Mi accorgo dell’avvento della bella stagione quando la temperatura consente di spalancare porte e finestre che danno sul balcone. Le veneziane calate mi permettono di godere di una manciata di metri quadri di casa in più rispetto ai mesi freddi, in totale privacy. Non vivo in aperta campagna, la vicinanza dei condomini e dei condòmini impone l’uso di separè se non altro a illuderci che, là fuori, al posto della Rho-Monza, ci sia una mulattiera che conduce al ruscello, e i palazzi del quartiere siano giganteschi alberi di canfora, come quello di cui mia figlia si è innamorata dopo aver visto “Il mio vicino Totoro”. Ma certi suoni irrompono senza pietà nel meriggiare pallido e assorto, e non si tratta di schiocchi di merli e frusci di serpi. Anche le altre famiglie, come noi, aprono le finestre in barba agli insetti metropolitani e alle nuove specie che, vuoi i cambiamenti climatici, vuoi il traffico della Malpensa, stanno diventando endemiche.
E magari, avessi come vicino un gigantone simpatico come Totoro. In genere, dalle finestre altrui escono cose irripetibili. Quando, anni fa, vivevo nel centro storico di Genova, avevo una ragazza dell’Ecuador sotto di me. La convivenza era fantastica, se non che il sabato mattina, entrambi alle prese con le pulizie dei rispettivi appartamenti, scattava la battaglia dei decibel. Malgrado tutta la musica sudamericana mai composta, ella amava ascoltare a tutto volume compilation del peggio pop europeo riarrangiato in chiave salsa. Già tutto ciò che, culturalmente, va da Los Angeles in giù proprio non è nelle mie corde. Quel che percepivo era troppo. La mia risposta, in quanto a cattiveria, purtroppo non superava i Soundgarden di Badmotorfinger che, anche a manetta, soccombevano alle bachate downstairs. E quando, esasperato se non altro dall’impossibilità di meshuppare tra ritmi e gusti così agli antipodi, suonavo lungamente al suo campanello per implorare pietà, la vicina dell’Ecuador non mi apriva, probabilmente spaventata dalle blasfeme parole di Jesus Christ Pose appena sentite colare dal soffitto.
Anche qui, nei dintorni di Milano, la situazione non è molto differente. Mi accorgo di essere in estate perché, spalancando porte e finestre come tutti, la quiete è turbata dal vociare sguaiato di alcune famiglie, poche, per fortuna, ma abbastanza però da costituire un insieme molesto che rasenta l’inquinamento acustico e, in primis, inficia il buonumore. Chi si scambia i tips per craccare i dvd o fornisce resoconti sulla disponibilità di banda effettiva del proprio contratto adsl (yum yum!) tra balconi incrociati, tanto che chi vive in mezzo ne rimane per forza di cose coinvolto. Chi organizza festicciole con tanto di barbeque all’aperto, facendo tirare tardi a tutto il quartiere. Ma non c’è limite al peggio. C’è una famiglia o presunta tale, proprio di fronte a me, costituita da psicopatici. Padre, madre, 2 figlie adolescenti e un figlio maschio in età puberale. Un gruppo di pazzi che si urlano da mane a sera. Ma si urlano cose pesanti, roba che siamo sempre lì, pronti a intervenire per chiamare rinforzi, sbirciando ogni tanto tra i listelli delle veneziane nella paura che qualcuno voli giù dal balcone. Dai teneri vaffan***o (madre verso figlio) a ingenui sei una scema (figlio a madre), esplicite botte di p*****a (figlia a madre) con contorno di fatti i c***i tuoi, non rompermi i c******i e minacce varie. Ce n’è per tutti i gusti. E noi tre siamo lì, a goderci il meritato riposo prefestivo sul balcone con il brunch del sabato, la bottiglia di bianco tenuta in fresco, Catch a fire originale su vinile di Bob Marley per inaugurare gli RCA nuovi appena saldati del vecchio piatto Nordmende acquistato nel 1978, good vibes nascoste tra le piante ornamentali. Insomma, sarebbe il colmo dover desiderare l’inverno solo per risparmiarmi le crisi isteriche altrui. L’esperienza insegna: ci sono vicini di casa che possono essere molto pericolosi.