostenere il fatto che al massimo ci sono due virgola cinque esseri viventi pro capite (felini compresi) a cui frega qualcosa se uno c’è o un bel giorno non c’è più?
La verità ci fa male e lo sappiamo, come si diceva ai tempi del beat e dei caschi d’oro. Alcuni di noi si sentono di ricoprire in pectore il ruolo di “Sceneggiatore Universale”, altri (e qui alzo la mano io) pensano di saper scegliere al meglio la musica affinché le cose vadano al giusto ritmo e con il mood più appropriato, ma questo l’abbiamo ripetuto tante di quelle volte che mi viene a nausea. Al punto che, oggi, vorrei solo che mi regalaste qualcosa, un pegno a riconoscenza del fatto che mi reputate più importante di voi, e date il valore che volete a ciò che io intendo come importanza. Fatemi un regalo, anche simbolico, anche un pensiero, anche una cosa costosissima in modo che, rivendendola, riesca ad assicurarmi almeno un paio d’anni di università per mia figlia. E cercate di convincervi di questa cosa, e anzi non mi capacito del fatto che non vi siate ancora messi il cuore in pace e seduti ad ascoltare, in silenzio, la risposta alle domande che mi avete posto.
che cosa c’è dietro ogni cosa
StandardE se fossero le cose ad aver creato l’uomo? Le pietre, i divani, i tombini nell’aldilà fossero loro a giudicarci? Se fosse il carbonio la vera condanna, il fattore che sottomette l’umano al divino? Le cose ci osservano mute e, per quello che ne sappiamo, la materia inanimata – secondo i nostri standard – potrebbe invece registrare i nostri comportamenti e i moti di coloro che nella nostra struttura sociale sono i loro proprietari, costruttori, affittuari, acquirenti a rate, e condannarci un giorno a trovare stracci, telefonini rotti, tv in bianco e nero, specchietti retrovisori penzolanti dopo una svista in una strada troppo stretta, indumenti scelti in un impeto di sottodimensionata consapevolezza dei nostri ingombri, tutti seduti insieme sugli scranni di un tribunale ultraterreno a darci dei voti e a porci delle domande per capire. Siamo stati rispettosi con i fratelli cassetti con le guide difettose o, in un impeto di fretta condizionata dalla rabbia, abbiamo esercitato la nostra supremazia fisica sbattendoli senza nemmeno pensare alla responsabilità di chi ha assemblato l’armadio che li contiene, trascurandone i dettagli o, peggio, rivolgendo appellativi poco leali al Grande Costruttore Svedese (in questa logica corrispondente a un San Pietro della nostra credenza, non nel senso del mobile) e al nostro tentativo di ingegneri genetici con il foglietto delle istruzioni? Quanti bicchieri avete sulla coscienza, sgusciati dalle mani insaponate se non scagliati alle vostre spalle durante goffi tentativi di brindisi secondo culture che nemmeno vi appartengono? Di quanti muri ci siamo presi gioco, oltraggiandone con colori spray la superficie spinti dall’insano desiderio di apporre un segno indelebile che testimoni il nostro passaggio, espressione della nostra volontà malata di legare indissolubilmente ciò che non possiamo persuadere con le parole ad appartenerci in qualche modo? Non stupiamoci, pertanto, se spesso le cose si ribellano al nostro volere, se un laptop poggiato solo per un quarto della sua superficie su una scrivania cade a terra per non riaccendersi più, se piccoli oggetti riordinati in grossi contenitori si nascondono alle nostre ripetute ricerche senza nemmeno proferire un verso di riconoscimento per lasciarsi ritrovare, se gli angoli appuntiti sono pronti a colpire le nostre nuche, le nostre ginocchia e i nostri mignoli dei piedi per farci notare la loro presenza, che diamo sempre per scontato. Accendiamo un interruttore e appare la luce. OK, ma per quanto sarà così? Dovremmo riflettere sull’importanza che hanno avuto le cose nella nostra evoluzione, da quando lanciavamo le ossa in aria travestiti da scimmie nei film di Kubrik fino a quando abbiamo imparato a usare Ok Google rivolgendo, alle cose sempre più intelligenti, domande appropriate al loro livello di sviluppo che, detto tra noi, possiamo anche sognarcelo.
