Linda ha una figlia segreta con gli stessi occhi verdi molto separati, quasi da cavallo, che straordinariamente e senza sapere nulla della carriera artistica della madre canta le stesse cover di hard rock dozzinale con atteggiamento ribelle e i jeans strappati in birrerie di periferia, dove tavolate di impiegati si danno alla trasgressione del fine settimana, fatta di alcolici da supermercato spacciati per shottini caraibici e birra industriale, per lasciar emergere, senza dare giustificazioni di sorta, tutti quegli aspetti della loro personalità che, a torto, ciascuno di essi ritiene tutto sommato i più interessanti ma, in generale, il mondo li preferisce in camicia a svolgere la loro funzione di data entry in orario di ufficio e per giunta muti, per quel che hanno da dire. Chi se ne intende di queste cose sa che la gente impazzisce invece a osservare persone come Peo, quello che suona il basso con la figlia segreta di Linda, perché ha un aspetto che non corrisponde affatto alla sua indole remissiva e quando inforca gli occhiali da lettura, al parco o sul tram, è come se un incantesimo si spezzasse perché, in natura, un predatore presbite non si è mai visto, perdonate il gioco di parole. La figlia segreta di Linda ha un fisico da togliere il fiato e questo parzialmente fa passare in secondo piano certi adattamenti poco ortodossi alle melodie delle canzoni, utili a nascondere i limiti della sua estensione vocale. Fa l’insegnante di fitness non so dove, l’estate la trascorre nei villaggi turistici a risvegliare i muscoli delle carampane. C’è un signore di mezza età in prima fila che non le toglie gli occhi dosso, soprattutto quando la figlia segreta di Linda si china per voltare le pagine del suo blocco a spirale con tutti i testi. Come dargli torto? Luigi, che sa tutta la storia ed è grazie a lui che ora la conosco anche io, mi ragguaglia dicendomi che quel sospetto fan fuori quota in realtà si tratta di suo padre naturale, un musicista quanto lei e la presunta madre. Una famiglia di artisti, non c’è che dire. Luigi avvia il suo smartphone da mille euro e va sulla pagina Facebook dell’uomo, dove mi mostra la foto sbiadita di una band i cui membri vestono dei buffi costumi beat, giacche di colori sgargianti senza bavero e colletto, un dettaglio che mi manda in confusione: intanto, se quello è il padre, come fa la figlia segreta di Linda a essere segreta e soprattutto a chi è segreta, forse a se stessa? E poi il padre, che è mio coetaneo, come faceva a suonare da ragazzo in un gruppo beat quando il mondo si divideva tra post punk e gente di cattivo gusto?
concerti
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StandardÈ salito a tre il numero dei concerti a cui quest’estate non parteciperò, o meglio quelli a cui parteciperei se non avessi deciso che per un po’ ai concerti non ci voglio più andare e vi assicuro che è una decisione che ho preso prima del Bataclan e di Manchester. Si tratta dei concerti degli Interpol al Carroponte di Sesto San Giovanni, dei Foals al Magnolia e degli Algiers alla Santeria. Non è un problema di età che mi è venuto superati i cinquanta e non è nemmeno un problema di soldi anche se, come abbiamo avuto modo più volte di discuterne, gli spettacoli live sono tutt’altro che convenienti. Qualcuno a cui ho confidato questa scelta mi ha fatto capire tra le righe che la musica di questi tre gruppi è comunque perdibilissima altrimenti, conoscendo me, avrei fatto di tutto per assicurarmi un biglietto, ma onestamente posso confermare che non è vero. In giro ci sono anche The Cure e i Depeche Mode, per dire, a cui oggettivamente sono più affezionato che agli altri, e anche se i biglietti per gli eventi in questione sono ai limiti della follia e malgrado ciò vanno più a ruba di tutti, sappiate che non ho mosso un dito per arrivare prima degli altri al clic decisivo all’acquisto.
