le venticinque canzoni di Bowie che metterei in repertorio se suonassi in una tribute band di Bowie

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Intanto sgomberiamo subito il campo da qualsiasi dubbio e mettiamo le cose in chiaro:

#1 Scary Monsters (and Super Creeps) (1980)
#2 Low (1977)
#3 Heroes (1977)
#4 Lodger (1979)
#5 Hunky Dory (1971)
#6 Station to Station (1976)
#7 Blackstar (2016)
#8 Aladdin Sane (1973)
#9 The Next Day (2013)
#10 Let’s Dance (1983)
#11 Heathen (2002)
#12 Outside (1995)
#13 Earthling (1997)
#14 Diamond Dogs (1974)
#15 Young Americans (1975)
#16 Hours (1999)
#17 Black Tie White Noise (1993)
#18 The Man Who Sold the World (1970)
#19 The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders From Mars (1972)
#20 Tonight (1984)
#21 Space Oddity (1969)
#22 Reality (2003)
#23 Pin Ups (1973)
#24 Never Let Me Down (1987)

una lista in ordine dell’affetto che provo per i suoi dischi e non me ne vogliate, tanto stiamo comunque parlando di cose dell’altro mondo quindi se il vostro beniamino si trova in coda si fa presto a dimostrarne, comunque, il valore.

Detto ciò, nell’ultimo anno – il primo senza di lui – mi sono chiesto quanto possa essere difficile scegliere dei suoi pezzi per metter su un repertorio, considerando la vastità della scelta, la varietà degli stili, la difficoltà stessa insita in certe sue canzoni, complice il fatto che con Bowie ha suonato il meglio dei musicisti di ogni epoca, da Rick Wakeman a Brian Eno fino ad Adrian Belew, che in studio e dal vivo hanno reso il suono di Bowie spesso impossibile da riprodurre per noi umani normali. L’aspetto che complica il tutto è anche il fatto che alcuni suoi pezzi sono stra-famosi e iconici e se non li metti in scaletta il pubblico potrebbe chiedersi ma che razza di tributo sia. E visto che siamo nel regno dei blog, e quindi ciascuno fa e dice quel cazzo che gli pare alla faccia delle giurie popolari grilliste che controllano la veridicità delle informazioni, ecco quale potrebbe essere la mia scelta, in ordine sparso, quindi ditemi se non vi piacerebbe vedere un concerto così:

1- It’s No Game

2- I Can’t Give Everything Away

3- Loving The Alien

4- Where Are We Now?

5- Boys Keep Swinging

6- Absolute Beginners

7- New Killer Star

8- The Speed of Life

9- D.J.

10- Valentine’s Day

11- Always Crashing In The Same Car

12- Look Back In Anger

13- Cat people (nella versione live)

14- TVC15

15- Sense of Doubt

16- Cactus (Pixies cover)

17- Thursday’s Child

18- Ashes to Ashes

19- Warszawa

20- Wild is the wind

21- Kooks

22- I’m afraid of americans

23- Sons Of The Silent Age

24- Be My Wife

25- Heroes (guardate come si diverte Belew a suonare in questa versione)

sapevo che prima o poi sarebbe tornato questo giorno

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Abbiamo avuto tempo un anno intero per riflettere su quello che ci manca da quando ci manca David Bowie, che è mancato appunto un anno fa domani. Ognuno di noi quindi può sfoggiare tutti i motivi sociali, culturali e anche personali per cui il mondo, le relazioni che abbiamo ma anche noi stessi, nel profondo, siamo diversi, oggi. Siamo debilitati dall’assenza ma anche forti perché sappiamo tutti come funziona con l’assenza: il ricordo si fortifica, si sublima, si fa presenza costante proprio perché la presenza della cosa o della persona che non c’è più non è più a nostra disposizione e quindi facciamo quadrato intorno ai nostri ricordi.

