posizioni aperte

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Mentre scorro la lista delle inserzioni di lavoro ho la terribile sensazione che, con le competenze linguistiche richieste dai più, uno dovrebbe svolgere la propria professione dall’alto, in quota, a bordo di un aeroplano per esempio. Attraverso la curvatura terrestre e della sua atmosfera è possibile infatti ottenere l’equidistanza tra più punti, sfruttando peraltro l’approssimativa considerazione in cui nell’economia globale viene tenuto il luogo dove un prodotto o una parte di esso viene realizzato. Il cosiddetto lavoro di concetto, per non usare l’odioso termine intellettuale o, peggio, creativo, rientra tutto sommato in questi stessi parametri. Ritrovarsi sospesi in cielo a cavallo tra spazi internazionali e nell’aria di nessuno, la cui pertinenza è aleatoria per antomasia, chi può dire o stabilire quale sia la lingua ufficiale e i comportamenti in uso? A svariati chilometri di altezza uno si immagina ricoprire posizioni nodali, giacché l’impiego del termine apicale sarebbe oltremodo didascalico in questo contesto, a fare capo a una invisibile quanto immaginaria rete abilitata alla trasmissione di informazioni in un idioma convenzionalmente neutrale. Un quadro in cui la popolare immagine del rimboccarsi le maniche ed esercitare la propria forza fisica mista a precisione qui non ha più nessuna importanza, nel nostro essere vettori di disposizioni impartite chissà dove. Non ci è nemmeno chiesto né di tradurle né di aggiungervi valore. In teoria, se abbiamo la fortuna di gravitare in una classe superiore a quella economica, possiamo anche permetterci un drink e confidare nel fatto che quassù andrà tutto bene anche se, probabilmente, non atterreremo mai più ed è una fortuna, non riconosceremmo infatti il posto da cui siamo partiti.