tutto casa e ufficio, ma solo perché è a due passi

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Da sempre guardo con sospetto chi cambia casa in funzione dell’ufficio per essere il più vicino possibile al posto di lavoro, una scelta piuttosto in voga ai tempi dei nostri genitori quando entravi in un’azienda o in un ente a meno di vent’anni e ci rimanevi fino alla pensione. Oggi questo non è più possibile, lo sapete meglio di me. Chi scrive ha girato più agenzie in quindici anni che il resto della sua famiglia messo insieme, giusto per fare un esempio a caso. Eppure ogni tanto mi capita di conversare con questi eroi senza tempo, e non mi riferisco a chi si trasferisce dalla Liguria alla Lombardia, ci mancherebbe. Solo un folle farebbe a lungo il pendolare quotidiano tra i capoluoghi delle due regioni. Ehm. No, pensavo a chi passa da Milano Ovest a Est per avere meno di cinque minuti di auto da sopportare ogni mattina. Nemmeno si potesse ancora pranzare a casa, come nell’Italia in bianco e nero che si vede su Rai Storia. O farsi una pennica prima di riprendere l’attività nel pomeriggio.

Senza contare che le imprese, anche quelle grosse, cambiano sede che è un piacere e mandano nel panico i dipendenti. Iniziano l’attività in centro e nessuno si muove, sono ancora in pochi a lavorarci. Poi si ingrandiscono e vanno al Centro Direzionale di Agrate dove occupano quattro piani e tutti si trasferiscono in Brianza, ma nel frattempo arriva la crisi e i prezzi degli uffici in centro diminuiscono, quindi i superstiti ai tagli di personale sono costretti a tornare in città seguendo il nuovo assetto societario.

Solo una volta, nella mia vita, ho provato l’ebbrezza di recarmi al lavoro a piedi e di poter rientrare a casa per la pausa di metà giornata. Si è trattato di un periodo breve, un semestre a malapena, ma nella bella stagione tanto che ricordo insalate varie gustate su un meraviglioso terrazzino con vista sui tetti della città vecchia. Ma è chiaro che si tratta di un’eccezione. Mio suocero mi racconta spesso di quando faceva l’operaio all’Innocenti, oltre Lambrate, e si muoveva ogni giorno in bicicletta dalla periferia a Nord-Ovest di Milano. Un aneddoto che mi ripeto proprio in questi giorni come un mantra, mentre scorro gli orari del passante ferroviario delle Nord mandati in tilt da un misterioso software per la gestione dei turni del personale tanto che la circolazione è praticamente inesistente. Immaginatevi un intero sistema produttivo messo in ginocchio da un’infrastruttura di trasporti che all’improvviso non funziona più. La mancanza delle cosiddette commodity, i servizi che diamo per scontato. La luce, il gas. O la benzina, la cui disponibilità tra l’altro in questi giorni è messa in forse da una serie di scioperi che il Tg7, questa sera, ha ribattezzato “la serrata delle pompe”.

Non sono i tempi migliori per chi fa leva sulla propria flessibilità per ottenere il massimo dall’impiego a progetto. Ma anche chi fa la stessa cosa ogni santo giorno non se la passa meglio. Ogni mattina è tutto in ingegnarsi per trovare il modo per non tardare l’appuntamento con il jingle di start in ambiente Windows o l’accordo che sancisce l’avvio del sistema operativo che fu di Steve Jobs e, contestualmente, una nuova giornata di grane indipendentemente dalla piattaforma utilizzata. Stamattina ho approfittato di uno strappo fino alla metro più vicina da un vicino di casa perché, trascorsi i due giorni e non risolti ancora i bachi all’applicativo per la formazione dei turni, non mi fidavo più del treno. Che poi mi chiedo cosa ci voglia a fare un tot di telefonate e a convocare i macchinisti di urgenza. Succede ovunque, no? C’è un casino che rischia di esasperare gli utenti e muoverli verso una sommossa popolare, ci sarà il modo per arginare il danno. Così, tra un capitolo e l’altro del libro la cui lettura ormai sto portando a termine dovendo impiegare 80 minuti per percorrere dieci km, penso a chi lascia dietro di sé la porta e si appresta a camminare per quei pochi minuti che lo separano dalla scrivania. Ne conosco un paio, e ora capisco il perché di tanta serenità.

northern soul

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Si sa, l’effetto sovraesposizione è cosa ben nota, anche in ambito musicale. Ci piace ascoltare in loop i brani di cui ci si innamora, ma alla decima volta si inizia ad averne abbastanza e si passa ad altro. Poi si ritorna sul pezzo, quel pezzo, il giorno dopo, e via così finché la fiamma non si è spenta e se ne accende un altra, per tutti i secoli dei secoli. Repetita iuvant: questa è un’altra teoria, di per sè interessante. Ricordo un mio caro amico dj che, in console durante una festa di capodanno, riuscì ad oltrepassare l’ora, roba da guinness dei primati, mixando una via l’altra tutte le versioni e le cover di “No, no, no, you don’t love me” in commercio. Divertente anche se un po’ nerd.