Dal 10 gennaio scorso ci siamo pitturati la faccia con le saette rosse e blu, abbiamo visto mostre a lui dedicate, abbiamo tolto i granelli di polvere dai solchi dei suoi vinili che era un po’ che non ascoltavamo, abbiamo scoperto inaspettati segreti dalle copertine dei suoi dischi. Ci sono stati tributi, riconoscimenti, giornate a tema, speciali sulle reti televisive, documentari. Giornalisti professionisti e blogger dilettanti si sono profusi in tonnellate di parole a colmare la narrazione di un artista sul quale non è stato detto abbastanza e mai lo sarà, anche se l’esposizione mediatica sembrerebbe provare il contrario.

Lo scorso 10 gennaio ero in Stazione Centrale a Milano, in attesa di un treno per Firenze, quando via Whatsapp ho appreso che Bowie era morto. Ho subito pensato alle tappe dell’evoluzione umana dal 1976 ad oggi, cioè dall’anno in cui più o meno sono venuto a conoscenza della sua musica e a come nel tempo Bowie ha espresso se stesso al meglio a seconda di cosa c’era intorno. Ho pensato ai dischi che ci siamo contesi io e mia sorella, alla raccolta “Rare” che ho prestato a un amico e non mi è mai stata più restituita, a certe sue canzoni smaccatamente glam che ancora oggi, con tutte quelle chitarre distorte e acute, faccio fatica ad ascoltare. Ho pensato alla corsa dei ragazzini strafatti nel film su Cristiana F., al video di Heroes visto a Odeon, alla parte di tastiere di “China Girl” per quante volte l’ho suonata. Alle sue collaborazioni con i Queen e con Mick Jagger, alla sua parte parlata nella versione extended di “Do they know it’s Christmas”, ad “Absolute Beginners” e alla ragazza che lo ascoltava piangendo perché era finito un amore che era nato proprio lì. Alla trilogia berlinese di cui in tanti si riempiono la bocca e hanno ragione, perché Low è il disco più bello anche se Scary Monster è quello a cui sono più affezionato. Alla tappa milanese del “A Reality Tour” nel 2003 o giù di lì che mi sono lasciato sfuggire ma chi poteva pensare che poi non ci sarebbe stata più occasione di vederlo live.

Insomma, in dodici mesi le occasioni per riflettere su quello che ci manca da quando ci manca David Bowie sono state tante, forse più di una al giorno. E l’ultima è di un paio di giorni fa, quando è uscito un suo pezzo nuovo. L’ho ascoltato e ho pensato se Bowie era ancora vivo quando l’ha scritto o davvero c’è un sistema per fare musica anche quando di noi non c’è più nulla, e in questo caso davvero non c’è motivo di preoccuparsi. Aspettiamo un nuovo album di suoi inediti, provenienti da chissà dove.

il 2016, l'anno del corto circuito

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Ho da tempo pronta una lista di morti illustri del 2016 ma, come vedete, certe cose è meglio aspettare a pubblicarle. Ci sono diverse letture che si possono dare di questa mattanza di celebrità lunga 12 mesi ma se ne è parlato in lungo e in largo e ogni parola rischia di essere superflua. Vorrei solo porre l’accento sui due casi che costituiscono in sé una sorta di corto circuito per i particolari che li contraddistinguono e che hanno dell’incredibile.

Intanto programmare il proprio compleanno con la propria eutanasia è un colpo da maestro se poi, all’uscita di scena, ci aggiungi l’uscita di un album, l’ultimo, che poi è anche un capolavoro come “Blackstar” con l’aggiunta di tutti i segreti che cela la copertina della sua versione in vinile che si svelano un po’ per volta come una sorta di eredità. Bowie è geniale anche da morto.