Non ho più voglia di concerti, di musica dal vivo, di calca, di decibel sparati a manetta, di spettatori davanti che passano il tempo a fare foto e video, di spettatori dietro che passano il tempo a parlare, di spettatori di lato che ballano fuori tempo, di spettatori all’altro lato che – beati loro – passano il tempo a limonare. Non ho voglia di sudare, di scalpitare da seduto per la voglia di andare sotto il palco con la paura di perdere il posto, di penare in piedi perché non ci sono posti a sedere e voglio fare una pausa, di sentire quelli che cantano ma si inventano le parole, di non poter cantare le canzoni che non conosco per lo stesso motivo e di invidiare quelli che le sanno. Ma non ho nemmeno più voglia di non poter andare ore prima a godermi l’atmosfera pre-concerto perché non posso uscire prima dall’ufficio e di andare in ufficio in coma il giorno dopo per esser tornato tardi ma tutto questo, forse, mi costringe ad ammettere che, a differenza di quanto ho sostenuto prima, è un problema di età che mi è venuto superati i cinquanta. La società mi vorrebbe seduto nei teatri con il farfallino ad annuire durante i passaggi più emozionanti di qualche opera classica o, al massimo, in uno di quei club di jazz mainstream a battere il piede sinistro sul due e sul quattro di qualche standard eseguito da una vecchia cariatide (come me) al sax. Così, alla fine, non potendo e non volendo fare nulla di tutto questo me ne sto volentieri a casa a fare i bilanci sui pro e sui contro e, al limite, a scriverli qui. Anzi, mandatemi qualche selfie, se ci andate.
le ragazze del secondo piano
StandardVorrei essere una ragazza solo per aver avuto la fortuna, da giovane, di esser presa sulle spalle da qualcuno per gustarmi un concerto al secondo piano umano della bolgia sotto il palco. Non serve essere frequentatori dei live per avere questa ambizione. Se avete mai provato l’ebbrezza del primo maggio in casa davanti alla tv, sapete di cosa parlo. Le ragazze del secondo piano della bolgia ai concerti sono invece spesso in primo piano alla tv fino a quando poi non si accorgono di essere inquadrate e lì si rompe il giocattolo e il regista passa a qualcun altro. Sono in reggiseno o maglietta succinta, in genere sono bellocce e amano essere al centro dell’attenzione e, manco a dirlo, hanno sotto di loro un ragazzo in friendzone a cui non la daranno mai ma comunque entusiasta nell’accondiscendere ogni capriccio della ragazza che aspira a salirgli sulle spalle. Il problema subentra per chi sta dietro. Chi si arroga il diritto di vedere il concerto dal secondo piano della bolgia se ne fotte altamente di chi improvvisamente si vede rovinata la sua esperienza di ascoltatore, dal momento che anche l’occhio in un concerto vuole la sua parte. E la schiena della ragazza del secondo piano della bolgia non è mai all’altezza dello spettacolo ma, comunque, a un’altezza tale da rompere i coglioni al prossimo alle spalle. Benvengano quindi i lanci di bottiglia e qualunque cosa come tentativo di far desistere ogni ragazza del secondo piano della bolgia. Poi un’altra cosa che non sopporto è il fatto che, da lassù, hanno anche la presunzione di dimenarsi cercando di seguire il tempo aumentando così la portata del danno arrecato al pubblico costretto a vederla e all’aspirante fidanzato sotto, costretto a interpretare ogni movimento come uno stimolo a muovere la gamba corrispondente in modo da assorbire la forza impressa dalla ragazza sopra e scaricarla con la giusta direttrice secondo le più banali leggi della fisica. Così, se siete ragazze che aspirate a salire al secondo piano della bolgia ai concerti sulle spalle di qualche vostro spasimante che farebbe qualunque cosa per voi, siate le prime a desistere da questa pratica così volgare e irrispettosa per chi ha pagato quanto voi per questo o quel gruppo dal vivo. Chiaro che poi più l’artista sul palco è di valore e più è sconsiderato il vostro gesto. Per esempio ieri è stato pubblicato questo video in cui i Portishead (sì, proprio i Portishead) hanno chiamato sul palco Thom Yorke (sì, proprio Thom Yorke) a cantare The Rip, un bellissimo brano di Third di cui già i Radiohead avevano registrato una cover (che trovate qui e diamine, son già passati sette anni). Se guardate il video qui sotto noterete che dopo pochi secondi, più o meno a 00:45, davanti al fortunato ascoltatore che sta registrando il concerto, due tizie salgono sulle spalle dei relativi friendzoner e iniziano a dimenarsi. Che senso ha, poi dimenarsi su un pezzo come The Rip dove l’unica cosa che potresti fare è inchinarti e salutare con la massima immobilità il trionfo dell’altrui ingegno compositivo e personalità artistica? Per una cosa così potrei anche diventare manesco.
