(r)estate da soli

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No, non è un reportage di Studio Aperto, almeno non nelle intenzioni. Ma quando leggo di qualcuno afflitto da singletudine con l’aggravante del completo isolamento perché fresco fresco di scaricamento e quindi provato dallo status di eremita imposto dall’aver trascurato tutte le altre relazioni amicali in quanto completamente concentrato nella storia testé finita male, ecco io vorrei dirgli che invece nelle sue condizioni ci sono tantissime cose da fare e di contare fino a dieci prima di gettarsi a capofitto sul sito di avventure nel mondo o di passare al setaccio i contatti Facebook alla ricerca di un facile ripiego. Di un/una ex o di qualunque tipo di usato – anche sicuro – ci si pente nel giro di qualche ora in condizioni normali, o al massimo la mattina successiva dopo una bisboccia. Ma trascorrere addirittura le vacanze. Suvvia. Un po’ di amor proprio.

Ci sono tanti modi per trascorrere le ferie da soli. Potete organizzarvi un viaggio un po’ diverso dal solito, vi sconsiglio l’albergo perché non c’è niente di più triste, ma provate invece come fanno nel nord-europa. Non vi è mai capitato di incontrare persone da sole in tenda? Ricordo una giapponese che girava le coste della Sardegna in bici in affitto e uno zaino con un equipaggiamento minimale, un paio di short, una maglietta di ricambio, due costumi da bagno, materassino da yoga, igloo da un posto e poco più. Oppure compratevi un biglietto per una linea di pullmann internazionale e fatevi un viaggio in qualche cittadina di provincia europea. O ancora potreste trascorrere un po’ di tempo con i vostri genitori, a loro non può fare che piacere. Almeno credo.

Se decidete di rimanere in città ci sono tante cose da fare, a meno che non abitiate in uno di quei posti dove in agosto fuggono tutti. Musei, ville, cinema, tour in bici. A me piace visitare pedalando i quartieri quelli un po’ depressi, che in estate danno il peggio di sé. Cose che non posso che fare da solo, mia moglie è refrattaria a proposte di questo tipo. Bello anche andare a leggere un romanzo all’aperto, se non si muore dal caldo. Basta una panchina all’ombra e il gioco è fatto. Ma non c’è niente come starsene in casa, nella propria casa, e godersi una parentesi di solitudine. Almeno io ho fatto così l’ultima volta che mi è successo, una quindicina di estati fa. Avevo allestito tutto il mio set da tastierista collegato al pc, mi ero procurato intere collezioni di film (non porno, giuro) e telefilm che avevo perso in tv, libri in abbondanza, cibo e bevande in quantità da attacco nucleare. Ho passato così una decina di giorni a cavallo di ferragosto, uscendo solo per avere ristoro con il buio e staccare un po’. Se hai speso molto per costruire una vita con altri, a esperienza conclusa non c’è niente di meglio che dedicare risorse a ritrovare te stesso.

oggi inizia l’orario estivo

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Oggi inizia l’orario estivo: quante volte abbiamo letto comunicazioni di questo tipo nelle vetrine piene di luce con tanta gente che lavora e produce un po’ di meno degli standard a cui siamo abituati, anche se certe arie condizionate dovrebbero essere molto più condizionanti sul nostro rendimento anziché limitarsi a distruggere l’ambiente del pianeta. L’orario estivo può essere ridotto per convenzione aziendale o auto-ridotto perché semplicemente non ne abbiamo proprio più voglia e siamo in odore di vacanze. Oppure si allunga se lavorate nel turismo, per esempio se alle undici di sera siete ancora lì a far provare orecchini di artigianato locale alle sciure devastate dall’abbronzatura. Insomma, conveniamo tutti sul fatto che ci sono stagioni di serie A e stagioni di serie B dove non esiterei, se potessi decidere io per tutti, a concentrare tutte le pause che il sistema ci impone di mettere alla nostra vita. Perché avrete capito che ci sono tipi come me che se vanno in stand-by poi non si risvegliano più, come quei sistemi operativi che poi ti sfido a riprendere da dove eri rimasto senza agitare il mouse come un pazzo. Oggi inizia l’orario estivo che non è come quando cambia l’ora e non capisci se è mattina presto e hai già perso il treno perché è stranamente più chiaro, o alle quattro è già buio pesto e vorresti essere con i piedi nelle calze di lana sdraiato sul divano. L’orario estivo è una giustificazione arbitraria al fatto che siamo inadatti all’adattamento, abbiamo un clima continentale dentro di noi che cozza con il clima mediterraneo fuori, o almeno quello che ne rimane. Siamo quelli che con quattordici gradi a ottobre mettiamo guanti e piumone, e con quattordici gradi a marzo facciamo il primo bagno. Dentro di noi invece ci inventiamo queste temperature estreme, sottozero in inverno e quaranta all’ombra a ferragosto anche se è tutto relativo. A Milano è ventilato e si sta da dio proprio quando tutti scappano verso posti dal microclima insopportabile, in riviera ho assistito a giornate con una temperatura percepita siberiana alla faccia dei pensionati che aspettano la bella stagione sul mare. Oggi inizia l’orario estivo e inizia anche per me, anche se non so che farmene e, soprattutto, non ho niente da mettermi.