Il secondo caso è storia recentissima: diventi famoso in tutto il mondo e fino alla fine dei tempi per una canzone sul Natale, l’ultimo per giunta, e qualcosa ti strappa da questo mondo proprio la sera di Natale, dopo che da trent’anni a questa parte ogni Natale ovunque si sente quella canzone lì come se dovesse essere l’ultimo dei natali, per giunta in un anno in cui si sono sprecate le battute su questo o quel cantante deceduto e quale avrebbe potuto essere il prossimo. Roba da matti. Vi prego veramente di svegliarmi prima di uscire uscire (questa è sottile, spero la capiate almeno in due).

Se poi ci aggiungete che il 2016 è stato un anno bisesto e che David Bowie e George Michael sono stati la prima e l’ultima star della musica a raggiungere le classifiche eterne dell’aldilà, l’alfa e l’omega, beh, un corto circuito del corto circuito così sarà impossibile da replicare, nei secoli dei secoli.

un paio di dritte sulla mostra su Bowie a Bologna

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Intanto fate presto perché c’è tempo fino al 13 novembre e poi la mostra chiude, questo significa che dovreste andare tutti sia che lo amiate visceralmente sia che lo conosciate appena. Ci sono molte chicche a partire dall’abito azzurro del video di “Life on Mars” e alcuni testi scritti a penna, comprese le liriche di “Heroes”. Ho visto chitarre e synth purtroppo spenti, stivali e abiti di scena, bozzetti per allestimenti sul palcoscenico e copertine di dischi. Poche foto, purtroppo, e la cosa risalta considerando la copertura mediatica a cui è stato soggetto Bowie lungo la sua carriera. La parte più bella della mostra resta l’esperienza immersiva grazie a cuffie niente male e ai contenuti multimediali. C’è un sistema wireless che rileva la tua posizione e ti fa ascoltare musica e interviste a seconda di quello che hai davanti, a fare i precisini a volte il segnale arriva un po’ in ritardo o è sin troppo pignolo sulle tue coordinate, ma nel complesso il risultato è sorprendente. Preparatevi quindi a piangere davanti al video di “Starman” e ve lo dico perché siamo già in due ad aver provato la stessa sensazione, o a stazionare mezz’ora per seguire a ripetizione quello di “Ashes to Ashes” anche se l’avrò visto milioni di volte, alla tv prima e su Youtube da quando esiste l’Internet e poi a bivaccare nella sala tutta rivestita di display e schermi in cui assistere a una sequenza di brani tratti dai suoi live. Questo, secondo me, sta a significare che poi alla fine di una popstar (o rockstar o artista, chiamatelo come volete) quello che resta di più è un insieme di cose di cui fruire contemporaneamente. Il corpo che si agita sul palco, la voce che ti arriva dritta nel cuore, il basso e la batteria che colpiscono la pancia, tutto il vissuto che ci lega alla sua storia e che, per uno come Bowie, sembra un’era di cose successe lungo così tanti anni, così tanti generi musicali e tutta l’epopea della fine del secolo scorso e ciò che ha rappresentato per la nostra civiltà e per il legame tra le persone e la musica, che non credo nella storia dell’umanità sia stato mai così forte come dall’invenzione del rock in poi. Vi consiglio anche di entrare in maglietta perché la temperatura al MAMbo è torrida e se non ne siete provvisti ne potete comprare una lì al modico prezzo di 25 euro, e nel mio caso – da buon ligure – la parabola dell’entusiasmo per l’acquisto ha avuto davvero un corso rapidissimo. Infine, una rassicurazione che è anche un po’ spoiler ma credo sia dovuto: entrate nella stanza delle proiezioni degli spezzoni di film in cui Bowie è presente come attore sereni, perché non vi è traccia della sua apparizione al fianco di Pieraccioni nella pellicola “Il mio west”, a dimostrazione che l’oblio per gli errori che nella vita si possono commettere (anche Bowie non è stato infallibile), per i grandi personaggi come lui compie il suo corso molto più rapidamente.

