a uso e consumo

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È facile dirlo come è altrettanto facile non farlo, pensi con la faccia standard di quello che presta attenzione e stringe lievemente gli occhi come a mettere a fuoco con maggior facilità il brief cui sta assistendo che ha il solo problema di essere stato preso alla larga, sin dagli uomini primitivi come si faceva alle medie quando si studiava poco e bisognava inquadrare al meglio almeno lo scenario se non si sapeva l’argomento dell’interrogazione. Qui siamo al lavoro, però, e l’intento è quello di carpire più elementi possibili al fine di giungere a una sintesi suprema, quelle due massimo tre parole che messe in fila dovranno dare vita al claim totale, cinquant’anni di storia aziendale riassunti in un unico fondamentale concetto, filosofia da sito e-commerce per consumatori hi-tech ipersensibili. Si fanno cenni assertivi con la testa, anche a sproposito ma è sempre meglio abbondare.

Così, Tratto Pen in una mano e Moleskine nell’altra, la sicurezza degli oggetti che quando clienti così te li vedono addosso si sentono in una botte di ferro perché sono gli strumenti del mestiere che infondono la serenità di trovarsi di fronte a uno specialista. Nero su bianco, anzi blu nel tuo caso, a mettere in modalità punti elenco – la forma mentis di chi utilizza Power Point anche per organizzare i pensieri lussuriosi – keyword di dubbia utilità, ognuna delle quali potrebbe anche essere scritta con lettere a caso, tanto non servirà a nulla.

Ma anche qui, chi ama raccontarsi e paga per farlo vuole aver di fronte un attento interlocutore pronto a cogliere spunti da tradurre in output creativi tanto da far dimenticare preventivi e stime di costo a spanne. Ed è facile dirlo come è altrettanto facile non farlo, tutto quello che si sta trasferendo da una memoria a un’altra non ha nessun valore ai fini pratici, non è di questo che si deve parlare ma c’è il timore che interrompendo si perda l’atmosfera da spot dell’Amaro Montenegro, gente che se la racconta con esperienza davanti al camino acceso senza tener conto dei danni all’ulcera e al fegato che l’alcool può recare.

Qui invece se si smarrisce il filo è un disastro, perché il sunto di quello che questa impresa produce è un software che trasforma software in altro software, così è importante che si parta dagli albori degli elaboratori elettronici per arrivare ad oggi e inventarsi per domani una nuova identità pronta a cogliere tutte le sfide sull’Internet che avremo un giorno, dove per parlare di applicativi web e tavolette di cioccolato si potranno usare le stesse parole, quelle che fanno venire l’acquolina in bocca a grandi e piccini.

perdere un pezzo raro

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Uno dei clienti più fedeli dell’agenzia è una scuola di formazione professionale, un’istituzione storica della città per la quale curiamo il sito web, realizziamo grafica per pubblicazioni varie e cataloghi ma, soprattutto, ogni anno di questi tempi, prepariamo la campagna pubblicitaria per le iscrizioni all’anno scolastico successivo. Così, verso i primi di luglio, ricevo la chiamata del responsabile dei corsi che mi chiede la disponibilità per un appuntamento presso la loro sede, per il brief. Il giorno stabilito, alla data indicata, quasi sempre nel primo pomeriggio, attraverso il centro di Milano a piedi per recarmi all’incontro, visto che si fa prima che con i mezzi. Alla riunione partecipano sia il responsabile dei corsi che l’ingegnere che dirige il centro, ultrasettantenne, liberale e davvero uomo di altri tempi. E ogni volta il brief è sempre lo stesso.

Gli aspetti su cui vogliono puntare per attirare i giovani studenti sono quelli, di lì non si scappa, al massimo c’è un elemento da porre in rilievo. Una volta sono i 160 anni della scuola, l’altra è il francobollo commemorativo, quest’anno è l’anno della chimica. E ogni volta mi viene chiesto di puntare su un linguaggio e uno stile per il loro target, che è sempre più distante da un certo tipo di formazione professionale. Ma io non demordo, è il mio lavoro essere creativo, e cerco di stupirli con diverse proposte. Una molto istituzionale, fedele al brief, a cui ne aggiungo una che fa sorridere, una trendy in linea con le scuole più blasonate (e costose), e una provocatoria. Lo faccio perché mi diverte e per tenermi in allenamento, anche se so già che sceglieranno quella molto istituzionale, con i colori e la scelta iconografica e il tono in linea con la storia della scuola. Quella in cui è evidenziata la parola “formazione”. Probabilmente non se la sentono di cambiare, occupano la loro nicchia, sempre quella, anno dopo anno.

