Tenevi una delle tue sigarette alla menta accese con le dita come un direttore d’orchestra muove la sua bacchetta, richiamando al senso del ritmo un trombettista immaginario esecutore del tema strumentale di “Amore che vieni, amore che vai” e disegnandone involontariamente la melodia con il fumo nell’aria. Seduta con le spalle poggiate a una delle transenne che delimitano quel corridoio in cui fotografi e addetti alla sicurezza si muovono liberamente lungo il lato frontale del palco, oscillavi la testa a sottolineare quelle coppie di rime baciate che sono una delle virtù di quelle liriche, così delicate e piacevoli nella loro ingenua simmetria. Ma sapevamo entrambi che mancava poco prima che qualcuno ne annullasse l’effetto mettendo la vera musica di riscaldamento del concerto e che, con i suoi decibel e tutti i suoi bassi pompati di modernità, avrebbe coperto uno dei tanti impianti artigianali che diffondono le canzoni di De André per le strade di Genova e che fino a quel momento comunque ci aveva intrattenuto. Ma da queste parti devono essere tutti molto più sensibili della media, a partire dal tecnico del suono che invece ha volutamente lasciato terminare la canzone che sfuma in quel modo che conosciamo tutti prima di iniziare a fare il suo lavoro e sollecitare la voglia di ritmo con una selezione pensata ad hoc per quel pubblico dai gusti così facili da individuare. Hai spento la tua sigaretta alla menta contro la suola delle Birkenstock in tempo per alzarti a gettare le braccia al collo di qualcuno che ti stava raggiungendo lì e che non ho visto nemmeno in faccia, uno che ti ha chiesto un bacio e tu gliene hai dati altri cento.