red old chili peppers

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Se non fosse per alcune ripercussioni sul corpo, sulla mente e sul morale, diventare anziani ha un suo perché soprattutto per le persone normali. I musicisti invece invecchiano male e lo abbiamo detto più volte, per cui ci tengo a sottolineare ancora che la migliore exit strategy è smettere di suonare prima, in modo da presentarsi all’appuntamento con la terza età belli, puliti e disintossicati ed evitare di mettersi in ridicolo con il prossimo. Ma di fronte a certi casi patetici – pensate a uno come Giuliano Lindo Ferrara – ci sono anche artisti la cui giovinezza è stata talmente strampalata che seguirne la canizie o quel che ne rimane è interessante e altamente educativo. Osservavo per esempio Flea (i cui capelli al momento sembrano invece essere viola) dimenarsi come un bassista dei Red Hot Chili Peppers del 92 qualsiasi nel video di “Dark Necessities”, ma tutti e quattro, a parte Frusciante che esce e entra dal gruppo in modo compulsivo, fanno molta tenerezza nel loro essere fuori come dei balconi ancora nel 2016. Flea è del 62, probabilmente si è fatto di tutto ma esprime se stesso con il resto della band contestualizzato all’anno in corso e alla data di nascita che inevitabilmente campeggia veritiera anche sulla sua carta d’identità. Era un trentenne particolare quando suonava “Suck my kiss”, resta un cinquantaquattrenne particolare mentre esegue i pezzi del nuovo album “The Getaway” che comunque non è per niente male. Anzi.

E oggi, che è il compleanno di Ian Curtis, ci chiediamo: 1. come sarebbe stato il front man dei Joy Division a sessant’anni; 2. se la band di Manchester sarebbe sopravvissuta a tutte le complessità dei giorni d’oggi come i New Order, che hanno pubblicato proprio nemmeno un anno fa uno dei loro album più belli, fermo restando che se Ian non si fosse impiccato probabilmente dei New Order non ci sarebbe stata così tanta necessità. L’ultima riflessione riguarda Garbo, quello di “A Berlino va bene”, a cui va il primato indiscusso di figura più innovativa della canzone italiana, considerando che i suoi innesti new wave nel mortorio poppettoso dei primi anni 80 hanno riportato parzialmente l’attenzione di noi esterofili entro i confini nazionali. Garbo è del 58 ed è attivissimo, io lo seguo sui social. Il suo problema è che non si scrolla di dosso i nostalgici che lo vorrebbero solo ed esclusivamente con l’impermeabile a cantare come Bowie o come gli Ultravox. Questo è un po’ il limite di noi ascoltatori provinciali che certi artisti di respiro internazionale non ce li meritiamo. Ah ecco, dimenticavo: a differenza di tutti, il merito di Bowie è stato quello di non invecchiare, non ci è riuscito ma non perché ha programmato perfettamente la sua morte. Peccato, perché l’avrei voluto volentieri al mio fianco – in senso traslato – nella mia, di terza età. Mi accontenterò della sua musica, almeno fino a quando non sarò completamente sordo.

