Sono nato e cresciuto tra le cose, figlio di un magazzino e di un archivio male organizzato, segnato da una pesante forma di disturbo da accumulo, o disposofobia prolungata. E temevo di non aver speranza, il mio nemico più acerrimo è dentro di me e ha tutta l’aria di essere una sorta di tara genetica compulsiva. Ma mia moglie è stata la mia salvezza, ogni anno mi viene in soccorso e fa un lavoro di convincimento nell’affrontare coraggiosamente l’ultimo stadio. Perché nel frattempo le cose sono passate dall’effettivo proprietario alla sostituzione temporanea, quindi al dimenticatoio in un cassetto o sullo scaffale, dopodiché nello sgabuzzino. Poi il primo grande salto, dallo sgabuzzino, che è comunque casa, ai ripostigli esterni, ovvero cantina o – peggio – garage. Da lì partono per l’ultimo viaggio verso la discarica, e mi viene sempre il paragone dei viaggi finali da Garage Olimpo ai voli della morte dei desaparecido argentini che ho visto nel film. Eh lo so, la metto sempre sul tragico.
Il disturbo da accumulo, che nel ramo genealogico precedente al mio ha raggiunto livelli maniacali e del quale tralascio i particolari, o almeno vi dedicherò uno scritto ad hoc, in me ha raggiunto il suo apice solo recentemente, in una forma che potrei definire collezionismo digitale da cui sono stato salvato in extremis solo dalla dematerializzazione sempre più pervasiva (ne ho già scritto altrove), tanto che in un paio di hard disk da 2 tera riesco a concentrare tutto ciò che mi interessa. So già che il cloud potrebbe essere la salvezza definitiva. Ma, spostandoci in ambito oggettistica, ho ancora qualche problema con tutto ciò che è appartenuto a mia figlia e che ha caratterizzato le fasi della sua crescita fino ad oggi. Ma la terapia non deve conoscere ostacoli, la forza di volontà è la medicina più efficace.
L’ultimo viaggio nel paradiso delle cose che non servono più oggi ha avuto come passeggeri veri e propri pezzi di cuore, ma ho imparato che è la strada giusta se non si vuole invecchiare soffocati dalle cianfrusaglie (ho corretto un refuso, prima avevo scritto cinafrusaglie, il che è curioso). Ho dato addio a una giostrina di pesci rotanti intorno a una rana sorridente, abbiamo una foto di nostra figlia a un mese e mezzo che segue il circo ittico interessatissima. Uno zaino rosa tutto macchiato di pennarelli con la cerniera rotta (indovinate la nazione di provenienza) che si prestava a essere riempito di passatempi per le gite del sabato pomeriggio, libri e animali di plastica. Un set di formine da spiaggia, quante storie ci siamo inventati con quella banda di personaggi immaginari: granchio, stella, marinaretto, pesciolino e conchiglia, nelle prime vacanze al mare insieme.
E mentre siamo lì nel box, con la coscienza che insiste sull’essere razionali contro l’accumulo bulimico, io che cerco di inventarmi scuse per salvare questo o quello, alla fine riusciamo a trovare un compromesso su due o tre cose, che vanno a riempire un sacco di ricordi che magari, chissà, prima o poi butteremo via tutto insieme. Lì dentro ci sono già un paio di scarpine e qualche vestitino, a volte riusciamo a essere meno severi. E ora vi trova posto anche un gioco che ricordo come fosse ieri, un finto cartone portauova in plastica, abitato da sei ovetti ognuno con un’espressione diversa. Ho avuto una vero e proprio scatto di orgoglio quando l’ho visto e sono riuscito a chiedere clemenza. Per il resto, mi accontento delle foto digitali, lì ricordi ce ne sono già a quintali, altrimenti, ci diciamo, non avrebbe senso tenere pure quelle. Così tante.