E anche se mi piacerebbe poter sviluppare qualcosa di diverso, in fondo la prendo come una certezza, in un ambiente in cui non sai mai se il giorno dopo i clienti cambieranno agenzia o saranno acquisiti dal competitor giapponese per aumentare il marketshare distruggendo il patrimonio della concorrenza ma, ufficialmente, per fonderlo con il proprio, o non avranno più il budget per farti aggiornare i contenuti del loro sito o i video se li faranno fare centralmente e li distribuiranno sui canali italiani con una localizzazione – curata dalla corporate con copy del posto – imbarazzante. Le iscrizioni ai corsi, tutto sommato, vanno sempre bene.

Ma, quest’anno, qualcosa di veramente diverso c’è stato. L’ingegnere è diventato vedovo, ha perso la compagna di una vita e, durante il brief, non ha lesinato ricordi e aneddoti sulla moglie, che amava catalogare gli strumenti del laboratorio chimico di famiglia, veri pezzi da museo, e che stava riordinando soffitta e scantinato con l’intento di organizzare una collezione privata di reperti scientifici. Ora, nella mia grettezza, posso vantarmi del fatto che, a seguito della visione di Up, la vedovanza delle persone che trascorrono una vita insieme mi causa debacle emotive. E ho fatto fatica a trattenere lo sconforto quando l’ingegnere stesso, uomo di altri tempi, ha lasciato comprensibilmente trapelare un velo di commozione, ma solo un poco, in quel tempio della tecnica e della specializzazione professionale. Così porterò lo stesso la proposta che fa sorridere, quella trendy e quella provocatoria perché chissà, magari l’ingegnere ora bada un po’ meno al lato istituzionale delle cose.

comunicare è un’impresa non da poco

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Ecco, io vorrei che tutti i ragazzi che stanno per conseguire un diploma e stanno valutando quale facoltà o corso di studi scegliere per prepararsi al mondo del lavoro. O tutti quelli che hanno già una laurea, non trovano lavoro, e credono che così si possano aprire nuove opportunità. Le persone che fanno tutt’altro e sono ancora convinte che si tratti della disciplina del futuro (qui prendo spunto da un post di qualche giorno fa del caro Scorfano, un nick che vi assicuro non gli rende giustizia, se avesse contattato un esperto di naming di prodotto come il sottoscritto prima di sceglierlo lo avrei convinto a desistere). Ecco, a questa massa di ignari che credono che lavorare nella comunicazione aziendale sia un mestiere da fighi, che generi visibilità e, soprattutto, soldi, dico che vorrei che prima di fare una scelta così scellerata venissero in ufficio da me, un paio di giorni, giusto per vedere di che cosa si occupa l’agenzia di comunicazione media.

Perché ci sono le mega-agenzie fighe, che si sono accaparrate i clienti fighi, in genere il cosiddetto b2c, ovvero aziende che vendono direttamente ai consumatori. Dove quindi la comunicazione è pubblicitaria veramente, ti consente di spremere creatività e fantasia per fare iniziative su tutti i canali disponibili, non ultimo Internet. Parli alla testa e, più spesso, alla pancia del prossimo. In questo insieme è chiaro che, come ho già scritto non ricordo dove, c’è il Nespresso ma c’è anche la Lidl, voglio dire, non è detto che l’aspirante Mad Man si ritrovi ad aggiornare i contenuti dello stesso spot con le offerte sottocosto del momento. Puntate qui? In bocca al lupo.

C’è poi la bolgia delle agenzie che seguono il b2b, ovvero le aziende che vendono e quindi comunicano ad altre aziende, un girone infernale in cui vige la regola che donne e uomini, sul lavoro, sono un genere diverso rispetto agli stessi uomini e donne nella loro vita privata. Che un’impresa non è composta da persone, ma da entità nascoste dietro a un job title che vivono in una dimensione parallela. Una dimensione in cui è tutto business, ci si veste business, si pensa business. Così è nata e continua a sopravvivere una obsoleta convenzione per cui il tono della comunicazione b2b non deve essere diretto a persone, ma solo alle imprese.