l'universo che ci aspetta oltre lo svincolo

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Una delle interpretazioni più suggestive del capolavoro di Kubrick – mi riferisco alla sua Odissea nello spazio, e nello specifico al finale – è che non c’è tutta questa differenza tra l’universo infinito e la morte. Kubrick ha scoperto l’acqua calda, nel senso che da quando l’uomo ha iniziato a riflettere su queste cose, a inventarsi credenze e religioni e a struggersi sul suo destino, il fatto di disperdersi da qualche parte e di avere una componente fatta di ignoto ci ha indotti a pensare che alla fine dei programmi saremo tutt’uno con quello che non riusciamo a ridurre a trasformazione chimica o operazione matematica, e morte e universo infinito sono appunto le prime due cose che abbiamo a portata di mano per capire la nostra inutilità ai fini del tutto. Sempre che ci sia un tutto. Ma anche se non ci fosse la sostanza non cambia, anzi cambia perché per fortuna siamo biodegradabili. Ma che importa che cosa c’è a miliardi di milioni di miliardi di milioni di miliardi di anni luce da qui se tanto al massimo quando ci avanza mezz’ora di tempo libero il punto più distante a cui aneliamo è l’Ikea di Cesano Boscone? Un fenomeno che si spiega solo con il fatto che davvero non c’è più tempo ed è per questo che si confermano modelli già rodati che limitano il rischio di adottare procedure nuove e dall’esito ignoto. In questa visione escatologica, che almeno si ammetta l’ipocrisia di chiamare l’uscita numero 5 della Tangenziale Ovest direttamente “Ikea”, tanto tutti quelli che escono lì si sa già dove si stanno recando. Cesano Boscone in realtà non esiste, è un mistero tanto quanto la morte e l’universo infinito e le polpette di renna. E la prova di quell’ammasso di ignoto e incommensurabile che mai ci sarà dato conoscere è il fatto che da lì – dallo spazio/universo, non da Cesano Boscone – ci arriva credo per un’ultima volta la voce di David Bowie, una delle vittime più compiante di questo Annus Horribilis per giunta bisesto. Qualche giorno fa è stato pubblicato un nuovo video tratto dal suo album quasi postumo “Blackstar”, un brano che non si capisce appunto se venga da qualche parte remota dello spazio, luogo che Bowie ha frequentato più volte nella sua vita, o direttamente da quello che erroneamente chiamiamo oltretomba, il che è ancora più frustrante se appunto noi, nella nostra vita, abbiamo solo collezionato visite domenicali all’Ikea. Il collante di questo agglomerato nobile di ignoto è l’Internet, che non sappiamo se c’è o non c’è, se è visibile o no, se è concreta o è sfuggente ma che ci importa, basta che trasmetta dalla parte in cui abitiamo noi mortali e con chiarezza i messaggi che ci indicano la strada, quella che prosegue all’infinito oltre l’uscita 5 della Tangenziale Ovest.

ora vi spiego David Bowie

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Se vi dico che David Bowie è stato un grande artista so già che chiudete la pagina in un clic e tornate su Facebook o su qualche blogger musicale di quelli seri e preparati. Il motivo è che è una banalità, ma anche se so che lo pensate non vedo un altro modo più efficace per affrontare la questione, che è la seguente. David Bowie è stato un grande artista e ha usato sempre la musica più a portata di mano per esprimersi, questo significa che lungo una carriera di cinquant’anni o giù di lì di generi pronti all’uso ce ne sono stati diversi. Conoscete meglio di me, vero, la classificazione dei periodi artistici di Bowie. Cosa significa questo? Semplice. Se cercate coerenza musicale avete sbagliato artista e provate a citofonare U2 o REM o una delle band o cantanti che hanno un genere tutto loro a cui bene o male sono rimasti fedeli lungo una carriera pluridecennale. David Bowie è stato un grande artista che ha usufruito della musica come piattaforma espressiva. La musica per tradurre David Robert Jones agli esseri umani. E se mi insegnate che la musica è uno strumento si prende quello i cui simboli e la cui estetica è più facile che arrivino a destinazione, quello più di moda secondo ogni momento storico perché c’entra anche la moda e non dategli la solita accezione superficiale, fate uno sforzo.

Invece lo so che è difficile perché piacerebbe a tutti avere il proprio David Bowie personale e tutto d’un pezzo che dal primo all’ultimo disco ha sempre seguito una linea. Io per primo: a me piace particolarmente il periodo da “Low” a “Scary Monsters” e siccome trovo il sound di Bowie in quella fase irresistibile (ma anche lui stesso non è per niente male) mi sarebbe piaciuto che avesse continuato in quella direzione. Ma lo sapete come è andata. “Let’s dance” è stato probabilmente il suo album più venduto di tutti i tempi perché a quel punto ha deciso che il genere più a portata di mano per esprimersi era, appunto, la dance. Posso fare lo stesso tipo di analisi a ritroso, mentre a chi piace il suo periodo glam o quello degli esordi vi dirà le stesse cose che ho scritto io ma con altri punti di riferimento.