In genere, ci sono brani composti e registrati nella notte dei tempi, quando cioè io non ero ancora nato oppure comunque non alimentavo ancora l’industria discografica, che sono considerati classici. Anzi, i cosiddetti Classici, quelli che non possono essere messi in discussione. Ed era piacevole sentirli prima dell’avvento delle varie emittenti dedicate alla nostalgia, perché li sentivi molto raramente, sommersi (soprattutto) dalle varie immondizie musicali specifiche di ogni epoca. Ora accendi la radio, ti muovi tra la modulazione di frequenza, e stai certo che il classicone anni ’60 lo trovi, prima o poi.

Ma fino a poco tempo fa le mani su “Ain’t no sunshine” per trasformarlo in un tormentone non le aveva messe ancora nessuno, e se sbaglio correggetemi. Pur trattandosi di uno dei brani più coverizzati di tutti i tempi e più pervasivi nella cultura popolare (date un occhio qui), mi ha sempre dato l’impressione di essere un intoccabile. Da qualche mese non è più cosi. Ogni santo giorno, la melodia di Ain’t no sunshine (in non so quale versione) si insinua tra i binari delle stazioni delle Ferrovie Nord, unico elemento sonoro di una sistema di Digital Signage inutile quanto sottoutilizzato, un susseguirsi di animazioni del Carlo Cudega e messaggi che con le news in tempo reale, di cui gli utenti avrebbero bisogno come il pane, purtroppo non c’entrano nulla. Così, tra una stazione ristrutturata e un quiz a risposta multipla per chi vuol esser pendolare, si diffonde la pubblicità che ha rovinato la verginità di uno dei miei pezzi preferiti, qui sotto nella versione che amo.

morte a Porta Venezia

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Dal nostro inviato, Thomas Mann. “C’è qualcosa di diverso nel tratto della banchina del binario 2 dove G. von A., con la metodicità tipica – e soprendentemente costante – di chi ripete sempre lo stesso comportamento (a)sociale per non destare sospetti negli habitué, si posiziona ogni sera, libro alla mano, in attesa del treno del rientro. Siamo alla fermata delle Nord di Porta Venezia. Sono le 18 circa.

E questa sera, dicevo, c’è un particolare anomalo. Un capannello eterogeneo di persone ha creato un separé umano intorno a una delle panchine in muratura. A pochi metri, il distributore automatico di letture tutt’altro che underground malgrado l’ubicazione, programmato per dispensare asetticamente libri sottocosto di Daria Bignardi e riviste appesantite da gadget handle-to-care, ovvero bottigliette d’olio in grado di frantumarsi nella caduta verso la bocca della macchina, l’interfaccia che costituisce il punto di contatto con gli acquirenti.

G. von A. si avvicina alla scena. Una donna, cinquantanni circa, è sdraiata per terra con le braccia aperte sul pavimento, la testa appoggiata alla borsetta, immobile e composta. Questo, unito alle palpebre calate e alla concitazione con cui un astante presta le operazioni di primo soccorso confrontandosi al telefono con una centrale operativa, probabilmente la struttura alla quale ha richiesto un intervento tempestivo, lascia supporre il peggio. La muraglia di viaggiatori curiosi è piuttosto dinamica, lo scambio di voyeur è costante e coincide con i treni in arrivo e in partenza. Un addetto alla sicurezza, un ragazzone in divisa blu – taglia xxxlll a giudicare dai bicipiti il cui diametro supera abbondantemente quello delle cosce di G. von A. e alla statura fuori dalla media – accenna risposte in un italiano piuttosto sommario ai comandi che un caposquadra gli sta impartendo al telefonino di ordinanza, e fissa  spaventato un punto non ben definito del binario di fronte. Probabilmente l’imprevisto gli costerà una relazione da scrivere con l’ausilio di qualcuno.

Ma ecco arrivare di corsa un uomo, mezza età e portatile a tracolla. “Sono un medico. Avete già chiamato l’ambulanza?”. Il primo soccorritore, ancora prono sul corpo esanime, tasta polsi e collo, comunica dati e impressioni e non se ne accorge. Ma il medico ha già avuto una generale non-risposta che è una conferma. Una coppia di ragazzi per mano si avvicina a G. von A. che nel frattempo ha interiorizzato, e sta per esteriorizzare, la drammaticità della situazione. La coppia si svela composta da M., esecutivista collega di G. von A., e un ignoto fidanzatino. “G., cosa è successo?”. In quell’istante la drammaticità raggiunge il culmine. L’attesa e la morte. O forse la donna sdraiata è solo svenuta. Esci la mattina, magari hai rimbrottato con il tuo partner. O non hai detto al tuo amato T. quanto sia estasiante la sua bellezza. O, molto più prosaicamente, la sera prima hai rinunciato alla terza birra media perché ti sei messo a dieta. Ed ecco, ora seì lì supino sulle piastrelle dal colore indefinibile, sotto Milano, in un viavai di persone che ti danno un’occhiata – che le circostanze ti impediscono di ricambiare – e che mute si pongono la tua stessa domanda, dandosi una risposta dalle sfumature diverse a seconda dell’età e delle prospettive.

G. von A. vorrebbe aspettare l’arrivo dei soccorritori con la barella. Saperne di più. Incontrare un infermiere che volga un ultimo sguardo e condivida la sofferenza, e che magari alzi il braccio verso l’orizzonte, a voler indicare una inesistente via di salvezza. Ma ecco, tra lo stridore dei freni, il 18.08 per Saronno, su cui G. von A. trova posto lontano dall’esecutivista e dal suo fidanzatino, in modo da continuare la lettura in pace. Da Thomas Mann è tutto, a voi studio”.