Dopo venti minuti abbondanti di conversazione in tono soverchiante circa le strategie più efficaci per sbaragliare gli avversari in un celebre gioco di ruolo fantasy, i due bimbi imprigionati in un corpo da giovani adulti con tanto di barba e borse porta-computer raccolgono le loro cose e si avviano verso l’uscita più vicina per scendere dal treno, mentre rallenta nei pressi di una stazione dell’hinterland. L’uomo di mezza età che incrocia le sue lunghe gambe alle mie tra gli stretti sedili della seconda classe, solleva naso e baffi dal giornale in cui è immerso e mi lancia il suo commento, un “ai miei tempi si parlava di figa, non capisco che cosa abbiano per la testa i ragazzi di oggi” che, pur in un eccesso di cameratismo, suona sufficientemente eloquente. Già, penso quando la porta si richiude attutendo il seguito di quel dialogo nel quale i due sembrano così infervorati e di cui non saprò mai gli esiti, ma nemmeno quali saranno le loro prestazioni ai futuri tornei, giusto per trovare un trait d’union tra le due scuole di pensiero, la figa e i giochi di ruolo. E così li osservo allontanarsi, e quando di loro non resta più nulla, inghiottiti dal sottopassaggio, mi rendo conto che comunque per dissertare di entrambi gli argomenti occorre molta immaginazione.
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