tagliare corto con una lunga storia
StandardSecondo me con i concerti abbiamo un po’ perso il senso della misura, perché giustamente le popstar hanno capito che con le vendite dei dischi marca male ed è ora di rimboccarsi le maniche e puntano tutto sull’attività live. Da qui deriva il fatto che i prezzi dei biglietti non stanno né in cielo né in terra, una roba che se tornassimo ai tempi degli autoriduttori altro che processi del proletariato a De Gregori. Il punto, al limite, è come concentrare le proprie risorse economiche e scegliere concerti che ne valgono veramente la pena. Lo so, starete pensando che ho scoperto l’acqua calda, magari non proprio così ma con una locuzione più sbrigativa tipo “grazie al cazzo”. Perché anch’io sono uno come voi che si muove solo per i propri beniamini. The National, i Tv on the Radio (ho già da un bel po’ i biglietti per il concerto del 6 febbraio a Milano), gli Interpol, St. Vincent, Sharon Van Etten, Satellites se prima o poi deciderà di eseguire live i suoi due capolavori. Tutti artisti un po’ della nicchia che al massimo ti costano 25 o 30 euro a cranio, cioè sessantamila lire, non dimentichiamolo (ho da qualche parte un biglietto per il tour di “Sono solo canzonette” di Bennato a 1500 lire). Ma va be’, mettiamoci pure l’inflazione e il passaggio dalla lira all’euro che nessuno ha regolamentato, per questo più che un referendum per uscire dall’euro occorrerebbe un referendum per uscire dagli italiani. Per farla breve, il mio budget per le esibizioni di gruppi e artisti famosi dal vivo non supera i cento euro l’anno. Ma sarà capitato anche a voi di scambiare qualche parola con gente che va a sentire cani e porci solo perché sono degli eventi, lasciandoci ogni volta mezzo stipendio. E gli U2, e Biagio Antonacci, e Fedez, e jovanotti che esce purtroppo con un altro album, e i Negramaro a San Siro, ma non distribuiti ciascuno tra i propri fan ma nel senso che singoli individui onnivori e bulimici di musica da tanto al mucchio vanno a vederli tutti. Immaginate la confusione che regna in quelle zucche, una cosa da non credere.
Poi ci sono i nostalgici facoltosi, ma quelli sono un caso a parte e fanno tenerezza. So di persone che hanno pagato migliaia di euro per una manciata di biglietti per l’imminente concerto degli AC/DC, quando poco prima erano sotto il palco di Billy Idol e contano i giorni che mancano al live degli Spandau Ballet. Il trait d’union sono i tempi che furono, gli anni 80 indiscriminati, un calderone in cui anche a me è capitato di cadere un paio di volte e ve l’ho già raccontato. Una reunion che non potevo perdere del Police qualche anno fa e una deludente serata con una Siouxsie davvero invecchiata e poco propensa a rivangare il proprio passato in favore di un nuovo lavoro discografico – un po’ così. Tutto questo però parte dalla band di Tony Hadley, che con i suoi costumi new romantic ci faceva piuttosto ridere ma oggi che importa, siamo abbastanza vecchi e a certe cose, purché ci ricordino certe vecchie storie, non badiamo più. Stavo aspettando mia moglie fuori da uno dei negozi di quel girone infernale che è l’outlet di Vicolungo nei giorni dei saldi, e sapete che c’è sempre musica in ogni angolo, quando a un certo punto è partita questa canzone qui.