natale a casa bradford

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Se avete mai visto una di quelle puntate dei vostri telefilm preferiti dedicate al Natale ma le avete viste fuori stagione, sapete che cosa intendo. Telefilm e serie americane sono spesso trasmesse in Italia con una programmazione dettata solo da ragioni di palinsesto, in relazione a quando si rendono disponibili, quando c’è da tirare su audience, o per tappare dei buchi, mentre negli USA o dove vengono prodotte spesso seguono il ciclo della vita degli spettatori per un effetto che noi, che al massimo la sincronizzazione è quella di un posto al sole, non possiamo nemmeno immaginare.

Ricordo episodi di Friends, di ER, addirittura Happy Days, e sapete come gli americani ci danno dentro con certe smancerie da famiglie tv che poi dissacrano nei libri di Roth, Franzen e Moody. Il punto è che vederseli in qualche replica estiva, soprattutto prima quando era facile rimanere naufraghi della tv ancora analogica al caldo di luglio e la pelle delle gambe che si appiccicava al divano in pelle, causa quella specie di jet lag stagionale per cui non sai se aver caldo o freddo, se struggerti per i parenti distanti o alterarti per gli zii impiccioni ancora incollati alla tavola imbandita, se tutto deve ancora iniziare o sta per finire, se fuori è buio e ci sono le illuminazioni che si riflettono sull’asfalto bagnato o se le ragazze passano dirette al mare con le infradito e i pareo.

Ma queste débâcle della percezione si manifestano anche con la semplice fantasia. A me basta una luce rossa riflessa nel vetro di un finestrino per riportare alla memoria un set di casette del presepe in legno molto artigianali che aveva costruito mio nonno. Aveva incollato poi dei minuscoli ritagli di plastica trasparente rossa a copertura di porte e finestre. Le casette, in barba a qualunque legge prospettica, venivano posizionate ai confini di quel villaggio inventato, dove il muschio e la carta con cui si facevano le rocce e la terra lasciavano il posto al tavolino in teak, quasi a riportare alla realtà ogni parvenza di ultraterreno, un triste monito alla illusorietà di quella parentesi di spensieratezza e fasto. Dentro alle casette poi posizionavamo le lucine intermittenti, il cui effetto di calore ti faceva il pieno di scorte di speranza per quegli insulsi mesi a venire.

Tutto questo oggi ha invece  le sembianze di una sensazione di caldo solo a malapena giustificata dal contrasto con l’aria condizionata degli interni e dalle nuvole che si vedono fuori in alto, oltre il vetro dove prima ho visto la luce rossa riflessa, e che trasmettono un barlume di inverno, almeno fino a domattina, dicono che dovrebbe esserci il sole.

