benvenuto nella tua nuova posta in arrivo

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Vedete, il motivo per cui mi accanisco a scrivere tutte queste cose è che qui mi sento padrone a casa mia, come si dice sul pianeta dei calderoli. Non che la mia vera abitazione non sia confortevole, anzi. Ma qui so sempre dove trovare le cose. Non sparisce mai nulla. So che c’è un menu che a voi è trasparente ma che mi permette di scrivere un nuovo post come questo, mettere delle parole in grassetto o in italico,

  • utilizzare
  • i punti elenco
  • che è una cosa
  • che non faccio mai.

Se voglio abbellire il testo con foto o video so come fare. Insomma, conosco questo posto abbastanza bene, diciamo che le cose che mi serve che faccia le fa. Se poi proprio voglio rivoluzionare tutto – e già pensarlo mi mette i brividi – posso scegliere un tema diverso. I temi sono la grafica che compone le pagine, quindi i titoli scritti così, il menu scritto cosà, il carattere utilizzato eccetera. Ma so che molti di voi sono i fortunati possidenti di un luogo come questo quindi non mi dilungo oltre. Perché invece quando mi capita di andare altrove, in quelle accozzaglie di socialità frequentate da persone che ce la mettono tutta per superarsi (e superarmi) in acume e spirito, ogni due per tre cambia qualcosa. E il pulsante che prima era destra ora è a sinistra, e poi la colonna e i criteri di ricerca. Che poi tra di loro tutti questi grandi colossi della nuova bolla, che poi ora sono rimasti due e cioè Facebook e Google e gli altri si illudono di contare qualcosa, stanno all’erta e quando uno fa una modifica subito l’altro rilancia con qualche nuova funzionalità. Ed è tutto un “hey amico prova questo nuovo modo di visualizzare la posta”, e le etichette, gli speciali, le categorie e quelle in evidenza. Ma lo sapete, io sono uno di quelli che vorrebbe tutto sempre uguale. La Sip, l’Enel, tre canali Rai. Invece qui è tutto maledettamente veloce, non passa giorno in cui non ci sia qualcosa di nuovo da imparare per stare al passo con i tempi. Ma avete visto qual è poi la conseguenza? Siamo come i bambini a Natale, con mille pacchi da sfasciare, e il gioco vero è sfasciare i pacchi.

take my tears and that’s not nearly all

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Sono sicuro che se mi avessero installato addosso Google Analytics sin dalla nascita, magari al momento della registrazione nel database dell’anagrafe che negli anni sessanta potete immaginare di quale materiale consistesse, una delle pagine più visitate nella mia esistenza in ambito musicale risulterebbe quella in cui il pezzo in questione è stato embeddato, come si dice tra noi guru di mezza età del web che quando per lavoro dobbiamo visualizzare una pagina di Facebook ci sentiamo ancora in colpa perché sì, avrà tutte le potenzialità marketing che dicono, ma ci sembra comunque di cazzeggiare. Ma, tornando a Tainted Love, come avrete capito sin dal titolo di questa profonda riflessione, non è che tutti questi clic nella mia memoria sono dovuti al fatto che è uno dei pezzi che mi piace di più. Diciamo che da allora, dai primi vagiti nel reparto di ostetricia di una cittadina di provincia, lo si è sentito in tutte le salse e in tutte le versioni, a partire da quella che lo ha portato al successo più ampio dei Soft Cell, passando per quella dissacrante quanto inutile di Marilyn Manson fino a una pessima cover in formato cassa dritta avanti tutta che giusto poco fa in un’ora di ginnastica le vicine che fanno GAG hanno ballato almeno tre volte di fila. Degno di nota anche un facile riadattamento dei Boppin’ Kids, trio rockabilly siciliano, verso la fine degli anni 80. Saprete quindi tutti che però l’originale rimane sempre la versione più riuscita, su questo non c’è synth pop che tenga, e chissà che l’avvenente Gloria Jones possa essere stata per Marc Almond un’icona equivalente a Sandy Shaw per Morrissey. Questa è una banalità del tutto personale e non se nemmeno se possa essere dimostrabile, ci vorrebbe l’evidenziatore come su Wikipedia o potrei chiedere un parere a qualche esperto come quella mia amica che anni fa acquistò il biglietto dei The Cure a Torino solo perché c’era Marc Almond come supporter e, terminata la sua esibizione, se ne andò ritenendo non ci fosse altro da aggiungere. Ci limitiamo però a riconoscere all’unanimità che la versione qui sotto è un capolavoro di Northern Soul, e almeno questo è innegabile.