bravo, bis
StandardDiciamo NO a chi balla fuori tempo ai concerti, muoversi non rispettando il ritmo può essere deleterio e causare scontri involontari con chi invece segue la canzone con gli stessi battiti, questo indipendentemente dalla propria coreografia. Non devi essere Nureyev per non schiacciare i piedi o spalmare il sudore addosso a chi ti sta vicino. Diciamo NO a chi acquista i biglietti ma va solo per accompagnare l’amata/o con il solo scopo di limonare il più possibile, prima dell’inizio, durante il gruppo di supporto e dopo l’inizio vero e proprio. Già il fatto che un gruppo come gli Stadio abbia dedicato una canzone al fare l’amore durante un concerto rock è significativo circa l’inopportunità di tale pratica. Diciamo NO anche ai gruppi di supporto, che a parte i Bloc Party prima degli Interpol non ricordo di aver mai ascoltato con pazienza la band apripista della serata per la quale ho pagato fior fior di quattrini. Soprattutto in ambito locale: se già trovare un concerto di un artista italiano valido è una rarità, figuriamoci se chi apre la serata è all’altezza. Per esempio, ieri sera al concerto di Caparezza a Sesto S. Giovanni, che già pur con il bene che gli voglio si è trattato di un momento artistico di qualità ma comunque sempre molto calato nel nostro metro quadro di italianità, non vi dico l’inutilità dei Rezophonic dei quali pur apprezzando il valore dell’iniziativa, musicalmente sono abbastanza una merda che ti sembrano i gruppetti di cover nei quali hai smesso di suonare a vent’anni. Diciamo NO a quelli che non conoscono i pezzi e che tutto sommato non gliene fotte niente nel concerto, ci vanno perché ci devono andare e assistere a Sting o a Biagio Antonacci è la stessa cosa. Ne parla il web e allora devono presenziare. Poi si mettono fermi come statue e passano il tempo a chiedersi che cosa ci fanno lì e a rispondersi che comunque devono divertirsi. Diciamo NO a quelli che conoscono i pezzi e li cantano ma sbagliano le strofe e le parole, un classico che a trovarseli di fianco ti viene da farti rimborsare il biglietto. Diciamo NO anche a chi ti fuma vicino anche se il concerto è all’aperto, e soprattutto a chi ti fuma vicino e non offre. Diciamo NO ai forzati del pogo, così chiudiamo il cerchio con quelli che ballano male e fuori tempo. Quelli che pogano a ogni bpm, sia che il gruppo sul palco stia suonando un pezzo a media velocità che un brano velocissimo. Il pogo per loro è una forma mentis, esprimere il corpo con il movimento è solo spintonare i presenti nel proprio raggio di azione, complice il tasso alcolico. E diciamo NO ai concerti dopo i 40 anni, va. Che a vedere tutti ‘sti nemmeno ventenni che si divertono senza tanti problemi uno si rovina anche la serata.
jam session
StandardCarletto ha chiesto e ottenuto dalla mamma il permesso per andare al primo concerto della sua vita. L’idea è stata tutta sua: ha notato un manifesto sul muro del palazzetto tornando da basket, ha coinvolto un paio di compagni di classe e in quattro e quattr’otto il progetto ha preso corpo. “Facciamoci coraggio”, si sono detti, “i nostri genitori non possono dirci di no. Abbiamo 13 anni, siamo grandi”. Così, il pomeriggio stesso, i ragazzi hanno preso di petto l’unico vero ostacolo. Ed è stato più semplice del previsto. Il concerto in fondo è di Edoardo Bennato, non stiamo parlando dei Clash, e si terrà nello stadio comunale, mica a Bologna, a poche fermate di autobus dalla casa di Carletto. Il periodo stesso, siamo a maggio inoltrato e l’anno scolastico è agli sgoccioli, invoglia alla permessività. “E sia”, dice il papà di Carletto, aggiungendo una valanga di raccomandazioni del caso: no passaggi in auto, no sigarette da sconosciuti, no bevande e cibi da nessuno, no parlare con ragazzi che sembrano drogati eccetera eccetera.