il senso della rotella per lo scrolling

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Non so dirvi che combinazione di tasti ho schiacciato, so che a un certo punto la rotella del mouse ha iniziato a far ruotare in senso opposto le pagine rispetto a quello che ritengo il naturale, ma solo perché ci sono abituato. Secondo natura, ruotandola verso di me ciò che è in primo piano nel monitor scorre dal basso verso l’alto. Contro natura avviene l’opposto. Poi d’incanto è cambiato tutto e non vi dico lo smarrimento. Mi girava la testa, così mi sono precipitato fuori. Era l’ora di pranzo in una via secondaria che presto diventerà una strada a elevata percorrenza perché ha aperto i battenti da qualche settimana una nuova Esselunga, ma non la conosce ancora nessuno. C’era il sole di questi giorni, e se vivete a Milano sapete cosa intendo. Un sole così con il vento e il cielo turchese bisogna tenerselo stretto. Un sole caldo che per la prima volta nella stagione a fatto salire l’odore dell’asfalto gettato da poco quando si arroventa, quella reazione comune d’estate e che quando te ne accorgi vuol dire che è fatta. Inizia il periodo in cui tutto si assopisce con la scusa dell’afa, delle ferie, degli shorts, della scuola che finisce mentre il lavoro continua come se niente fosse. Un insieme di cose che ti raddoppiano i battiti del cuore e che fanno venire voglia di conoscere posti nuovi dietro l’angolo che prima te ne guardavi bene dal girare. Ecco quindi la scoperta di scritte colorate su muri decrepiti, vegetazione impazzita, impiegati che come te giocano a fare i piccoli esploratori di un pianeta appena conquistato. Ci togliamo il casco da astronauta non appena abbiamo la certezza che l’atmosfera è la stessa, aria respirabile, incombenze immutate, c’è persino campo perché il telefono squilla proprio come sulla terra. Gli effetti del miracolo della rotella ribelle del mouse svaniscono al successivo riavvio del computer, l’asfalto si raffredda con l’ombra del pomeriggio e il suo profumo sublima in qualcosa che contribuisce al global warming o per lo meno subentra l’assuefazione, ma non temete. Questo è solo l’inizio.

l’ombrellone, nel senso del film

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Nessuno riconosce subito lo scrittore perché gli scrittori non si riconoscono di faccia, mica come i campioni del pallone e le star della tv che di sicuro, comunque, uno non bazzicano da queste parti battute per lo più dalle persone normali, due non sempre è possibile perché visti da vicino e seminudi, nel senso dei costumi da bagno, vi sfido a riconoscere tizio e caio. Anche chi sei abituato a vedere vestito in ufficio o al bar per il caffé prima di entrare al lavoro, con addosso uno di quei terribili slip da bagno o con un due pezzi fluorescente quanto le vene varicose all’inizio fai un po’ di fatica, a dimostrazione della diceria biblica che poi al giudizio universale siamo tutti senza indumenti e, di conseguenza, praticamente irriconoscibili. Figurati poi uno che già non se lo caga nessuno perché esponente di un’arte inferiore come la scrittura e, di conseguenza la lettura, che ai tempi dei quiz e talent show gode della stessa considerazione dell’opinione pubblica quanto, sul fronte dello studio comparato delle professioni, l’insegnante della scuola. Perché anche un Moccia o un Baricco li riconoscete solo perché fanno le comparsate dalle varie bignardi del caso, presentatrici che un giorno introducono i partecipanti alla casa del Grande Fratello e poi le ritrovi a spendersi per la politica spettacolo di Renzi. Ma quelli un po’ più minori, che magari nemmeno la casa editrice anch’essa minore e fuori dal duopolio gli ha messo la foto in quarta di copertina perché privi della piacioneria di un Veronesi o un De Carlo, quelli proprio non li distingui dal tizio che gioca a racchettoni con il figlio adolescente o quell’altro che si instagramma i piedi sullo sfondo del mare mattutino. Nessuno lo riconosce perché poi non è che ti presenti al prossimo con nome e cognome, in un contesto di vacanza l’etichetta da riunione di lavoro la lasci nel cassetto insieme ai biglietti da visita che poi se o l’una o gli altri ti finiscono in acqua come ci torni a casa. Il nome poi è comune ma la faccia che fa mentre vede una nei pressi con il suo potenziale best seller sotto l’ombrellone che è la moglie di quello con cui sta parlando di pesca sportiva per rompere il ghiaccio mentre i figli insieme si lanciano il frisbee, ecco questo può essere un indizio che ti fa riconoscere uno scrittore. Così lo scrittore fa una battuta sulla possibilità che il libro non possa piacere alla donna, e di fare attenzione alle critiche negative perché poi lui ci rimane male, ma è tale l’emozione di trasmettere qualcosa anche per interposto mezzo come la carta stampata che proprio uno non ci riesce, non è certo per vantarsi ma per dire grazie per il tempo che mi stai dedicando e per quegli spiccioli che pagata la casa editrice, la distribuzione, dire fare baciare lettera e testamento mi consentono di offrire al prossimo che legge i miei libri un caffé al chiosco. E alla fine lo scrittore aggiunge il suo cognome al gruppo incredulo di persone e sotto lo sbigottimento dei più che non si tratta di un caso di omonimia, proprio loro abituati a guadagnarsi il pane con un negozio, un’impresa, uno stipendio fisso, una tassa evasa. La lettrice propone di sancire il momento con un autografo sotto il titolo e lo scrittore si schernisce promettendo che poi lo farà. E la scena, quando me l’hanno raccontata, mi ha ricordato un vecchio film con Enrico Maria Salerno nel ruolo del professionista, Sandra Milo in quello della moglie in vacanza senza il marito e Lelio Luttazzi, un letterato romantico che seduce la Milo con la lettura di poesie. Mica perché poi lo scrittore che è lì con moglie e figli fa breccia nei cuori altrui. Ma solo perché in un contesto così di persone in ferie, e la vita dello scrittore è più o meno quella di uno sempre in ferie, il gap è ancora più evidente. Almeno, se ne conoscessi uno mi troverei molto in imbarazzo per lui.