ragazzo in
StandardNon sento più usare l’espressione “in” per indicare quando una persona è pienamente conforme alla moda o introdotta negli ambienti giusti, gli ambienti che contano. Come se dire “in” non fosse più in, ma ci siamo capiti. D’altronde la modernità è talmente frammentata e disomogenea che vi sfido a limitarvi a una duplice classificazione del reale a seconda di valori puramente aleatori come l’indice di gradimento. Siamo tanti e distribuiti in una molteplicità di pubblico mai vista, sicuramente a causa della varietà di sottocanali dovuti, manco a farlo apposta, al digitale e all’Internet. Pensate a quante community vivono a nostra insaputa nei meandri del web e del tutto ignare di quello che ci piace e non ci piace a noi influencer della parte “in chiaro”, o mainstream o comunque dedita all’auto-affermazione della propria identità in rete come la conosciamo noi, indipendentemente dall’uso o meno del nome e cognome vero e proprio.
Ci sono aggregazioni di persone fisiche in Internet che danno vita a micro (ma mica tanto) società che abitano in dimensioni che a definirle parallele è fargli un complimento. Lassù o laggiù o nel posto in cui stanno vanno di moda cose, indumenti, parole, libri e esponenti politici sconosciuti tanto quanto quello che noi pensiamo essere importante. Siamo dispersi in una forma di società neo-medievale fatta di monasteri dove si sta tutti dentro barricati a dare fondo alle risorse disponibili, rileggere testi sacri, magari produrre birra e spero comprendiate il principio metaforico di tutto ciò perché poi per strada, in ufficio, alle riunioni condominiali, sui mezzi pubblici, in piscina, in pizzeria vestiamo tutti i panni di una normalità di rito giusto per il tempo di non dare motivo al prossimo di insospettirsi sulle nostre società segrete. Non c’è nessun complotto, però. Semplicemente tutti abbiamo perso di vista tutti, da quando siamo frequentatori dei social network, malgrado sembri proprio il contrario. La gente conosciuta, quando è su Facebook, non la riconosci più? Ecco, è proprio quello che intendo io. Non c’è più nulla di “in” perché, a dirla tutta, già è impossibile capirci qualcosa, figuriamoci a dare un giudizio comune: sentendoci al centro di una rete di contatti globale ce ne guardiamo bene dall’usare in un’accezione di esclusività qualcosa che nella stra-maggioranza dei casi conferisce alle parole un significato contrario a quello di origine: incompiuto, incompetente, inadeguato, incapace, le prime quattro cose che ci vengono in mente di un lista tristemente infinita.
una volta qui era tutta campagna di Russia
StandardSandra ha dato le dimissioni è si è trasferita, alla fine. Era dipendente presso la Morte Spa e potete immaginare quanto stress generasse il suo lavoro, soprattutto a una così giovane. Ora, la cosa più difficile è togliere a questo post quella patina da Dylan Dog de noantri o, per dirla meglio, quello storytelling da Barbapapà in salsa lovercraftiana considerando la piega che questa vicenda potrebbe prendere. Mettiamola così: su Sandra ci avevano fatto un pensierino in molti ma quelli che poi ci avevano provato si erano visti rispedire i propri approcci al mittente.