La nonna regala a Carletto le cinquemila lire con cui comprare il biglietto del concerto; l’unica rivendita autorizzata è lo studio di una radio libera. Carletto così, al ritorno da scuola la mattina dopo, passa dalla radio – un appartamento sulla via di casa – e, tutto fiero, rientra tenendo stretto in mano il suo biglietto verde con su il disegno di un’armonica a bocca che, dopo averlo mostrato con orgoglio ai familiari, ripone con cura nel cassetto della scrivania.
Giunge infine il giorno dell’evento, infrasettimanale. Carletto è pieno di dubbi: come ci si comporta a un concerto? Si sta in piedi o seduti? Si può cantare o no? Ci saranno ragazze carine? Non biasimatelo, è il primo concerto della sua vita. La nonna di Carletto, che lo vede un po’ in ansia, è la più preoccupata di tutti e, ancora meno esperta di happening di musica rock (Bennato ha appena pubblicato Il rock di Capitan Uncino, è molto più rock di altri sedicenti rockerz) fa domande poco pertinenti: “Ma se esci prima di cena dove mangi? Ti preparo qualcosa da portarti al concerto?”. Carletto ha la soluzione: mangerà un sostanzioso panino a merenda, prima di uscire. “Sì, ma comunque ti do un sacchetto con un po’ di ciliegie”. Con la nonna non si discute.
Ed ecco Carletto e suoi compagni di classe alla conquista del mondo. Jeans e maglietta, Carletto con un sacchetto di carta del panettiere pieno di dolcissimi frutti rossi. Lui e i suoi coetanei ne smangiucchiano un po’, ma ci sono troppe cose da scoprire intorno. Sono quasi tutti più grandi ma non importa. I cancelli sono ancora chiusi, la gente continua a confluire verso il campo sportivo. E, a dire la verità, ne confluisce un po’ troppa. Un paio di ore in piedi quindi i cancelli si aprono, e solo a quel punto Carletto comprende il concetto di calca. Piccolo e magro, come i suoi amici del resto, resta immediatamente inglobato in quella pressa umana e per circa venti lunghissimi minuti, schiacciato da ogni parte, tenta di far valere la propria volontà nella direzione da prendere per tentare l’ingresso allo stadio, senza successo. È la folla che comanda, è la folla che si plasma e si comprime per passare nel collo di bottiglia dei cancelli, per poi essere sputata al di là del servizio d’ordine che, dopo una distratta occhiata al biglietto, consente l’accesso a quel salto di qualità, il mondo dei grandi. Dal subbuteo ai concerti. Wow.
L’erba del campo sportivo, anche quella è una prima volta, è perfetta e regolata ovunque, ma lo sarà ancora per poco: la gente è davvero tantissima. Carletto e gli amici trovano a malapena posto e si siedono. “Hai i pantaloni macchiati”. Carletto si guarda i jeans, sul lato destro: la coscia è bagnata e tutta sporca di rosso. Già, il sacchetto colmo di ciliegie non ha ovviamente retto alla massa all’ingresso, Carletto era talmente impegnato a inspirare ed espirare che non si è curato di quello che portava con sé. Le ciliegie non sono uno spuntino da rocker. Carletto si avvia per liberarsi di quel che resta di un sacchetto di carta zuppo di qualcosa che sembra una marmellata e innalza, passo dopo passo verso il contenitore della spazzatura, la prima barriera adolescenziale nei confronti degli adulti. Il primo scontro sta per accadere. Nessuno, lì intorno, avrebbe mai portato le ciliegie a un concerto.
