manuale d'uso per le cose che prima o poi si ripropongono

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Con il proprietario della villetta che vedo dal balcone di casa mia non ci salutiamo nemmeno pur vivendo a una manciata di metri di distanza, un comportamento abbastanza comune per noi che abbiamo la residenza nei paesi dormitorio della periferia milanese. Anzi, lo vedo solo dall’alto del mio appartamento mentre si prende cura in modo ossessivo del suo giardino, sapete come diventiamo noi maschi a una certa età. Non saprei quindi che volto dargli, come quando sei abituato a osservare qualcosa da un punto di vista abituale e poi, cambiando prospettiva, non lo riconosci più. Chissà quante volte ci siamo incontrati qui sotto per strada, o dal panettiere, anzi, più facilmente dal Mantegazza che è il ferramenta del paese che non teme nemmeno la concorrenza del Leroy Merlin, senza nemmeno saperlo. Meglio così, l’ignoranza ancora una volta mi ha tolto da un impiccio. Una volta mi ero lamentato con lui perché si era messo a tagliare l’erba di sabato mattina. Mia figlia era appena nata e probabilmente si era appena addormentata, così gli ho fatto notare – urlandogli dal mio balcone – che poteva essere una buona idea approfittare dei giorni feriali della settimana per dedicarsi alla cura del verde se non si ha un cazzo da fare, quando il quartiere è deserto e la gente è al lavoro in centro e non si rischia di disturbare nessuno.

Forse però con il mio comportamento l’ho offeso, facendogli pesare il fatto che lui è anziano e io – almeno ai tempi – no. Certo, se avessi fatto come Lucio che una volta a un tizio gli aveva detto in faccia “vecchio di merda” sarebbe sicuramente stato più grave. Comunque, in tutti questi anni – ne sono passati ormai tredici – mi sono chiesto più volte se non fosse il caso di suonare il campanello della sua villetta e chiarire l’accaduto, anche se magari non se ne ricorda nemmeno più. Un gesto che farei volentieri anche perché gli invidio tantissimo i ragazzini che fanno baccano nel suo giardino la domenica, quando consumano il pranzo tutti insieme, in quella casa, con figli e nipoti. Vedo spesso tre bambini e una ragazzina un po’ più grande che si inventano vari giochi in giardino per rompere la monotonia conviviale, sapete che scocciatura stare a tavola a quell’età con gli adulti che discutono di politica e di immigrati. In giardino ci sono degli alberelli e qualche vecchio strumento di lavoro, un pallone e altre cose. Sono scene che mi ricordano le occasioni in cui trascorrevo analoghe ricorrenze con i miei cugini, nella casa di campagna dei miei nonni materni, mentre i nostri genitori sorseggiavano il caffè chiacchierando in dialetto. Ce la spassavamo con giochi pericolosissimi, a ripensarli da qui. Funi sui rami usate come liane, botte, rincorse su e giù per i pendii. Ci lanciavamo le bocce – quelle di ferro – e in un paio di occasioni abbiamo anche combinato qualche danno, me lo ricordo come fosse ieri. Poi siamo cresciuti, sfortunatamente, e tra di noi ci siamo persi di vista. Uno di quei cugini è addirittura morto, un altro lavora sulle navi ed è sempre in giro per il mondo, ha già quattro figli avuti da tre mogli differenti, e io sono qui, a scrivere anche di loro.

i grandi classici del sabato

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Al sabato nessuno ha ancora pensato a erigere un monumento, a dedicargli piazze e strade, a chiamare figli o bestie come lui, a beatificarlo o a santificarlo con tutti i crismi. È una storia vecchia almeno quanto l’economia a base fordista o comunque da quando gente con le palle – altro che noi mollaccioni da petizioni su change.org – si faceva bastonare nei cortei per strappare almeno un giorno in più alla settimana lavorativa.

Ce ne accorgiamo soprattutto il lunedì mattina quando realizziamo mortificati che di tutte le cose che ci eravamo ripromessi fare il sabato precedente non ne abbiamo portata a termine nemmeno mezza. La to-do-list frutto di febbrili venerdì sera, trascorsi a programmare e pianificare a cena o al telefono per ottenere il massimo da quella manciata di ore che il lavoro di merda che facciamo ci lascia come contentino, si trasforma in pastone nel caffelatte insieme ai nostri biscotti preferiti.