campominato.exe

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Che ora per essere polically correct si chiama prato fiorito ma aver cambiato solo il nome non ha variato la sostanza. Se prima facevi un passo falso saltavi in aria, il che era un disastro, ma ora se sbagli a mettere il piede finisci su una “busa” di vacca il che non è una bella esperienza se calzi infradito, ma ti possono anche capitare le zecche se il prato fiorito si trova nei pressi di una zona boschiva alla mercè di animali facili prede di parassiti. Ma la dinamica è la stessa, fai attenzione alla prossima mossa perché se non usi l’arguzia tutto è contro di te e nel gioco puoi fare partite all’infinito ma nella vita sei spacciato o al massimo trovi persone ben disposte a sopportarti. E come difficilmente tieni uno storico della tua attività con i giochi di sistema di Windows così non è facile ricordarsi di quando qualcosa è esploso sotto di te o più verosimilmente hai inavvertitamente schiacciato un lascito canino per strada che nell’immaginario collettivo è l’errore per antonomasia – si dice che porti fortuna ma non ci ho mai creduto – e allora se procediamo per metafore ci vorrebbe ben altro che un blog per contenerle tutte. Continua a leggere

la classe non è app

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Gli auricolari del distinto quarantenne che viaggia al mio fianco vibrano ed emettono rumori a un volume che già per l’ambiente è fastidioso, non oso immaginare per il suo apparato uditivo. Potrebbe essere un brano qualsiasi di una band industrial, ma no, è impossibile, il suo aspetto ordinario trasmetterebbe a chiunque ascolti deplorevoli (cit.). Così allungo l’occhio verso il display dello smartphone che tiene con le due mani, posizionato in orizzontale. Non si tratta di una playlist per iniziare la giornata con la giusta carica violenta e l’energia per demolire tutti gli avversari sul posto di lavoro, bensì uno di quei videogiochi ammazza-tutti, che ha lo stesso scopo della playlist da “all’arrembaggio” ma – diciamo – è un passatempo un po’ meno nobile. Lo vedo tutto concentrato a far esplodere cose e persone tramite pulsanti e ditate sul touch screen, l’audio è davvero irritante. Del mio stesso parere la signora davanti a noi, altrettanto elegante, che osserva l’eterno bambino dimenarsi e sfogare la rabbia virtuale contro nemici piccoli quanto il palmo della sua mano. Scuote la testa in un plateale giudizio tutt’altro che politically correct, come a condannare il modo inconcepibile con cui un adulto sceglie di perdere il proprio tempo, quindi torna a concentrarsi sul suo, di smartphone, e riprende a leggere i commenti al suo status di Facebook.

e-profundis

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La massa di persone che riemerge dal passato, parenti e amici e ex e compagni di classe ciascuno sul proprio scranno a formare un parlamento, si può pensare a una disposizione che rifletta l’orientamento politico da destra verso sinistra. In taluni casi può esser sbilanciato, magari conosci solo persone da Rutelli in poi, per dire, ma la vado dura perché c’è l’insieme di quelli che non vedi e non senti dalle medie, chissà cosa hanno votato (e se hanno votato) in tutti questi anni, quindi ecco lascerei perdere l’assegnazione dei posti secondo questo criterio che complica le cose. E ti verrebbe voglia di dire qualcosa a uno a uno, specie se hai la memoria lunga lunga da elefante, magari non ricordi se hai già messo le infradito in valigia ma hai un file di excel con la traccia di tutti i torti subiti, per esempio. Hey tu, laggiù, con quel dolcevita blu scuro e la forfora sulle spalle, tu una volta mi hai fracassato la squadra – quella per il disegno tecnico, eh – sulla testa. Invece tu, lì, che mi dici della collezione di mix dei Depeche che ti sei tenuta quando mi hai lasciato? E quell’altro due posti più in là, nel settore parenti di primo grado, mi hai truffato e ora siedi lì come se niente fosse. Ma ci sono anche le cose belle, guarda, la tipa con gli occhiali che ti ha prestato il walkman con quella compilation durante il viaggio di ritorno e pensavi che non saresti più voluto tornare. Sì, dimmi? Mah, sei in prima fila, ma guarda davvero non mi ricordo di te, ci si vergogna un po’ quando magari non hai quella memoria che ti permette di ricordare le facce. Ah, ho capito, in quel periodo non ero granché presente, puoi immaginarne il motivo.