un amore di gruppo
StandardHo deciso che se rinasco e mi viene data l’opportunità di rifare tutto da capo, cosa di per sè molto probabile, non cambio la mia vita nemmeno di una virgola se non alla voce “hobby e interessi”. Già. Penso che anziché imparare a suonare uno strumento musicale, nel mio caso pianoforte, tastiere, sintetizzatori analogici e ogni diavoleria sonora immessa sul mercato con l’avvento del digitale, connettibile al pc tramite interfaccia midi, prima, e usb, in tempi più recenti, mi dedicherò a un passatempo meno costoso, che so, la Formula Uno, e meno carico di aspettative, che so, fare il blogger. Anzi, ho intenzione di scrivere una lettera a mia figlia, nella quale spiegare che è meglio dedicarsi allo sport, alla lettura, ad amicizie normali e ad attività più salubri, rispetto a contornarsi di idioti perditempo (non solo batteristi) con i quali passare serate in scantinati e garage dall’inconfondibile fraganza di muffa, rincorrere personaggi dubbi quali organizzatori di concerti, impresari e discografici con cui si è disposti a scendere a ogni compromesso, e sognare una vita facile fatta di tour intorno al mondo e grupies consenzienti. Caro sangue nel mio sangue, ecco una lista alla Saviano di tutto quello che, se mi dai retta, nella buona e nella cattiva sorte potresti risparmiarti. Fai tesoro di quello che ha passato papà, e continua con scoutismo, yoga, pallavolo e nuoto, che ce n’è già abbastanza.
In ordine sparso: gestori di locali che non vogliono pagarti a fine serata; chilometri macinati in furgone, stipati come sardine tra corpi sudati, piedi puzzolenti e ampli polverosi (nel peggiore dei casi aste dei piatti che crollano addosso ad ogni frenata); numero di spettatori inferiore a quello di persone sul palco; tecnici del suono metallari residenti, non avvezzi all’amplificazione dei synth analogici; pomodori che lanciati dal pubblico fanno centro sulla tua maglia, nella piazza principale della tua città; cantanti che non si ricordano i testi; batteristi che non si ricordano la struttura dei pezzi, con i quali devi instaurare un sistema di messaggistica anticipata fatta di sguardi e curvature dell’arcata sopraccigliare.
Un bicchiere di vino bianco fresco e quattro chiacchiere piacevoli con Mara Redeghieri, a tavola il giorno dopo un concerto; chitarristi che si alzano di un paio di tacche rispetto al sound check; batteristi ostinati che considerano l’uso del metronomo un affronto ai loro studi jazzistici e prendono i pezzi ad un bpm totalmente aleatorio; fidanzate che passano dal cantante al tastierista e poi di nuovo al cantante, causando lo scioglimento del gruppo; gelati mangiati in autogrill prima di arrivare alla cassa.
Quelle sagome dei Tiro Mancino; pastori tedeschi della finanza che non ne vogliono sapere di uscire dal furgone fermo al posto di blocco, mentre fuori fa freddo e sono le 4 del mattino e vorresti tornare a casa, ma l’odore nell’abitacolo è inequivocabile; i materassi, riciclati chissà da chi, sui quali devi stenderti, se la paga è il rimborso minimo ovvero essere ospitati in un centro sociale; i bagni del centro sociale; il centro sociale; Carmen Consoli che prova i pezzi nel camerino con la chitarra acustica; i fattoni che ballano sotto il palco canzoni che sentono solo loro; il pubblico francese, misto, multietnico e di tutte le età, che sta ad ascoltarti malgrado il tuo sound tenda al punk noise industriale perché comunque è la festa della musica, ed è una festa; le serate di cover per tirare su qualche lira, oggi euro nelle tribute band; i turnisti che suonano senza cuore; i turnisti che suonano però meglio di tutti e che non riesci a convincere a sposare la causa; Luca De Gennaro e Paolo Conforti che ti fanno passare la voglia di frequentare l’ambiente dei gruppi underground.