A Marco, tanto per iniziare, Sandra l’aveva quasi spinto al suicidio, e questo in tempi non sospetti, prima cioè che accettasse un contratto a tempo indeterminato per la triste mietitrice. Ecco: questa del tempo indeterminato è una metafora mica male, e vedrete che alla fine di questo compitino scritto qualche punto da voi lo prenderò, come narratore. Dicevo che Marco invece era sull’orlo di non essere confermato con il suo contratto a progetto con la vita, avete capito cosa intendo. E tutto perché Sandra, anziché raccontargli le solite storie che si dicono sempre quando si dà il benservito a qualcuno, avete presente? Sono innamorata di un altro, non voglio impegnarmi, ti voglio troppo bene come amico, non mi meriti, siamo troppo diversi eccetera eccetera lo aveva incalzato con tutti i suoi limiti. “Guardati: ti sembra di essere un uomo attraente?”, gli aveva detto. “Come pensi che una donna possa essere minimamente interessata a te?”. Marco se lo è ripetuto un bel po’ di volte davanti allo specchio, uscito dalla doccia, poi per fortuna di tutti la cosa non ha avuto seguito.
Che caratterino Sandra, vero? Non a caso, in quel discutibile lavoro, era in super carriera. Ora vive all’estero e si occupa di tutt’altro, ho visto che posta su Facebook cose sul team-building con frasi attribuite a cazzo a gente del calibro di Velasco, come fanno tutti. Un volta, qualche settimana prima di chiudere baracca e burattini e sparire, si era confidata con me su una specie di segreto aziendale, che poi tanto segreto non è, perché se è vero che alla morte ci arriviamo da soli prima ci si fa su tanta di quella letteratura che potrebbe impegnare un intero corso di laurea, anzi forse c’è già, da un certo punto di vista. Riflettete anche su questo aspetto, mi riferivo al significato dell’arte.
Comunque Sandra, e poi ho finito, mi ha detto che anche se non crediamo a nulla e della religione ce ne facciamo un baffo il nostro corpo è l’unica cosa che ci appartiene veramente, ed è un nostro sacrosanto diritto sapere che cosa ne sarà dopo, un po’ come i beni che accumuliamo e che poi decidiamo di lasciare in eredità a chi ci pare e piace. Faccio l’esempio di una collezioni di vinili a cui avete dedicato una vita intera. Volete che finisca nelle mani di qualche speculatore intenzionato a lucrarci sopra a colpi di venticinque euro a copia con la sua bancarella ai mercatini degli sfigati? E, allo stesso modo, pensate che sia uno scempio quello di abbandonare la vostra carcassa in una costruzione in cemento armato dentro un contenitore di legno da tremila euro? No.
In questo la storia, come sempre, può fornirci utili spunti. Non la mia storia con Sandra che non è mai iniziata, va bene che mi piacciono le donne autoritarie ma così è troppo anche per me. E non è che poi si corresse qualche rischio, lei comunque lavorava nel marketing. Intendo la Storia con la esse maiuscola. Ricordate i contadini russi che, con l’avanzata di Napoleone, davano alle fiamme e devastavano villaggi e raccolti in modo che l’esercito invasore non trovasse nulla? Bene. La strategia può essere la stessa: meglio far sparire ogni traccia di sé prima che qualcuno o qualcosa se ne occupi in tua vece.
per la volpe poi l’uva era poco più che un esercizio di stile
StandardDovremmo osservarci di più mentre ci dirigiamo imperturbabili verso il nostro destino perché, anche se a noi non sembra, manteniamo tutto sommato una nostra dignità. Ci sono centinaia di cose che facciamo con fastidio ma alla fine le facciamo assumendocene pure la corretta responsabilità. Quando non volevo andare a scuola mio papà rispondeva che, nell’eventualità, allora nemmeno lui si sarebbe recato al lavoro. Il lunedì sacramentiamo ma poi spegniamo la sveglia, apriamo un paio di scatolette ai gatti, prepariamo lo stesso la colazione per tutti mettendo da parte il fatto che quando il tempo ci rende orfani raggiungiamo il massimo picco di vulnerabilità e viviamo, da allora in poi, come funamboli senza rete e protezione alcuna. Sarà così anche per i nostri figli? In una società che ci impone modelli di successo illusoriamente alla nostra portata, per compensare la nostra frustrazione altro non possiamo fare che mettere loro al centro della nostra realizzazione. Per questo motivo oggi, come in tutti i momenti di crisi, ci comportiamo come se fossero molto più importanti di quanto la natura lo richieda.