Da questo punto di vista, forse la fase in cui è stato più coerente musicalmente è stata la penultima, diciamo da “1.Outside” in poi esclusi gli ultimi due, “The next day” e “Black star”, ma questo secondo me deriva dal fatto che da metà anni 90 in poi non ci sono stati bruschi capovolgimenti di stile nella musica. Anzi, pensate a tutto il filone derivativo che contraddistingue il nostro presente dal duemila in poi e che si rifà al post punk – new wave che a sua volta è molto debitore a David Bowie, ne consegue che siamo daccapo e Bowie così ha reinterpretato se stesso del suo periodo d’oro quindi non ha avuto più bisogno di rifarsi ai generi e ai suoni del momento perché già lui era così.

Il resto di Bowie lo avete capito da soli. I detrattori non gli perdonano questa sua personalità troppo forte per sottomettersi a un unico filone, i generalisti conoscono tutte le sue hit, i gruppi alternativi lo riconoscono come principale ispiratore, gli impegnati come me fanno i distinguo, i cantautori dall’alto della loro gloria da stronzi fanno finta di non conoscerlo, quelli che cavalcano i trend topic post-mortem si arrangiano con quello che trovano. Ma ripeto: il suo essere stato così a cavallo di tutto, perché Bowie ha fatto di tutto il suo cavallo, è stato un modo di forgiare la musica e le sue categorie e metterle al servizio della sua arte. I più gretti risultano pasticcioni, voltagabbana e ruffiani. I raffinati come Bowie possono permettersi di esprimersi in qualunque modo gli sia più congeniale, tanto gli è congeniale tutto.

L’ultima considerazione: un modo per celebrare Bowie potrebbe essere quello di resistere alla tentazione di creare una tribute band di Bowie o snobbare i concerti delle tribute band di Bowie già esistenti. Non può esistere una tribute band di Bowie, sarebbe infatti una tribute band della musica stessa. Se vi sentite offesi perché suonate in una tribute band di David Bowie potete ribattere dicendo che bisognerebbe evitare anche di scrivere banalità come David Bowie è stato un grande artista, o come tutto questo minestrone qui sopra, così siamo pari. E comunque Bowie mi manca di brutto, non so a voi.

da due giorni è già il ventiduesimo secolo

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Come i vecchi tromboni la meno un po’ a tutti con ‘sta storia del secolo breve perché ho studiato Hobsbawm ed è su queste basi che vi dico che ieri l’altro è finito il secolo brevissimo, e fidatevi perché di archi temporali aperti e chiusi arbitrariamente alla faccia della divisione ufficiale del tempo me ne intendo alla stragrande. Non credo di esagerare affermando che con la morte di David Bowie finisca un periodo a sé che per me può tranquillamente erodere tutti i decenni che volete del novecento, almeno da quando esce Space Oddity fino alla pubblicazione di Blackstar. Il calcolo è presto fatto: dal ’69 all’11 gennaio 2016 sono quarantasette anni, corretto?

Ecco, il secolo brevissimo allora è quello di Bowie, della sua musica, dei suoi alti e bassi. Tutta la letteratura che leggete pubblicata in questi giorni ci accompagnerà nei prossimi cento anni, che poi magari ancora una volta non saranno cento ma che di certo sono iniziati nel migliore dei modi. Ci piace pensare infatti che David Bowie abbia pensato a tutto: primo, non far sapere in giro che era malato e che era destinato a morire presto. Secondo, scrivere, registrare e pubblicare un album che costituisse la vera essenza del suo modo di essere: una stella luminosa al contrario il cui nero risplenderà per sempre nelle sue parole. I testi delle ultime canzoni sono un richiamo a quella che sembra una morte pianificata in grande stile, con un servizio fotografico a poche ore dall’ultimo respiro.