Da lì è tutto un susseguirsi di rimandi e di cose che prendono il sopravvento tanto che è un attimo ritrovarsi annegati con la faccia sommersa dalla domenicosità, tema che tra l’altro abbiamo ampiamente dibattuto. Ci sono però dei classici del sabato, che io chiamo i grandi classici del sabato, cose che facciamo a gara nel documentare e condividere, e considerata la nutrita mole di contributi che si leggono in giro, non ci resta che ammettere che siamo tutti uguali, noi umani, e che sarebbe l’ora che la smettessimo di sognare ad occhi aperti un sabato di novantasei ore che nessuno includerà mai nei propri programmi elettorali.

Alcuni classici del sabato sono intanto la corsa mattutina, che mai nei giorni feriali ci sogneremmo di svegliarci così presto per reiterare un appuntamento fisso con la salute. Ci sono le camicie da stirare per affrontare il resto della settimana il più azzimati possibile, attività che in alcune occasioni porta via almeno tre quarti della giornata. C’è la somministrazione in eccesso di alcolici a pranzo, cosa che in un giorno qualsiasi ci è vietata dal rigoroso codice comportamentale in ambiente di lavoro, anche se è vero che poi un bicchiere di birra non è la fine del mondo ma possiamo ammettere che la leggera ebbrezza alla luce del sole dà un effetto piuttosto piacevole.

C’è l’abbiocco come conseguenza di tutto questo, stare sdraiati con la tv accesa su qualsiasi cosa di soporifero con i gatti sulla pancia a tenerci caldo in questa promiscuità di esseri viventi di diverse specie animali, nella gioiosa solidarietà del riposo che fa bene a tutti indipendentemente dal proprio posizionamento nella catena alimentare.

Ma c’è l’Ikea di Corsico, un comportamento limite e da tenere con moderazione e non sempre condiviso tra i partner. Conosco mariti che non svegliano le mogli la mattina perché la sera prima avevano paventato l’idea di un giro esplorativo in tempi di saldi con pranzo svedese annesso. Le polpette che chissà cosa c’è dentro, la birra scura e quei dolci dai colori assurdi.

L’ultimo classico dei grandi classici, il meno piacevole, e se ne soffrite anche voi vi prego di darmi una dritta sui rimedi utili, è la classica emicrania da sabato. Anche se non si prende freddo andando a correre, anche se non si stappa la Peroni da 66 a pranzo, anche se non ci si abbandona alla pennichella, ecco che a un certo punto del giorno fa capolino la cefalea che rovina tutto e si porta via tutti quei programmi che avevamo pianificato la sera prima. D’altronde, giorno di festa fa da sempre rima con mal di testa, e questa è una vera chiusura di merda, ma tenete conto che è lunedì.

a parlare sono capaci tutti

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L’idea di mescolare tv e radio insieme che hanno avuto alcune emittenti approdate sul digitale terrestre confonde un po’ le cose, impone a chi ci lavora di osservare un dress code più studiato considerando che ti vedono in tutto il mondo ma, ed è qui che la trovata fa la differenza, ti fa capire che gli speaker esistono realmente e fanno il loro show in diretta. E, soprattutto, si vede come lo fanno. Indipendentemente dal fatto che troviate interessanti o meno le cose che dicono, io sono del partito degli “o meno”, ho scoperto che gli speaker radiofonici stanno in piedi e si muovono come i presentatori in tv. La differenza è che non guardano le telecamere ma tengono gli occhi su un monitor o su degli appunti che hanno davanti. D’altronde pensateci un attimo: quando ascoltiamo la musica su che cosa si soffermano i nostri occhi? Io non osservo nulla, è come quando sei a pranzo da solo o quando rifletti su qualcosa e lo sguardo ti si perde nel vuoto tanto che, a chi ti sta vicino, gli viene da agitarti il palmo delle mani davanti per vedere se ci sei ancora o sei altrove.

Certo, rimane il dubbio se prima dell’avvento di questo format multi-canale gli speaker radiofonici stessero stravaccati su un divanetto e la produzione gli ha imposto di mettersi in piedi per non dare l’idea al pubblico e agli sponsor pubblicitari che il lavoro che svolgono è uno di quelli che quando lo dici in giro la gente ti chiede “ok, ma che lavoro fai veramente?”. Un po’ come l’idea che gli anchorman dei telegiornali stiano seduti alla loro postazione in giacca e cravatta ma sotto sono in mutande o, per fare un esempio più vicino a noi comuni mortali, quando fate una video-conferenza da casa e la webcam è puntata sull’unica parete presentabile del vostro studio mentre tutto quello che non si vede è sommerso da cumuli di roba da stirare e pile di stoviglie sporche, e voi avete l’unica camicia pulita ma dalla vita in giù indossate ancora il pigiama e le ciabatte.

