C’era uno spot televisivo, tempo fa, in cui tra centinaia di giovani vestiti tutti uguali in tuta blu e costretti a muoversi allo stesso modo solo uno, sfidando il regime che imponeva l’omologazione comportamentale, svestendo i panni della massa e adottando quelli vivaci e colorati dell’individualità, assurgeva a una rivoluzionaria quanto rischiosa emancipazione ostentando passi di una danza liberatoria e, a differenza del resto, estremamente occidentalizzante. Una esplicita metafora contro gli imperi totalitaristi orientali a sottolineare che solo il libero arbitrio e l’espressione del sé è in grado di completare la natura umana alla costante ricerca della propria componente dalla quale una oscura divinità ancestrale ci ha strappato via prima della nascita e alla quale aneliamo per tutta la vita, che non è la metà di Platone bensì la fama, il distinguersi, l’emergere. Ci pensavo proprio domenica scorsa mentre osservavo la coda fuori da un Arnold Coffee a Milano e, lì vicino, fuori da Grom. Una specie di Starbucks di cera il primo, visto che qui in Italia, nella patria del macinato e della napoletana, il noto brand americano non attecchirà mai e sarà per sempre osteggiato. Il gelato così buono che non è nemmeno più un gelato il secondo, che un marketing da manuale ha spinto al top dei consumi da passeggio nella patria delle cremerie. Già, perché di cosa siamo fatti noi italiani lo si vede essenzialmente da queste cose. Torrefazioni che fanno un caffè che spacca semideserte e gelaterie artigianali che gli stranieri pagherebbero a peso d’oro vuote e noi, abituati a stare con i più forti, pronti ad aspettare mezz’ore per essere serviti solo perché in astinenza da marchio riconosciuto. Ma che c’entra con la pubblicità con cui hai iniziato questo post, direte voi. Nulla, se non che è bello essere liberi di scegliere quello che scelgono tutti gli altri.