Un altro canale di sfogo pronto all’uso è fare i maleducati sui social, ma qui subentra il nostro sentirci in un angolo accerchiati dalle persone che invidiamo alleate con la tecnologia nemica dell’uomo perdente, anche se sono il primo a sostenere che tra macchina e uomo è la macchina la parte intelligente e l’uomo, quando non è capace o non ha voglia di imparare come funzionano le cose, dà la colpa alla soggettiva difficoltà. Una metafora della vita che deriva probabilmente dall’informatica dove accade continuamente, perché non c’è un altro ambito che cambi così rapidamente. Non a caso non passa giorno in cui non ci sia qualcosa da aggiornare, pensate a iTunes o alle app sul vostro smartphone. Io con iTunes un po’ ce l’ho perché ha una gestione della musica piuttosto complicata per quello che dovrebbe essere in realtà. Io pretendo che un player altro non faccia che riprodurre i brani che ordino e nomino io, tutto il resto non mi occorre. Sento altri che vanno in bestia con la formattazione del testo sui file di Word, con i browser che cercano di sostituirsi l’uno con l’altro, o l’impari lotta di David contro Golia in cui ce la prendiamo addirittura con Microsoft che si sente in dovere di correggerci l’account ogni volta che accendiamo Windows 10, per non parlare di Cortana che fa casino. In realtà si tratta di un approccio vecchio quanto la letteratura: pensate alla “Volpe e l’uva” di Fedro e di Esopo, a quanto gettiamo la spugna ma non è mai colpa nostra. Definiamo le cose con i termini appropriati e mettiamo da parte i sinonimi per quando scriviamo. Usare le parole poco comuni per definire concetti è una consuetudine che ha una sua utilità anche se dipende dalla circostanza ma, in genere, evitare le ripetizioni è uno stile molto apprezzato.
i fantasmi del museo e il museo dei fantasmi
StandardLa brutta notizia è che ieri sono rimasto in piedi quasi dieci ore ad ascoltare con attenzione un giornalista newyorkese intervistare italiani dipendenti di una multinazionale che gli rispondevano in un inglese approssimativo per prendere nota, dall’indicatore del tempo trascorso sul display di una telecamera, dei punti salienti di quello che dicevano in modo che, rivedendo l’intervista, il giornalista potesse ritrovare al volo alcuni passaggi scelti sul file delle riprese. Lo so che è un lavoro difficile da capire tanto quanto da spiegare, per questo vi chiedo invece di concentrarvi sulla bella notizia. Una delle persone che si è sottoposta a questa attività che viene definita Media Training si chiama Cortinovis e, per una combinazione che ha del miracoloso, ha lo stesso timbro di voce del professor Cortinovis, quello che ci aveva portato in visita guidata al Museo delle Delusioni e poi si era eclissato, svanito nel nulla, tanto che tutti pensavamo che si fosse imboscato da qualche parte con la prof di educazione fisica. Invece poi Silvio l’aveva trovato in una specie di trance nella sala multimediale piena di postazioni con le cuffie, quella in cui si possono trascorrere ore, giorni e persino settimane intere a passare in rassegna una monumentale raccolta di timbri vocali legati a chi ci dà le brutte notizie.