A me la cosa che colpisce di più però è come parlano bene, che non si mangiano le parole come me e come la totalità delle persone che conosco, e che però, lasciando perdere i contenuti che è fuffa allo stato puro, hanno una lingua che se ce l’avessi io qui in ufficio colleghi e clienti mi rispetterebbero molto di più. Sarà una questione di esercizio? Io passo il tempo a scrivere stando zitto, non mi esercito e quando sono tenuto a spiegare qualcosa ho sempre tutto in testa ma non riesco a dirlo. Poi la domenica amo fare cose come girellare in bici nella periferia a scovare spunti sufficientemente deprimenti per scrivere post e fare foto ma non mi piace raccontarlo a nessuno. Vedo materassi abbandonati all’ingresso dei cancelli di fabbriche che hanno chiuso da anni, stranieri sgomenti che l’occidente sia davvero così mentre aspettano il tram sotto pensiline arrugginite e tutte pasticciate, tralicci dell’energia elettrica alti come grattacieli che campeggiano su campi incolti a ridosso di quartieri in costruzione e con insegne di discount sullo sfondo al tramonto, avventori di bar a gestione cinese così anziani che quando chiedono notizie sui loro amici che vivono in fondo alla strada e che non si vedono più da mesi sono pronti a qualunque tipo di aggiornamento, anche quello che può chiudere ogni conversazione definitivamente.

sundayness, o domenicosità, ovvero spiegare cos’è la domenica negli altri giorni della settimana

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M. sfonda porte aperte. Poco fa, a cena, in una sera che è la domenica sera, mi ha proposto e abbiamo a lungo discusso di quella sensazione, o come diamine si può chiamare altrimenti, che è la domenica. Ed è incredibile come possa essere un qualcosa di universalmente riconosciuto, almeno qui nell’occidente opulento. La domenica è tutto sommato un argomento oscuro, di cui si cerca di capirne il senso vivendola, ogni maledetta domenica, senza mai arrivare al punto. Senza mai riuscire a spiegare che cos’è quella specie di indescrivibile malessere che si prova la domenica. Continua a leggere. (da Alcuni aneddoti dal mio futuro del 31/01/2011)

Disclaimer: in estate chiunque si barrica dietro un autoreply di chiuso per ferie e mette in sua vece un ologramma giusto per tenergli caldo il suo centimetro quadrato di spazio on line per il ritorno. Sapete, di questi tempi meglio non lesinare in sicurezza, i posti si fanno presto a perdere e mettere un surrogato di sé stessi può essere una strategia vincente. Così noi che apparteniamo a una sottospecie di categoria di esodati ma solo perché abbiamo preso parte come milioni di altri alle partenze molto poco intelligenti, ma allo stesso tempo non vogliamo che vi dimentichiate di noi, abbiamo pensato di pubblicare in questo periodo di vacanza qualcosa di già edito, nostro o altrui, o qualche pezzo a cui siamo particolarmente affezionati. Ciò non toglie che l’ispirazione, dai mari della Sardegna, faccia capolino di tanto in tanto.

sunday morning (praise the dawning)

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Non vorrei passare per presuntuoso nel citare me stesso, ma anche oggi, in quanto domenica, non sembra esserci via di scampo. <ironic mode on>E il programma sembra essere dei migliori<ironic mode off>: festa del paese, temperatura sotto i 6 gradi, un bel controsoffitto grigio tangenziale a ripararci dal cielo (chissà di che colore è).  Ma stemperato in una settimana che (sembra) sarà composta da più domeniche, non per la festività quanto per il mood, meglio iniziare con il piede giusto.

sundayness, o domenicosità, ovvero spiegare cos’è la domenica negli altri giorni della settimana

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M. sfonda porte aperte. Poco fa, a cena, in una sera che è la domenica sera, mi ha proposto e abbiamo a lungo discusso di quella sensazione, o come diamine si può chiamare altrimenti, che è la domenica. Ed è incredibile come possa essere un qualcosa di universalmente riconosciuto, almeno qui nell’occidente opulento. La domenica è tutto sommato un argomento oscuro, di cui si cerca di capirne il senso vivendola, ogni maledetta domenica, senza mai arrivare al punto. Senza mai riuscire a spiegare che cos’è quella specie di indescrivibile malessere che si prova la domenica.