nel giorno più felice dell’anno

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Ma se siamo persino disposti a pagare, e profumatamente, per una manciata di giorni in questo stato di libertà vigilata spesso con la condizionale in cui ci possiamo liberare finalmente di tutto. A partire dai vestiti, quelli veri, che lasciamo appesi nelle cabine armadio di città, puliti e stirati e pure con lo spray anti-tarme per la stagione successiva mentre ce ne stiamo liberi a girare per le nostre favole in mutande, come diceva quel tipo strano negli anni settanta, e vivere alla grande solo con un sottile strato di tessuto tecnico a elevata impermeabilità che ci separa dalle stelle e dalle cicale che ad alcuni fa senso pure l’idea di trovarsele nel giardino condominiale. Organizziamo con dovizia questo perentorio allontanamento dalla società fatta di fidelity card, di conference call, di centri di illusorio benessere e poi ribaltiamo tutta la nostra scala di valori pronti all’uso per farci camminare addosso dalle formiche, abbattere drasticamente persino il parametro regolamentare di livello standard di igiene intima sorvolando sulla sabbia residua che si attacca alle caviglie mentre realizziamo che c’è tutto un pianeta da scoprire che non conosce il significato del bidet, tanto per fare un esempio. E allora non è vero che siamo così avanzati se risparmiamo per investire in un regresso legalizzato alla barbarie delle convenzioni di vicinanza al prossimo, lo stesso che siamo disposti a raggirare sul turno a una pompa di benzina mentre poi, allo stato brado coperti solo da pareo di dubbia provenienza, siamo tutti un mi scusi qui e mi scusi là mi presta il martello e prenda questo residuo di detersivo che tanto oggi partiamo e ci spiace buttarlo. E non credo che sia rilassatezza ciò che ci spinge a canticchiare melodie che altrove ci indurrebbero a uno spietato zapping radiofonico, canzoni non di altri tempi ma di più, come la rumba delle noccioline – vi ho sorpreso, vero? Quanti di voi conoscono la rumba delle noccioline?- o una gaberiana come è viva la città che tradisce chi la fischietta lavando i piatti, che sotto sotto gli mancano gli agi del campionato sulla tv a pagamento, gli all-you-can-eat con il cibo spazzatura della peggiore cucina cinogiapponese o la sensazione delle scarpe bagnate dal temporale indossate per otto ore in ufficio con colleghi che per lo stesso motivo odorano di quella fragranza che sa un po’ di selvaggio. E anche se sempre più capita di assistere a veri e propri innesti della civiltà grazie a dispositivi elettronici a batteria che ti consentono di controllare le e-mail di lavoro anche in cima alle Dolomiti o giocare a Candy Crush in spiagge raggiungibili solo con fuoristrada – quelli veri, non certo quei cassoni da burino che lasciamo in doppia fila con le quattro frecce per ingollare noccioline zeppe di germi al bar sotto casa -, se è vero che non ci importa se il tetto massimo della nostra carta di credito a un certo punto he bisogno di una bella ristrutturazione perché è solo in vacanza che non ci interessa di separarci dal nostro denaro, ecco che ci chiediamo straniati e ce lo chiediamo perché non è una domanda retorica, è un mistero a cui nessuno è mai riuscito a dare una risposta razionale e dimostrabile, ci guardiamo tra di noi e ci chiediamo perché cazzo non si possa sempre vivere così, seminudi all’aperto e al caldo, a tirare sera come se non ci fosse un domani.

