Da sempre lo osservo lƬ fermo al suo posto, inscritto strafottente e immobile in un quadro ormai consolidato dall’etĆ di lineamenti che ripercorrono per metĆ quelli di mio padre, mentre per il resto – in un sistema di assoluta anarchia – vanno a loro discrezione totalmente a cazzo. Nonostante questa disistima, la sua storia ĆØ non tanto importante se non per il fatto di essere inevitabilmente legata alla mia. Un organo giĆ provato da un fattore di ereditarietĆ fortemente impattante, a causa di un setto pronunciato emerso al centro di una serie di stravaganti asimmetrie facciali degne della migliore produzione di un pittore cubista minore.
Guardatemi. Poco al di sopra, sulla fronte, ci sono tutte quelle righe che al massimo della tensione scatenano la voglia repressa di scrivere note su un pentagramma. Ai lati occhi che mi viene sempre voglia di partire all’attacco. “Cazzo guardi?”, non avrei pietĆ se non si trattasse di me ma qui si apre uno spin-off perchĆ© toccherebbe a ciascuno di noi rivelare come ci si rivolge a se stesso. Nel senso che io cerco di darmi del lei, di parlarmi nei soliloqui con lo stesso rispetto che nutro per le figure piĆ¹ autorevoli della mia vita ma, potete immaginare, alla fine non ci riesco. Con il tu si hanno meno responsabilitĆ e si finisce tutti a bere una o due birre.
Ma questo ĆØ un fattore d’insieme, mentre oggi il protagonista ĆØ lui. Nato con me, sin da piccolo ha manifestato tutta la sua smania di indipendenza sviluppandosi con criteri arbitrari. E vi assicuro che se mi avesse dato retta gli avrei impedito di fracassarsi tutte quelle volte contro superfici altamente solide, cosƬ tanto poco propense all’elasticitĆ che tutto il suo corpo, a furia di botte improvvise, si ĆØ notevolmente distorto. Sbarre di ferro, terreno di gioco, muri del cortile dell’oratorio.
Sapete poi come vanno le cose, i ragazzini all’etĆ delle medie sono spietati e basta avere qualcosa di difforme rispetto ai parametri della regolaritĆ che sei finito. CosƬ tra i tanti complessi in cui ho militato da musicista, quello del naso storto ĆØ stato quello a cui ho mostrato piĆ¹ di ogni altro la mia fedeltĆ . Di notte me lo osservavo da vicino chiudendo prima un occhio e poi l’altro per memorizzare da quale parte fosse l’asperitĆ piĆ¹ evidente in modo da formulare al meglio il mio desiderio impossibile, quello di svegliarmi il giorno dopo con una perfetta simmetria tra le narici. Ma ovviamente le cose non imboccano mai le vie del soprannaturale e dopo un po’ me ne sono convinto.
Questo perĆ² non mi ha impedito di provare a modificare la natura con la forza della scienza. Una volta per ragioni completamente cliniche. Uno dei due canali respiratori era parzialmente ostruito dalla mucosa cresciuta a cazzo e, per garantire una corretta respirazione, occorreva intervenire con la forza, come si fa con un lavandino tappato da capelli e altre schifezze fisiologiche. Un’operazione che non ha perĆ² risolto alla radice il problema: se dentro la situazione era migliorata, fuori era tutto rimasto inalterato. Un profilo deforme e una sua proiezione ortogonale altrettanto assonometrica. Per un po’ di tempo avevo provato a occultare il guaio con un ciuffo di capelli cosƬ voluminoso che copriva gran parte della faccia. Ma non poteva essere certo quello l’emendamento risolutivo alla problematica.
La seconda volta cosƬ sono riuscito a convincere i principali stakeholder nella mia famiglia che la chirurgia estetica mascherata sotto le sembianze di un nuovo intervento terapeutico avrebbe potuto cambiarmi la mia vita. Sono riuscito cosƬ a farmi rimettere in sesto a spese della sanitĆ pubblica malgrado non lo meritassi, una cosa di cui ancora oggi mi pento ma poi, lo sapete, alla prima occasione siamo tutti ladri e io piĆ¹ di tutti voi. Ne hanno pagato le conseguenze entrambi i chirurghi che hanno analizzato il mio caso, defunti entrambi pochi anni dopo.
Ma se devo dirvi la veritĆ , pensavo che l’esito fosse piĆ¹ sorprendente. Tolto il gesso, mi sono osservato nel vetro di un armadio nello studio dell’autore della rinoplastica il quale, sovrapponendo una penna al mio setto nasale, mi ha rassicurato sulla perpendicolaritĆ dell’osso rispetto al labbro superiore, ma giĆ lƬ mi ero accorto – pur coperto da ematomi – che avrebbero potuto esserci ampi margini di miglioramento. Chi se ne importa, ho pensato. Avevo riacquistato infatti la natura originaria del mio naso prima che i numerosi incidenti lo avessero conciato com’era. Ora avevo un naso accettabile, un po’ ancora piegato dalla metĆ in giĆ¹ verso sinistra, ma meglio di prima.
Da allora comunque mi osservo ancora allo specchio, per esempio nelle vetrine, e anche oggi, mentre scrivo, ritrovo il mio compagno di avventure lƬ in mezzo alla faccia, con quell’aria come se mi volesse indicare una direzione. Vai da questa parte, sembra dirmi. E ho pensato questo anche poco fa chiedendo a me stesso, naturalmente dandomi del lei, se sapevo se per andare nel posto in cui dovevo recarmi occorreva prendere per la strada di destra o quella di sinistra. Ero in un’arteria di quelle che nei giorni feriali sono piene di impiegati che offrono caffĆØ e marocchini alle colleghe con cui flirtano, in bar che poi si riempiono di gente che non ha una famiglia da cui fare ritorno all’ora dell’aperitivo, quelli che prolungano il loro orario di lavoro e se potessero sono certo che congiungerebbero la sera con la mattina successiva a furia di cocktail di pessima qualitĆ e rimasugli di tavole calde a conduzione orientale.
Ho avuto la fortuna di osservare tutto ciĆ² di domenica con il mio naso riflesso nel vetro come una decalcomania, in cui comunque ho ritrovato un elemento familiare rispetto a tutta quella gente dietro che consumava brunch a metĆ pomeriggio in un posto cosƬ anomalo, per un giorno festivo, da far accapponare la pelle per il senso di solitudine che trasmetteva.