Avete colto il collegamento? C’è una gamma infinita di varianti in materia di percezione del suono di come vengono conditi i rifiuti, nel senso di tutti i no che ci fanno bruciare la faccia, mica mi riferivo alla spazzatura. Ragazzine che ti dicono di no in bicicletta senza nemmeno smettere di pedalare, potenziali datori di lavoro che lo esprimono tra le righe per completare poi la risposta negativa con un non detto, o meglio nemmeno una mail per dire che fai schifo, genitori che ti vietano di prendere la strada che vorresti o gente che, semplicemente, applica la diffusissima filosofia mors tua vita mea, fortunatamente in modo non letterale anche se può capitare che il contesto sia persino peggiore. Il prof Cortinovis chissà come si è imbambolato e cosa gli ha fatto scattare l’estasi della reminiscenza, quale particella di flash-back gli ha mandato in tilt il sistema del comportamento secondo le circostanze, quello che ci mette al riparo da domande curiose sulle nostre défaillance emotive che i più prendono per stranezze perché, specialmente se di professione fai l’insegnante, di certo non te le puoi permettere. La stessa cosa oggi, ascoltando quel giovane manager parlare, un po’ mi ha sorpreso perché, se non mi sono soffermato allora nell’avveniristico allestimento dei timbri che ci fanno più male e che poi ci portiamo appresso tutta la vita che ha rapito persino il prof, è perché a quindici anni ci sono ben altre priorità, e ho deciso però che prima o poi un salto a visitare una seconda volta il Museo delle Delusioni, questa volta con la giusta attenzione, lo farò. Vorrei però che vi fosse chiaro che né il prof Cortinovis tanto meno l’omonimo responsabile di divisione che ho visto oggi mi hanno mai dato brutte notizie, forse solo un paio di insufficienze in cinque anni l’uno, e la certezza di svolgere un lavoro di merda l’altro.
alcune cose a cui attaccarsi, e no, quella a cui state pensando non c’è
StandardMi piacciono le esperienze itineranti solo a patto che poi si torni a casa. Questa è una costante della mia vita e non mi stancherò mai di dirlo e se mi stancherò tornerò comunque a casa mia per riposarmi. Per esperienze itineranti intendo cose come i tour che fanno i musicisti. Vai in un posto più o meno lontano, allestisci il tuo set di strumenti sul palco, fai la prova suoni, poi se sei in una bella città mangi e bevi qualcosa da qualche parte e ti dai un’occhiata intorno, magari qualcuna di quelle persone mai viste che incontri verrà a sentirti, molto più probabilmente no. Poi torni nel locale e fai il tuo show davanti al fonico e una dozzina di gente che è lì per caso, quindi finisce tutto, smonti e malgrado l’aspettativa come al solito delusa l’esperienza in sé è bella e sei già pronto a ripeterla perché c’è la passione, che raramente si consuma. Basta però che prima si possa rientrare a casa propria, anche tardissimo, a me piace così. Resta comunque qualcosa delle esperienze itineranti, soprattutto del tipo che vi ho appena descritto. Un modello riproposto in luoghi differenti ogni volta che si irradia da un centro che poi inevitabilmente ti attira verso di sé. Oggi faccio un diverso tipo di esperienza itinerante, e se vi dico cos’è scommetto che vi metterete a ridere.
Ogni sabato o domenica mi reco in una struttura sportiva diversa per accompagnare mia figlia agli incontri del campionato di pallavolo a cui partecipa la sua squadra. Anche in questo caso si tratta di uno standard che si ripete senza problemi all’interno di contesti che cambiano ogni volta. Si va, loro giocano, noi adulti aspettiamo, si vince o si perde, ci si diverte o ci si annoia, si torna a casa commentando le prestazioni di questa o quella atleta. Può sembrare una cosa da poco, lo so, ma nella vita ci sono anche queste piccolezze, sono certo che anche voi avete le vostre. C’è però una costante che è poi il punto a cui volevo arrivare. Le squadre avversarie, ogni anno e a ogni campionato, alla fine sono sempre le stesse. I tornei sono provinciali ma le federazioni cercano di formare gironi in modo che le famiglie non debbano spostarsi troppo distante da casa, il che è una forma di attenzione che gradisco particolarmente. Ne consegue che le palestre in cui si disputano gli incontri, dopo un po’, le ritrovi uguali a loro stesse dall’anno prima, con le loro strutture spesso trascurate, muri scrostati, attrezzature consumate, il tutto rimesso all’impegno delle associazioni sportive e dei volontari che le mandano avanti con il tempo che vi dedicano. Io spesso scatto una foto a un particolare. Un canestro, un angolo del parquet con la sovrapposizione delle linee che delimitano i vari campi di gioco delle diverse discipline, una lampada del soffitto ricoperta di polvere, i bocchettoni dell’impianto di riscaldamento. Poi prendo un caffè, in occasione delle partite c’è sempre una mamma o un papà che si improvvisa barista in un angolo con quelle macchinette a capsule, anche in questo caso per finanziare la società di casa. Faccio le foto perché così mi attacco anche a questi dettagli che forse, quando li rileggerò tra dieci o vent’anni, non avranno nessun valore oppure no, ci vedrò un motivo per ricordare qualcosa di piacevole. Tanti piccoli momenti, messi insieme, che possono riservare soddisfazioni sorprendenti.
