ho trovato la soluzione

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Uno scrive cose tristi perché poi, quando le legge, sembrano un po’ meno tristi agli occhi dell’autore. Questo accade per svariati motivi. Principalmente perché chi scrive non è che lo faccia così bene quindi fa errori, sbaglia i registri, costruisce la narrazione a cazzo e il risultato è che la cosa triste che ha scritto, al momento della lettura, ha perso molto del suo potenziale intristente. Se ci sono delle eccezioni è perché l’autore è uno che se la cava bene con la scrittura, quindi scrive cose tristi e la gente gli crede e si intristisce di conseguenza, ma questo accade perché chi ha scritto cose tristi in modo realistico probabilmente è uno scrittore fatto e finito o comunque ha un certo seguito ed è pubblicato perché, ripeto, se la cava bene con la scrittura. Per noi che abitiamo la base della piramide della rappresentazione emotiva tramite prosa mediocre invece la scrittura di cose tristi funziona come quando dici un segreto triste a un amico per alleviare il dolore provato. Una sorta di sfogo. Mentre scrivi cose tristi le cose tristi si trasferiscono dall’organismo alla pagina bianca – fisica o virtuale che sia – e come si fa con ce l’hai o tua prinz o tua suora a quel punto la cosa triste è di competenza di qualcos’altro e lì, sulla pagina bianca – fisica o virtuale che sia – la cosa triste pian piano diluisce la sua portata (a causa della qualità più o meno scadente della forma) e quindi l’autore poi la rilegge e ci ride addirittura su, e i quattro gatti che seguono l’autore non rischiano nessun contagio perché difficilmente se ne coglie il significato, figuriamoci poi il timbro di mestizia che l’autore non ha saputo dare. Ecco, quindi, la soluzione: la cosa triste nel ventre o nella testa dell’autore è il soluto, la pagina pagina bianca – fisica o virtuale che sia – è il solvente, la broda annacquata o in fase di stemperamento è il risultato che in qualche modo si disperde e quindi niente, arrivate alla fine del testo e amici come prima.