Io sono uno di quelli che con la musica accesa non riesce a fare niente altro. Per dirla in un italiano meno approssimativo, ho seri problemi di attenzione, qualunque attività stia svolgendo, quando in sottofondo ascolto musica. Un po’ perché ascoltare musica è un’esperienza che mi assorbe in modo sinestesico (wow): ascolto il pezzo nel suo insieme, sviscero le singole tracce degli strumenti, me le canto, me le ballo, approccio improbabili armonizzazioni e cerco di afferrare il testo. Un po’ perché, sfortunatamente, appartengo al genere maschile, e non sono stato provvisto di quella vantaggiosa funzionalità denominata multitasking, ovvero fare più cose contemporaneamente. A stento provo la combinazione alt+tab, ma la mia attenzione resta sempre lì, ferma sul programma in quel momento in esecuzione. Così non mi era possibile studiare con i Police perché c’erano i soli sghimbesci di Summers da tenere a bada. E ancora oggi, quando in autostrada mi avvicino al casello, le azioni in sequenza che devo eseguire sono: spegnere l’autoradio, scalare le marce fino alla prima, abbassare il finestrino, ritirare il biglietto (o pagare), alzare il finestrino, accelerare fino alla quinta, riaccendere l’autoradio.
Ma il genere umano è in continua evoluzione. Presto la scrittura a mano cadrà in disuso, non ci importerà di accumulare informazioni perché avremo perennemente un dispositivo connesso in una banca dati sempre online, il potere ovunque sarà detenuto da una oligarchia di tecnici ICT. Nel mio piccolo, ho già compiuto un piccolo passo in avanti per scongiurare l’estinzione della mia specie. Ho imparato a leggere un romanzo ascoltando musica in cuffia, seguire cioè una trama senza necessariamente mettermi a mio agio nelle geometriche strutture standard intro – strofa – ritornello – strofa – ritornello – cambio – assolo – ritornello – ritornello (un tono sopra) – finale del pop ma anche nei tempi dispari della musica più colta. Si tratta di una evoluzione dettata da spirito di sopravvivenza nei miei viaggi da pendolare verso l’ufficio (tema più volte sviscerato da queste parti). E non mi riferisco solamente all’autodifesa da discussioni avvincenti come quella che ho subito ieri, 20 minuti abbondanti di teoria e tecnica del french manicure captata a causa del mio ipod scarico. Nemmeno alle univoche conversazioni uomo-cellulare, per esempio quell’altra di qualche giorno fa, un avvocato al telefono con il suo cliente in barba ad ogni accorgimento sulla privacy (devo ricordarmi di girare armato di registratore, mannaggia).
C’è un pericolo ancora più subdolo: le cuffiette di scarsa qualità (la maggior parte) con cui il viaggiatore abituale – e non – bombarda il proprio apparato uditivo con flussi sonori provenienti da dispositivi di audiodiffusione vari: dal telefono al classico lettore mp3 alle console portatili. Il problema è insito proprio nelle sottomarche più diffuse. Si tratta di auricolari non isolanti e tanto meno isolati che lasciano filtrare un fastidioso ronzio facilmente percepibile nel raggio di qualche metro. E se sei sprovvisto di analoghi dispositivi, sei costretto ad ascoltare la musica del vicino di posto.
Ora, converrete con me che in 9 casi su 10, quando qualcuno ascolta musica percepibile da altri, per esempio le auto con la radio a palla, o quelli che fanno le pulizie il sabato mattina con le finestre aperte, in questi 9 casi su 10 la musica è piuttosto di m***a. E i ronzii delle cuffie altrui non sono da meno. Per uno come me è pure fastidioso non riuscire a capire di che pezzo si tratti, se quello che emerge in qualche modo suona familiare.
E di nuovo a proposito di evoluzione, non mi era mai capitato un dirimpettaio sul treno come il ragazzo che, poche ore fa, ha rovinato ancora una volta i miei 30 minuti di lettura con il suo iphone. Appena seduto, inforcate le cuffie, pollici in assetto da combattimento sul display touch screen, ha iniziato a giocherellare con una app che simulava la console, piatti e mixer, da dee-jay. Ora, la gravità del pericolo di dare powerpoint in mano a un ingegnere è seconda solo a dotare di un qualsiasi strumento musicale o pseudo-tale a chi non ha il senso del ritmo. E pensare che mettere in fila 2 pezzi sullo stesso un-tz un-tz con un software che ti stretcha automaticamente allo stesso bpm i brani che vuoi suonare in sequenza non è particolarmente difficile. Non riuscendoci, il nostro turntablist delle Nord continuava a scratchare alla c***o di cane emettendo una serie di rumori fuori luogo e, soprattutto, ed è la cosa che mi distraeva di più, fuori tempo. A quel punto è arrivata una chiamata provvidenziale a interrompere il set, da cui è scaturita una lunga discussione sull’affidabilità dei server di Aruba. Grazie a Dio, che probabilmente è davvero un dj.