Come se un CEO, un IT Manager o un Direttore Marketing, una volta a casa, non abbia gusti propri, cambi canale quando uno spot gli fa ribrezzo, scelga le proprie letture e i propri film secondo una sensibilità individuale. Sapete una cosa? In realtà l’organigramma è composto da persone in carne ed ossa, che capiscono benissimo il linguaggio della pubblicità. Vero, amici manager? A casa fate le stesse cose che faccio io, magari siete più abbienti (lo spero per voi), avete più scelta e siete meno vincolati ai costi dell’entertainment, per esempio. E non è che in ufficio cambiate parametri di giudizio sulle persone e sulle cose, giusto? Siete sempre voi stessi. Un po’ più seri perché lo impone l’etichetta del business. Ma sempre voi stessi.

Malgrado ciò, è impossibile cambiare meccanismi consolidati. Faccio un esempio, la prima cosa che mi viene in mente. Se vai da un cliente e gli consigli di ricreare una situazione del genere


per presentare un loro prodotto al loro cliente, anziché una trita slide di PowerPoint, ti mettono immediatamente alla porta. Costa di più, però che diamine, vuoi mettere l’effetto? Magari la persona a cui ti presenti è un fan di Bob Dylan e il gioco è fatto. Invece no. Tutte le aziende sono leader nel loro settore, sono innovatrici per tradizione, sanno calarsi perfettamente nella realtà del cliente, hanno una vision lungimirante. Tutto così standard. Eccheppalle.

Chi vuole lavorare in comunicazione, e ammesso che trovi un lavoro nel settore lo troverà molto probabilmente in una agenzia come la mia, deve essere pronto alla più statica bassa manovalanza creativa. Trovare la stessa idea che ha già in mente il cliente, che pur assomigliando alla sua realtà è comunque la stessa che ha visto già altrove, quindi concretizzarla secondo i suoi gusti, e non quelli delle persone a cui tale comunicazione deve arrivare. E su Internet il problema non cambia di molto, anzi, il contrasto tra obsolescenza e modernità dello scenario è ancora più stridente.

le brochure che non ti ho scritto

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Comunicare per le aziende è una bella sfida. Intanto perché raramente le aziende si fidano ciecamente di te, anzi di me, diciamo dell’agenzia in cui lavoro, pur avendoci scelto. Magari è un problema nostro e non ci siamo mai conquistati completamente la stima del cliente, che invece dovrebbe lasciar fare alla struttura da cui compra consulenza. Se chiamo un elettricista, già che lo pago, non gli dico come farmi un nuovo punto luce. Così, quasi mai ti lasciano carta bianca su cosa comunicare e come farlo.

Nel caso di aziende multinazionali, è ancora più difficile. Ci sono già linee guida marketing a priori decise da persone che sicuramente ne sanno più di tutti, e che non mi permetto di discutere. Poi ci sono i marketing manager locali, qui il discorso si fa più complesso. Insomma, si deve sempre lavorare a quattro o sei mani e alla fine il risultato è sempre un ibrido, meno efficace di quanto lo sarebbe se a lavorarci ci fosse solo l’esperto in comunicazione aziendale, che saremmo noi. Il problema è che il marketing vuole dire la sua, ma il marketing non è la comunicazione anche se si tende a unificare le due funzioni. Diciamo che il marketing decide gli obiettivi, la comunicazione inventa la forma e il contenuto per raggiungerli. Tu, azienda, non dovresti dirmi “mi serve una brochure aziendale”, perché a me verrebbe da risponderti “guarda che nel 2011 le brochure aziendali non se le i****a più nessuno”, ma so già che tu mi diresti “fammi la brochure aziendale lo stesso”. Tu, azienda, nel momento in cui mi scegli come tua agenzia di comunicazione, dovresti chiedermi “quale strumento mi consigli di realizzare per comunicare i miei punti di forza?”, e io ti farei un paio di proposte, non di certo un quartino patinato e autoreferenziale per farti bello con il tuo AD, perché non ti porterebbe un centesimo di fatturato in più.