I nati in questo ventiduesimo secolo possono esserne fieri: la vita di Bowie è una straordinaria opera d’arte in sé, e Blackstar sembra essere la chiave per interpretarla al meglio. Il secolo brevissimo, quello dei circa cinquant’anni di carriera, è una performance vivente fatta apposta per noi, un immenso e infinito teatro cinema disco pub ristorante all you can eat da percorrere in un senso o nell’altro. E se lo cose stanno così, se davvero Blackstar è stato studiato nei minimi particolari per dirci addio a suo modo, possiamo aspettarci davvero di tutto. Lazarus, il suo ultimo alter ego, potrebbe davvero alzarsi e riprendere a camminare.

è morto Bowie e io sono a Prato

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È morto David Bowie e io sono a Prato. Questa è la prima cosa a cui ho pensato quando sono stato messo al corrente della notizia. Ero davvero a Prato in una riunione di lavoro e, nella stanza, c’era pure puzza di piedi. Ecco le successive, se ve la sentite di elaborare insieme a me il lutto.

La seconda cosa a cui ho pensato è stata quel post di Fabio De Luca in cui ha pubblicato il mistone dei pezzi di Bowie remixati dai 2Manydjs, quando dice che “vederlo (il video del mistone) mi ha fatto pensare al giorno in cui David Bowie se ne andrà da questo mondo, e a quanto bisognerà evitare internet quel giorno”. Ecco, fatta eccezione per il fotogramma di Christiane F. di spalle che osserva nella metro di Berlino il poster del concerto con la sua iconica faccia frecciata di rosso di Aladdin Sane mi sono ripromesso di non leggere, scrivere e ascoltare nulla su Facebook. Anzi, se prima avevo la mezza intenzione di cancellarmi, ora sono a oltre tre quarti.

La terza cosa è che non l’ho mai visto dal vivo e che speravo in un tour di “Blackstar” anche perché, a differenza di quanto sostengono i telegiornali, non ho mai letto da nessuna parte né che fosse malato e tantomeno che avesse i giorni contati. Quando è venuto in Italia e io ero già in età da concerti il periodo della trilogia berlinese era già finito da un pezzo, erano gli anni 80 e Bowie suonava versioni delle sue canzoni piuttosto discutibili. Per farvi capire, ascoltate questo estratto della sua performance a Live Aid

e paragonatela con questa

quindi insomma, vederlo con quelle spalline non mi interessava granché. Poi è rinsavito, come tutti a una certa età, e si è rimesso a suonare i suoi pezzi come devono essere suonati, per esempio così:

La quarta cosa è “Blackstar”, il nuovo disco che ho pre-ordinato appena è stato disponibile su Amazon, quindi mi è stato spedito come a tutti giovedì scorso con consegna venerdì 8 nel giorno del compleanno di David Bowie. Il mio programma per il fine settimana scorso prevedeva infatti un ascolto continuo del nuovo disco di Bowie, tenete conto che mai e poi mai avrei immaginato che sarebbe mancato di lì a poco. E invece il corriere di Amazon non è arrivato in tempo e “Blackstar” mi è stato recapitato in ufficio ieri quasi nello stesso momento in cui venivo a sapere che Bowie non c’era più. Ma io non c’ero in ufficio ieri, ero a Prato e Bowie è morto mentre io ero a Prato.

La quinta cosa è il video di “Lazarus” tratto da “Blackstar”, che non sono riuscito a vedere quando è stato pubblicato qualche giorno fa perché mi ha fatto impressione pensare a Bowie vecchio e malato, e torno a ripetere che non sapevo nulla delle sue condizioni di salute.

La sesta riguarda invece tutte le canzoni di Bowie che ho suonato nella mia vita passata da musicista, su tutte “Ashes to Ashes” con quel gruppo di cover new wave che avevo intorno al 2000, e tutte le sue canzoni che invece non ho mai imparato a partire dalla parte di piano di “Life on Mars”. Peccato davvero.