Ci si rende sempre conto che è domenica, la domenica. La controprova è pensare che è domenica quando il lunedì successivo non si lavora o non si va a scuola, durante le vacanze, per esempio. Non è l’essere a ridosso di un giorno feriale che fa la differenza. La domenica non potrebbe essere un altro giorno. Da questo punto di vista, potrebbe trattarsi davvero di un giorno da santificare. Un giorno con una marcia in più, con una brillantezza artificiale, come una sorta di video postprodotto in cui si dà una colorazione diversa se c’è il sole, o si accentuano le tonalità di grigio quando è nuvoloso. Il freddo è un freddo da domenica, e in estate si suda diversamente. Le città sono così vuote solo di domenica, anche rispetto a feste in cui in giro si incontra meno gente. Perché si tratta di un vuoto diverso.

A quel punto a tavola è scattata la gara di esemplificazione delle situazioni tipiche da domenica, che cerco di riassumere qui, ma a cui spero aggiungerete qualcosa voi. Vista l’età anagrafica dei conviviali, i contributi partono da almeno 35 anni fa con Buona domenica, di Antonello Venditti. Un pezzo sull’angoscia del settimo giorno da ascoltare anche la domenica pomeriggio, in inverno, mentre fuori piove, i tuoi genitori bevono il tè con le tue vecchie zie e tu non puoi o non vuoi uscire perché non ti sei organizzato e non esistono ancora gli sms. La scena infatti è in bianco e nero (è il 1979), M. sente la sorella grande ascoltare la cassetta di Venditti con ostinazione, senza capire il perché. Il link più immediato è l’ubriacatura da maratona televisiva pomeridiana con cose tipo Domenica In, se non altro per vedere a Discoring le popstar del momento. Siamo ancora in pieni anni ’70. Non è difficile, quindi, immaginare di chiudere il cerchio proprio con Antonello Venditti che canta Buona domenica in playback proprio in quella trasmissione, ricordo che abbiamo subito rintracciato e reso tangibile su youtube.

Con F. invece facciamo un salto in avanti di qualche anno, tipo il 1984. La sensazione della domenica pomeriggio è l’annoiarsi a vuoto in un bar di periferia, le Honda XL dei più grandi della compagnia parcheggiate fuori disordinatamente, dentro il chiacchiericcio sconnesso sopra la telecronaca delle partite. Pochi consumano ma si trascorre lì tanto, troppo tempo e si fumano sigarette ininterrottamente. Habituè che giocano a boccette, whisky e amari di sottomarca. Colonna sonora: qualsiasi pezzo di Vasco Rossi (seguono tutta una serie di cliché e atmosfere tondelliane). Si finirà in discoteca? O al cinema?

Il cinema però è un ricordo collettivo più da grandi, anche perché costoso se ripetuto 4 o 5 volte al mese. La sensazione tirata in ballo però è senza tempo: l’entrare nella sala con la luce del giorno, passando alla luce artificiale che si spegne lasciando il posto alla proiezione. Il tempo e la domenica stessa si sospendono per 90 minuti circa, e si ritorna nel mood dopo i titoli di coda, mentre il cinema ti vomita fuori nel tardo pomeriggio, già buio, mentre magari ha iniziato anche a piovere. Non poteva andare peggio.

C’è chi come A. che aggiunge a questo quadro un particolare ancora più deprimente: la città che ospitava la caserma di C.A.R. – erano i tempi della leva obbligatoria – e che, la domenica pomeriggio, si riempiva di ragazzi con i capelli corti e dagli accenti più improbabili a spasso sotto i portici, a caccia continua di genere femminile, per poi finire la giornata ai tavoli delle numerose pizzerie del centro.

Chiudo con la nomination per la miglior titletrack della domenicosità (o sundayness), la musica votata all’unanimità come quella che più di ogni altra sanciva la fine del tanto agognato obiettivo a medio termine di ogni studente. Questo almeno fino a quando è stata trasmessa in tv. Dopo questa sigla di chiusura, il sipario sulla domenica scendeva irrimediabilmente, per lasciare il posto al lunedì. Si poteva posticipare ancora per qualche manciata di minuti la fine della festa, ma non si sarebbe fatto altro che togliere tempo prezioso al sonno e vendicarsi su il proprio se stesso alle prese con il giorno dopo e dato in pasto alla sveglia del lunedì mattina. E se i compiti non erano terminati, a quel punto, con quella sigla di chiusura, non ci sarebbe stata più alcuna possibilità di rimediare. Tutto troppo tardi. Signore e signori, buonanotte.