Ecco, i socialcosi in chiaro, quelli dove ti sei iscritto con nome e cognome, Facebook per intenderci, quelli in cui rispondi con la tua faccia dieci, venti o trent’anni dopo a persone che sono contatti di amici di amici di semplici conoscenti che comunque sai chi sono e ora li hai amici anche, anzi solo lì, poi li incontri dopo che qualche settimana prima ti hanno dato un bel like su una delle tue minchiate che ti sei inventato per fare il brillante sul tuo status e ora ce l’hai lì davanti e non hai proprio un cazzo da dire. Questi socialcosi mi davano l’impressione di essere così, una sorta di aldilà come lo fanno vedere nei film, un mistone atemporale di persone tutte insieme in un posto, io per comodità e per, diciamo, esigenze logistiche l’ho raffigurato come sopra perché mi immaginavo un parlamento come quello inglese, magari, tutti così appiccicati e a ridosso del primo ministro, loro hanno questo senso dello spazio e della partecipazione, li vedi anche negli stadi con i tifosi praticamente a bordo campo. Ma potrebbe essere la classica spiaggia con le persone sberluccicanti o con un alone luminoso, che nel nostro caso è di colore bluette Facebook. Facebook che ti ha permesso di non buttare più via nulla, nemmeno le cose che non avresti mai più voluto ricordare, ce l’hai sempre lì, a portata di username e password. Ma non so, tutti lo usavano invece per fare nuove conoscenze, nuovi incontri, nascevano storie, alcune tragiche, altri si sono sposati. Ma i morti della tua vita, quelli veri, nei socialcosi non ci sono. Sono cremati o tumulati da qualche parte. E un sistema di contatto virtuale con loro, ecco, questo potrebbe essere l’e-business del futuro. Deadbook, ti aiuta a rimanere in contatto con le persone che hai amato. Al posto del like un bel lumino e, per chi ci crede, una prece.

social phishing

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loghi comuni sulla rete

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Se un’azienda si espone online deve essere in grado di presidiare questo ambiente come se fosse un punto vendita, aperto 24×7. Ecco le imprese e i social network, secondo Mantellini.

Utilizzare gli strumenti di rete sociale attualmente disponibili è discretamente semplice per le persone e invece assai complicato per le aziende. I cosiddetti social media – a differenza dei meccanismi di relazione aziendali usati in passato – riducono distanze, moltiplicano umanità, accelerano la comunicazione. Ma sono contemporaneamente bestioline da maneggiare con cura: richiedono sangue freddo, familiarità con una grammatica comunicativa che in genere le aziende non posseggono, sono da presidiare continuamente, inoltre sono spesso molto poco significativi in termini di impegno economico (un paio di stagisti di fronte ad un computer sono sufficiente anche nel caso di grandi compagnie) ed anche poco considerati in termini di peso aziendale.

Il resto qui.

diritto di Facebook

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Leggo su l’Espresso un intervento superlativo di Giulio Graneri, il punto della situazione su una serie di aspetti volti a far comprendere meglio “quando stiamo andando”. Il tema è ottimamente riassunto nel titolo dell’articolo, “Dopo l’iPad, l’umanità 2.0”. Un tema complesso, in cui si intersecano diversi aspetti quali l’annosa questione del digital divide, la democratizzazione dei mezzi di comunicazione, il fenomeno dell’informazione partecipata sul web, il marketing che viene dal basso, dematerializzazione e industria culturale nell’era dell’e-conomia, chi può e chi non può permettersi tutto ciò eccetera eccetera. Una perfetta sintesi di tomi, anzi, giga di documentazione e materiale e opinioni e punti di vista e contributi. Così, a proposito di democratizzazione, mi permetto un paio di commenti (sempre nell’ambito del mio spazio pour parler).

Se non vendiamo più il supporto (la carta o il disco) il prodotto culturale diventa più complicato da vendere. E comincia ad essere difficile garantire una retribuzione per il giornalista o per l’autore, per l’editore o per il discografico.

Giusto. Ma aggiungerei: il prodotto culturale diventa più complicato da vendere con gli stessi margini. Giornalisti, autori, editori, discografici e (aggiungo io) musicisti si sono resi conto, a loro spese, che introiti e stili di vita di un tempo non sono più gli stessi. D’altronde sono in buona compagnia. Altri settori, tutti, direi, per motivi diversi, a malapena consentono il sostentamento, aziende e fabbriche chiudono, tecnologie obsolete escono di produzione eccetera eccetera. La sfida è proprio quella di saper cambiare. Gli sforzi quindi non devono essere sprecati nella guerra a file sharing, copyright e diritti e via dicendo, che in uno scenario digitale e digitalizzato mettono a nudo l’incompetenza dei propugnatori. Occorre pensare a nuovi modi di fare e vendere cultura. Il problema è il supporto? La cultura può puntare sul live, sul rapporto diretto tra autore e pubblico. Reading, incontri, concerti, djset, nuove modalità di performance, attività non solo specifiche ma anche collaterali in cui sopravviveranno solo i meno rigidi o i più flessibili, i meno duri e puri. L’editoria poi dovrebbe riuscire a catalizzare tutte queste esperienze dirette con il pubblico sul web, facendo pagare contenuti extra, come in parte già avviene, consapevole che se una parola o una nota viene trasformata in bit sarà comunque duplicata e condivisa. Ma non si deve cercare al di là del monitor il profitto. Certo, si deve lavorare di più guadagnando magari la metà di prima. Ma questo è un problema comune a tutto l’attuale sistema economico.