siamo sullo stesso piano
StandardDall’estratto conto risulta che mi bastano solo cinquecento visite per sbloccare il livello superiore e poter finalmente scrivere “artista” come descrizione di chi sono e cosa faccio. Artista a trecentosessanta gradi, aggiungerei, che è molto meglio di impiegato a novanta – scusate il grossolano gioco di parole – confuso nella folla di chi si deve arrendere all’impeto della quotidianità che è quasi meglio dell’università della strada e che però non ti insegna a sederti con dignità mentre ti rechi in ufficio a fianco di un homeless stravaccato sui sedili della metro e dalla trasandatezza da stereotipo di giornale di destra, quelle vignette tipo Giannelli, per intenderci. Il bello è che potrò mettere “artista” anche su cose tipo LinkedIn, che tanto non mi si fila nemmeno di striscio perché non è un social network per vecchi, ma almeno mi resterà la soddisfazione di attendere sulla sponda del fiume ma basta cadaveri che passano, mi accontenterei di plateali manifestazioni da struggimento per l’invidia, come mangiarsi il cappello alla Rockerduck.
Ma non c’è tempo per crogiolarsi sugli allori perché al conseguimento dello step successivo, che come leggo sul “Manuale per le celebrità fai da te sul web” coinciderà con il traguardo del milionesimo commento, potrò essere considerato “divinità” e fondare una vera e propria religione. La gente verrà qui per trovare delle risposte, sentirsi migliore, regolarizzare la condizione della propria coscienza e avere indicazioni sullo status di quelle altrui, imparare a scrivere correttamente l’italiano sbrigativo, ottenere buoni consigli sulla musica, scalare i gradi di separazione dalle numerose celebrità con cui gli autori di questo blog sono in contatto. Ma anche cercare informazioni su quella famosa ragazza proprietaria di un cane gigantesco, sembrava proprio quello delle barzellette della Settimana Enigmistica, che non era granché (la ragazza, ovvio) ma piaceva perché era sfacciata, faceva cose come baciarsi con lo studente di architettura di cui era amante mentre lui ascoltava al telefono la sua fidanzata ufficiale, e comunque niente a vedere (in quanto a bellezza) con Mirella che si era fatta vedere solo un giorno all’inaugurazione dell’anno accademico per poi sparire, vittima di un esaurimento nervoso. L’elenco dei motivi per cui la gente verrà qui continua con l’assicurarsi la prenotazione per un posto vicino all’orchestra alla cena di gala quando finirà tutto, perché non dimenticatevi che ho un passato da musicista che conta. E anzi, avendo proprio già raccolto molti crediti nella mia precedente carriera artistica dietro ai cursori dei principali sintetizzatori analogici, diciamo che fare lo scrittore americano per me equivale ad avere una seconda laurea, quella che non ho mai preso e che mi verrà conferita qui con una bella cerimonia con tanto di tocco e toga.