I chitarristi punk morti di overdose; i chitarristi punk che prendono il metadone; quelli che suonano in canottiera; quelli che si presentano al concerto nel locale figo vestiti da ufficio; i genitori del più giovane della band che hanno la tua età; le sbronze prima del concerto; le sbronze durante il concerto; le vomitate dopo il concerto; le congestioni prese a fumare fuori dal locale in pieno inverno; Cecchetto che cazzia brutalmente regista e presentatore della trasmissione radio alla quale devi rilasciare l’intervista per un buio di una manciata di secondi; cannare in pieno la parte di piano di Because the night; cannare in pieno l’inizio di piano di Virtual insanity; convincere gli altri che suonare i synth non significa essere un pianista; la SIAE che ti fa la multa; l’inaugurazione del locale dove vanno le modelle; Giuliano Palma e Aliosha con le modelle che hai visto la settimana prima all’inaugurazione del locale; i batteristi che votano Bossi; mantenere una fedeltà alla linea; i parametri per essere considerato new wave.
Suoniamo prima dei Portishead, che poi significa suoniamo prima di un dj che ha aperto i concerti per i Portishead; Madaski che ti fa usare il suo mixer per le tue tastiere; la dinamica di diffusione di una rissa nel locale, che assomiglia alla meiosi cellulare; la pioggia che ti fa saltare il concerto e la paga della serata; Piero Pelù che viene nei camerini della Flog a complimentarsi con il tuo cantante; il liscio per mettere insieme uno stipendio; il furgone sepolto dalla neve, che ti costringe a tornare a casa in treno la mattina di capodanno; l’affidabilità, questa sconosciuta; fare 300 chilometri per essere intervistato telefonicamente da un giornalista che abita a 5 minuti da casa tua.
L’umidità che fa impazzire i circuiti elettronici vintage; i problemi alla schiena dopo decenni di strumenti trasportati ripieni di circuiti elettronici vintage; chi paga la sala prove in ritardo; chi dorme con la tipa in sala prove; le prove di mattina; le interminabili sessioni di registrazione; le interminabili sessioni di missaggio; Roy Paci che dà una dritta al tuo trombettista; ringraziare mamma e papà sul booklet; i cantanti maledetti; i cantanti che poi si mettono a fare i solisti; i cantanti che se ne vanno; i cantanti.
Dulcis in fundo, una reminiscenza perfetta per la chiusura di un post, un amarcord per il quale una battuta di una riga non basta, un rilancio da usare con gli amici durante le discussioni alla io ce l’ho più lungo. Un episodio che si trova meritatamente nella top ten dei momenti storici della mia vita. Magari anche nella vostra, in questo caso potrete capirmi se sapete di cosa parlo. E ve la tirereste anche voi. Siete pronti per il (o la) climax?
Il primo maggio del 1996 ho aperto il concerto omonimo, in piazza San Giovanni, a Roma, davanti a una folla di 400mila persone. Persone sicuramente distratte, a cui eravamo sconosciuti, accaldate e bruciate dal sole. Ma pur sempre 400mila. E c’era Sting, quell’anno, che ha accennato Message in a bottle al sound check, illudendomi, e poi ha suonato le sue solite melense canzoni pop da solista, se ami qualcuno lascialo libero e similia, con il suo gruppo di virtuosi. Sting, che nei camerini, fottendosene di chi avrebbe voluto avvicinarlo e del volume della musica che arrivava dal palco, se ne stava sdraiato su una chaise longue a leggere un libro all’ombra delle sue guardie del corpo. E poi è arrivato il nostro momento, il palco tondo che ruota e ci sbatte in faccia quell’oceano di mani che salgono. Pochi minuti, il palco ruota ancora, questa volta verso le quinte, e già devi scendere. Tornare a casa. E finisce così. E pensi che sarà per la prossima vita.