Oggi ciascuno di noi costruisce, assembla la propria informazione attraverso il filtro degli altri, guardando il mondo attraverso gli occhi delle persone di cui si fida. È sempre più con questa logica che decidiamo cosa comprare, cosa leggere, dove andare in vacanza. Non è nulla di nuovo, lo abbiamo sempre fatto anche prima del digitale, usando i nostri amici e i nostri colleghi. Ma la scala con cui il digitale abilita questo processo è talmente importante che ridisegna buona parte della nostra vita.

Ed ecco il ruolo di player come Google e Facebook nel mercato globale. Sta già succedendo, ovvio. E mentre, almeno in teoria, dell’imparzialità verso il mercato di un sistema pubblico che eroga servizi dovremmo fidarci, come dobbiamo comportarci con le suddette corporation e il rapporto con i loro stakeholder? Se esistono discipline come SEO e SEM, ci sarà un perché.

Così come considereremo sempre più normale delegare alla tecnologia parte delle attività del nostro cervello, come la memoria. Anche qui, stiamo vivendo una transizione importante: non ci interessa più “possedere” un’informazione, ma piuttosto ci interessa “sapere dove cercarla” quando ci serve. Questo passaggio dal possesso all’accesso è dirompente e sostanziale.

Giustissimo. E se si va verso l’integrazione di tutti i dispositivi in uno, oltre a chiudersi (finalmente?) l’era dell’accumulo fisico e del consumo compulsivo in ambito culturale  si avrà un consumo tecnologico diverso. Se però tutto sarà in rete, si consolida l’era dello storage e del cloud. Ma attenzione: i data center v anno a corrente, occorre focalizzarsi quindi su una gestione intelligente dell’energia e sulla continuià dei loro servizi.

I nostri dati personali, la nostra posta elettronica, la nostra agenda, il valore che creiamo in Rete, i nostri e-book: tutto è sempre disponibile per noi, perché risiede nella nuvola del cloud computing. Ma non lo possediamo. Ci affidiamo e ci fidiamo di Facebook, di Google, di Amazon, di queste grandi corporation che hanno la forza per standardizzare i servizi di base del digitale, così come i governi ci garantiscono i servizi base del mondo fisico. La salute, l’elettricità, la viabilità, da un lato. La continuità della posta elettronica, della piattaforma su cui lavoriamo, dall’altro. Solo che queste sono, appunto, corporation: aziende private che gestiscono ambiti delicatissimi della nostra società contemporanea. È uno stato di fatto imposto dalle cose in modo molto rapido, una situazione cui ancora non abbiamo preso le misure.

La Pubblica Amministrazione non riuscirà mai, appunto, a fare le veci di una corporation, ma dovrà acquistarne i prodotti. Quale sarà quindi il prezzo da pagare, per i cittadini-utenti, di servizi che ci sono indispensabili (sono davvero indispensabili?), che consideriamo dovuti ma che non lo sono? Qual è il profitto di Google nel mettermi a disposizione gratuitamente tera di storage per conservare informazioni sulla mia vita e su quella dei miei amici? Lo farà sempre? Se Facebook fallisce, che ne sarà di anni della mia vita social-e? Il ruolo di questi player – e parlo di Google che mi fa trovare le informazioni e che mi mette a disposizione una versione senza licenza di Office online, Facebook che mi tiene in contatto senza spendere un centesimo di telefono, Worpdress che memorizza e mi consente di pubblicare tutte le cose che scrivo – diventa sempre più critico e imprevedibile. Perché un prodotto può essere superato con un analogo migliore. Un sistema diffuso capillarmente e radicato nel comportamento singolo e sociale no. Windows può essere soppiantato da Ubuntu. Ma Google o Facebook, così diffusi da costituire la memoria e lo spazio virtuale ormai per antonomasia, difficilmente cederanno il posto, o ci saranno analoghi servizi progettati dal Pubblico per essere pubblici che li soppianteranno.

connecting people

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