bollino rosso trionferà

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Una parte di me mi ha risparmiato le celebrazioni per il ventennale della laurea facendola scivolare giù nei bassifondi del palinsesto di luglio dopo i soliti temi della stagione come un vero tg mediaset, decisamente secondaria a mangiare frutta e verdura, non uscire nelle ore calde, new entry nelle dinastie regali britanniche, papi in tour e ministri sulla cresta dell’onda loro malgrado. Talmente secondaria che mi è venuta in mente solo la notte scorsa mentre contavo le frequenze del suono dell’antifurto dell’appartamento qui di fronte. Circa 120 per ogni segnale, poi una ventina di secondi di pausa, quindi altra sirena con 120 onde sinusoidali e avanti così per più di un’ora. Ho provato persino a chiamare le  forze dell’ordine – era l’una di notte – per capire se stessero facendo qualcosa almeno per bloccare gli autori del probabile furto ma non mi hanno risposto e l’allarme è continuato per un paio d’ore abbondanti. Mi sono chiesto se ci è lecito sporgere denuncia o qualunque tipo di rimostranza per chi si dota di quel tipo di antifurto, lo attiva e poi se ne va in vacanza lasciando il proprio appartamento e gli averi ivi contenuti nelle mani di qualche vicino volenteroso. L’unica conseguenza è stata svegliare buona parte del quartiere, almeno quelli che non sono ancora partiti.

Perché poi il bello è proprio che in giro non si vede nessuno, sembra di vivere in città fantasma così prive di rumori che non le riconosci più, a parte la vicina di sotto che pulisce le veneziane alle otto del mattino facendole sbattere ritmicamente contro la ringhiera del balcone. Molto rari gli esseri umani, soprattutto nel week-end, qualche concentrato di aria condizionata semovente per strada lanciato verso remote località di villeggiatura e qualche animale fuori luogo. Uscendo di casa mi ha attraversato la strada una biscia piuttosto spaventata credo dall’habitat poco confortevole che ho subito scambiato per vipera e se quel titolo di studio di cui sopra fosse seguito a un corso di esami utili e seri, probabilmente saprei riconoscere un normale rettile d’acqua da un serpente velenoso ma lo sapete meglio di me che la natura in contesto urbano ha dell’osceno e del catastrofico, un po’ come gli squali volanti dei più recenti film americani ed è molto facile pensare subito al peggio.

Comunque in questi giorni ricorre un altro anniversario, oltre quello della mia laurea in scienze inutili. Alcuni aneddoti dal mio futuro compie tre anni forse oggi o forse ieri, non so. Ma non ho ricevuto nessun telegramma, per fortuna e questa era una celebre citazione, vediamo chi di voi la indovina per primo nei commenti vince una dedica speciale sul prossimo post. Questa cosa mi fa venire in mente quando alle superiori ho imparato la parola “genetliaco”. Spesso si arriva dalle medie con dei vistosi equivoci linguistici. Un’amica per esempio diceva e scriveva “giurispondenza” al posto di “giurisprudenza”. Un altro si era coperto di ridicolo in uno scritto di religione perché pensava che “mistificare” significasse “rendere mistico”.

Pensavo di essere immune da questi qui pro quo fino a quando una compagna di classe mi scrisse sul mio diario, in corrispondenza della sua data di nascita, “oggi è il mio genetliaco” con tanto di firma e cuoricini illusori. Ma se vi ricordate come erano le grafie delle ragazze una volta, prima che l’informatica prendesse il sopravvento come principale veicolo della nostra trasmissione del sapere, saprete meglio di me come fosse facile malinterpretarne il significato. Io in quella parola ostica leggevo “gervetileo” che, come m’insegnate, non vuol dire un cazzo. E ho perseverato nell’ignoranza per molto tempo, non che pensassi solo a quello, ma ero così presuntuoso da non volermi arrendere a una richiesta di spiegazioni fino a quando ho aperto un dizionario alla lettera “g” e ho finalmente scoperto la verità. Comunque, dicevo, tre anni sono tanti e speriamo di continuare perché, come si dice, meglio avere un futuro ricco di aneddoti che avere un passato in cui è facile fare confusione.