Il settimo pensiero è andato ad Aurora che è un’amica che era sputata David Bowie. C’è in giro una gif animata che mette in sequenza tutte le foto più celebri di Bowie con una sorta di effetto di morphing (mi spiace non linkarla ma non la trovo in questo momento EDIT: l’ho trovata, è qui) e in più di un passaggio, tra un trucco e l’altro, sembra di vedere Aurora quando ne eravamo tutti innamorati perché sembrava proprio Bowie.

L’ottava e ultima cosa riguarda ancora “Heroes” e quella scena di “Christiane F.” che ha proprio quel brano in sottofondo che ogni volta in cui la vedo mi fa venire voglia di correre strafatto come loro e come loro spaccare tutto. Ma non posso farlo per motivi anagrafici, quindi faccio finta che a Berlino, nell’81, ci sono stato pure io.

A dire la verità ne avrei ancora una di cosa, ma che sono distrutto dalla notizia della morte di David Bowie è inutile che ve lo stia a dire.

la vita è come una scaletta corta e senza nemmeno un bis

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Giochiamo che io ero David Bowie e che facevo un tour mondiale toccando anche l’Italia (avevo scritto Milano ma poi mi sembrava di fare torto a tutti voi che vivete in periferia). Stava per uscire il nuovo disco e quindi i concerti che facevamo erano quelli promozionali che si fanno da sempre per divulgare il nuovo lavoro. C’erano quindi i nuovi brani da proporre al pubblico, magari non proprio tutto l’album però quasi ma a quel punto Bowie andava in crisi perché non sapeva quali classici del suo repertorio aggiungere in scaletta perché il pubblico, sicuramente desideroso di assistere alla presentazione dei nuovi, avrebbe pagato comunque per sentire anche qualcuno di quelli storici. E quando il gioco si fa duro sapete come va a finire. Pensate infatti alla difficoltà che deve avere uno come lui a mettere insieme la scaletta ogni volta. Dunque, secondo Wikipedia Bowie ha pubblicato 26 album in studio e si appresta a far uscire il ventisettesimo, che fa in tutto almeno 300 canzoni circa, di cui ipotizziamo un centinaio circa di quelle stra-conosciute. Come si fa? Da dove si inizia? Qualche preferenza ce l’avrei e immagino anche voi, ma se fosse per me già solo la presenza del periodo berlinese sarebbe importante almeno tanto quanto i primi anni settanta, diciamo tra Hunky Dory e Young Americans. E vogliamo parlare di Lodger – Scary Monsters (and Super Creeps) e Let’s Dance? E anche di “Loving the Aliens” tratto da Tonight che anche se l’album è forse quello più sotto tono è comunque un pezzone? Poi ci sono gli anni novanta, con produzioni di tutto rispetto, e i duemila fino a The Next Day che hanno un loro perché. Ecco, se giochiamo che io ero David Bowie e che facevo un tour mondiale, la scaletta durerebbe una giornata intera e chissà se lui, oggi e alla sua età, riuscirebbe a tenere botta. Pensate, al contrario, alla sfortuna di fare concerti quando sei al primo album. Una mia amica che negli anni ottanta era uscita di senno per Joey Tempest degli Europe, mi raccontò della delusione al concerto di Genova: una manciata di brani e l’esecuzione di The Final Countdown due volte, all’inizio e alla fine. Ma si può? Io avevo visto gli Interpol ai tempi del loro primissimo ellepi, e se non ricordo male tirare fino a quindici canzoni era già stata un’impresa. Addirittura avevo messo su una band con un tizio che aveva organizzato delle serate ancora prima che avessimo prodotto un repertorio quantitativamente dignitoso, e così per colpa della sua fretta ci siamo trovati a dividere i palco con altri gruppi e a presentare set vergognosi da quattro o cinque canzoni. Non so se Bowie agli esordi abbia fatto errori strategici del genere, ma non ce lo vedo proprio, considerando la sua infallibilità: avete sentito “Blackstar”, il primo estratto dal suo nuovo album, vero’?