Questo nel migliore dei casi. Nel peggiore, un giorno arriva al marketing uno che crede di avere qualche esperienza di comunicazione, e decide che gli stai sulle palle. Magari a ragione, come dice una mia amica “magica”, tutta questione di hi-fi, di vibrazioni positive e negative, di come le senti. Da qui chissà che tipo di vibrazioni escono, ma non ha più importanza: ora questo nuovo tizio ha messo un bello strato di materiale refrattario sulla porta del suo ufficio, e stop. Sono subentrate altre agenzie, la scelta ripeto è sacrosanta, per carità. Giusto così, la competitività rende più grintosi e ti costringe a rinnovarti sempre, e poi il budget è tuo. Ma, cazzo, finirà il tuo contratto di sostituzione di maternità, prima o poi.

stampato maiuscolo

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Il marketing on line ha i suoi vantaggi, per carità. Ma il fascino di un adv a tutta pagina sul giornale è impareggiabile, specie se capita di farlo dopo anni passati a inventare comunicazione aziendale adatta a Internet. Mi fa sentire un copy d’altri tempi.

companytelling

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Mia mamma, 73 anni, non ha ancora ben capito in cosa consista il mio lavoro, benché io mi occupi più o meno della stessa cosa da oltre 15 anni. Probabilmente, non essendo chiaro nemmeno a me, non sono mai stato esaustivo con lei. In più, sebbene i dati della penetrazione di Internet e le nuove tecnologie nella terza età confermino un trend di crescita, mia mamma appartiene ancora a quella fetta di âgé che, parlando al telefono, aumentano il tono della voce maggiore è la distanza che li separa dall’interlocutore. Ancora a disagio con le vecchie tecnologie, le nuove – la cui curva di apprendimento sembra essere comunque più rapida rispetto a un forno a microonde, per esempio – sono ancora fuori portata. Ma, al di là del mezzo, c’è anche un problema di messaggio. E per un permalosone che si occupa di contenuti, un affronto materno può essere deleterio per l’autostima, più che qualsiasi altra cosa. Sentite qui.

Ospito la mamma da me per un paio di giorni, in attesa di un ricovero in una delle strutture del sistema sanitario lombardo (che a un ligure fanno ancora l’impressione di una visita con il Dottor Spock sull’Enterprise). In attesa di consumare una frugale cena, mi chiede di mostrarle “una delle riviste su cui scrivo”. E, vi giuro, non ho mai gonfiato la portata della mia attività, non sono un millantatore né un fanfarone (almeno non con la mia mamma). Non mi sono mai dichiarato giornalista.

Il mio mestiere di copy consiste principalmente nel raccontare le aziende. Sintetizzare ed esplodere attività, tradurre il lavoro altrui in un linguaggio comprensibile a profani e a sacri, volevo dire agli addetti. Tutto questo principalmente in ambito ICT. C’è un ma. Purtroppo si tratta di un mercato saturo, ed è facile immaginare il perché. E, soprattutto, in momenti in cui diminuisce il lavoro altrui c’è ben poco di cui parlare. L’umore è così crollato improvvisamente, e allora ho fatto finta. Giusto per tirarmela un po’, le ho mostrato questa pagina Internet, quella che state vedendo, ma come si presentava ieri sera, prima di scrivere il qui presente post. “Mamma, sono un bloggher“. “Ah. E sono queste le cose che scrivi per la C…o?”.

Colto in fallo, identificata l’informazione mendace, il bug di quella comunicazione, sono arrossito. Mia madre si ricorda del mio principale cliente, probabilmente perché vede le pubblicità alla tivvù, da quando è diventato consumer. Ma, cosa più importante, mia mamma si accorge se suo figlio le dice o meno la verità. Così sono andato sul sito della C…o, nella sezione case study, e lo mostrato un po’ di customer testimonial e i video a corredo che ho realizzato nell’agenzia in cui lavoro. “Ah“, ha ripetuto. A quel punto Fabio Fazio ha chiamato in scena Luciana Littizzetto, mia mamma ha tolto le lenti bifocali e non ha più badato al frutto del mio lavoro, evitandomi una lunga spiegazione su tematiche quali collaboration e unified communication. E lì ho pensato che il marketing non può nulla contro l’entertainment. Chissà, forse di fronte a un post come questo nulla l’avrebbe distratta. Chissà.