primo: indossare un abbigliamento leggero e comodo

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Dovreste tutti considerare il fatto che è estate e la società, l’economia e l’universo intero sono molto più indulgenti con voi, gente stropicciata che indossate indumenti di tessuto che si stropiccia a monte e verso il quale per una convenzione che non ho mai capito il prossimo non applica lo stesso criterio di giudizio che – tanto per fare un esempio – adotta per la mia camicia che ho oggi, che non nasce per essere portata stropicciata ma lo è perché l’ho riposta male l’ultima volta in cui l’ho messa nell’armadio e in più porto la borsa a tracolla da hipster che lascia tutte le pieghe sulla spalla sinistra, senza contare la cintura di sicurezza dell’auto e la parte di tessuto sulla schiena che per fortuna rimane dietro, a furia di appoggiarmi sui sedili del passante ferroviario chissà come è conciata ma sapete come è quel detto, occhio non vede cuore non duole. Tutti in lino perché mica si stira il lino, tutti extralarge, tutti belli freschi e spiegazzati nemmeno foste al campeggio e aveste usato uno zaino da trekking per riporre il completo da ufficio ma che diamine, un po’ di decoro. E non per questo vi dovreste comunque sentire autorizzati a dare di meno, sebbene gli errori da esposizione ai raggi solari o da repentina escursione termica da passaggio tra ambienti outdoor-indoor siano ammessi, a patto che siate refrattari all’aria condizionata tanto che, indipendentemente dalla temperatura, teniate la giacca scura anche in ufficio noncuranti della forfora sulle spalline imbottite o, in caso contrario, per nulla imbarazzati dalla stempiatura sufficientemente madida da riflettere le luci al neon della sala riunione gremita di targhe e onorificenze dei tempi d’oro dell’economia digitale italiana. Io mi tengo i miei jeans blu anche con quaranta gradi, voi fate come volete. Al massimo, se ci incontriamo, potete anche scegliere di non starmi vicino tanto non me ne accorgerei.

solstizio blues

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Non è che non mi piacciano le vacanze, è che mi piacerebbe esserci adesso e il fatto di essere ancora qui me le rende invise. Vorrei essere in ferie ora, con le giornate lunghe lunghe, tre stagioni da scrollarsi di dosso, poca ressa intorno, caldo tutto sommato accettabile, acqua del mare poco calda e poco frequentata. Perché poi ti ritrovi a scollinare in serate come questa e pensi che quella che tutti chiamano la bella stagione mica la vivi così. È solo una parentesi in cui passi dalla calura fuori all’aria condizionata agghiacciante degli interni, tanto che uno si chiede come sarà il genere umano tra qualche secolo abituato a vivere solo in ambienti confortevoli. I vampiri muoiono se vedono la luce, noi ci estingueremo se non avremo una temperatura accettabile intorno. Un intervallo tra il primo e secondo tempo, tra vedere ragazze con lo scialle al chiuso perché boh, probabilmente a vent’anni soffrono di cervicale e poi biotte all’esterno, passate dai leggins agli shorts inguinali senza passare dal via. Non esistono più le mezze stagioni ma nemmeno le mezze misure del pudore. Quindi da domani prepariamoci, scatta l’inesorabile discesa verso le giornate corte quando noi eroi del terziario avanzato dobbiamo ancora ambientarci al nuovo passo della estate che, guarda un po’, sta suonando pure alla mia porta ma non ci sono, sono in ufficio, non c’è nessuno che possa aprire.

ma lasciamo la parola ai lettori

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Visto che magari non passate spesso da lì, sappiate che Claudia è tornata a manifestarsi su queste pagine. Per i nuovi lettori, Claudia è una perspicace commentatrice alla quale, come premio della costanza con cui ha condiviso le sue riflessioni in una pagina anziché in calce ai post di questo blog a cui voleva probabilmente riferirsi, è stata dedicata un’intera sezione, quella lì appunto, che però a molti – me compreso – risulta un po’ in ombra. Così, con il suo permesso che non le ho nemmeno chiesto, inoltro qui sotto il nuovo spunto. E se vi va, in massa come sapete fare solo voi,  potete rispondere e cimentarvi per la gioia delle statistiche di accesso a questo sito.

Dice Claudia:

dunque, in questa estate ho (nell’ordine sparso che i neuroni mi consentono):
– sorvolato un oceano,
– scalato grattacieli (ma con ausilio di ascensori),
– toccato aceri,
– pedalato attorno ad un lago (dopo 18 anni che non toccavo un manubrio e non per vezzo d’equilibrismo),
– visti acrobati e musicisti,
– ballato ad un matrimonio in puglia,
– tornata a lavoro, poi andata, poi tornata e ripartita di nuovo.
Ora sono qui e aspetto i racconti delle vostre vacanze.
no?