se l’autovelox è un fotofinish

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E poi non è che uno esce alla mattina con un cartello grande così sulla schiena con su scritto “odio tutti”, per questo non vale nemmeno l’opposto “ce l’hanno tutti con me”. Il mondo non è una gara, una specie di omni-thlon dove il bisogno di superare gli altri supera noi stessi, ché non dobbiamo essere secondi a nessuno, tantomeno ai nostri impulsi animali. Conosco uno che quando si sveglia e si sente cattivo, o meglio, una brutta persona, si guarda allo specchio e dice di ritrovarsi riflessa l’Italia che c’è in lui. Ma ci sono i giorni – vero? – in cui casa nostra è una caverna e ci sembra di uscire con la clava perché i pericoli si annidano dovunque. Quindi ci sentiamo in dovere di giustificare qualunque gesto con il nostro istinto di sopravvivenza non agevolando l’immissione da destra nelle superstrade congestionate dal traffico, quando la coda ci consente al massimo il passo d’uomo ma l’uomo che vive nell’abitacolo rivale fa parte del resto del mondo conosciuto con cui, manco a farlo apposta, quella mattina siamo in guerra. Per non parlare dei confronti al millesimo di millimetro in prossimità dei caselli, irrispettosi delle corsie canalizzatrici disegnate proprio con l’obiettivo di farci arrivare magari non primi ma per lo meno indenni al nostro sistema di pagamento preferito. Quelli che sono a metà e che vorrebbero fotterci il posto sono un anello sopra di noi nella catena alimentare, e quando non è giornata cerchiamo di ristabilire le giuste gerarchie.

E se ci pensate bene, tutta questa metafora autostradale fila che un piacere, magari un po’ meno nelle ore di punta e nel weekend quando andate al mare, proprio come tutti i milioni di altri con i quali ce l’avete perché sono un ostacolo alla vostra voglia di ottimizzare il tempo libero andando il più veloce possibile verso la meta. Quante volte usiamo segnali nella nostra quotidianità, come lampeggiare con gli abbaglianti al futuro che sta davanti e a cui chiediamo di farsi da parte tanto è lento. Non venite a raccontarmi che non vi capita di procedere nella terza corsia – quella più a sinistra – per lasciarvi dietro tutto il resto che tanto non riuscite nemmeno a vederlo se non riflesso nello specchietto, mentre si ha tutto il tempo di osservare le porzioni in eccesso allontanarsi come sfondo di chi viaggia al nostro fianco nel massimo del confort. Il climatizzatore personalizzato per ogni sedile, quelli dietro con il tablet incorporato, un unico connettore per i dispositivi audio che al giorno d’oggi l’iPhone fa tutto lui. Navigatore, autoradio, computer di bordo. Abbiamo bisogno sempre di più spazio e ma allo stesso tempo cerchiamo di tenerci ben saldi alle nostre radici che ci seguono in questa corsa in cui, con la scusa della sicurezza, ci siamo allargati a torto ma impuniti.

se vale la candela

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Ebbene si, lo confesso: ho provato l’ebbrezza del branco. Tutto è nato così, un po’ per caso, succede quando sei in un gruppo di persone e sorge quello stato d’animo che è un insieme di compiacimento tra pari, campanilismo e desiderio di sfogare la difficoltà nell’imporsi attraverso la logica dell’unione fa la forza, il tutto applicato a un piano tutto sommato diabolico. Perché sei lì con la mente fresca e libera dal logorio del lavoro e della routine, quindi lasci spazio a stimoli viscerali che altrimenti le convenzioni sociali relegano magari non proprio al basso ventre ma comunque a livelli infimi della tua natura. Che non è una natura competitiva, anzi, vivi forte dell’orgoglio di distinguere il momento in cui è opportuno farsi da parte, tu che tra la gioia della vittoria e l’amarezza della sconfitta preferisci continuare a non partecipare. E così, per una volta, quando vedi che effettivamente con il lavoro di squadra è possibile emergere o addirittura primeggiare, il tuo equilibrio va a quel paese e il passo verso il tirarsela e il bullarsi è breve.

L’uomo dà il peggio di sé quando è in branco, e quando il branco in cui si riconosce è coinvolto in una specie di concorso nel luogo in cui sta consumando le vacanze estive. Il concorso è una sorta di trivial pursuit, domande di varie discipline su livelli di difficoltà crescenti, da quello base ai quesiti molto complessi. C’è un maestro di cerimonie, un presentatore lì davanti, un simil-fiorello che spiega le regole e le modalità. Noi ci si dà uno sguardo complice, diamo anche un’occhiata agli altri gruppi che ci stanno intorno e che hanno deciso di mettersi in gioco; perché no, ci diciamo, e uno del branco si fa consegnare il diabolico strumento per dare le risposte. Un telecomando con cinque pulsanti, occorre premere quello corrispondente alla risposta esatta e nel minor tempo possibile. A quel punto siamo nel momento ludico, ma il momento ludico si trasforma subito in gara, e la gara in desiderio di vittoria a tutti i costi. Perché il primo premio comprende un sacco a pelo, e il sacco a pelo è la cosa più preziosa che un campeggiatore può possedere.

In tutto partecipano una trentina di squadre, ma noi siamo determinatissimi e cattivi. Che pessimo esempio per i bambini, i nostri figli, gli stessi ai quali insegniamo, durante i restanti mesi dell’anno, a non essere egoisti, a rispettare il prossimo, alla sconfitta come frutto inevitabile da assaporare prima o poi, al fair play. Mentre ora siamo lì, con quello strumento in pugno e stiamo dando il peggio di noi stessi. Già, man mano che il gioco procede, il nostro punteggio aumenta, diamo sempre la risposta corretta in tempi sufficientemente brevi. Dileggiamo gli avversari. Ci diciamo che contro squadre così dobbiamo vincere a tutti i costi. Viene a galla il senso di superiorità. Facciamo nostre le domande più difficili, geografia, storia, letteratura, e cadiamo solo sugli argomenti su cui siamo poco informati, la nazionalità di Sissoko, il protagonista della fiction dell’odiata Mediaset.

La boria aumenta, la vittoria è vicina, uno di noi dice che dobbiamo assolutamente farcela. E quando il count down della classifica finale svela il nostro numero identificativo confermato alla prima posizione, esultiamo come i peggiori individui, quelli che la nostra presunta superiorità morale ci impone di mettere all’indice in tutte le altre occasioni e che, chiusa questa parentesi aperta per necessità, la necessità del sacco a pelo nuovo di pacca, tornerà a farci lanciare anatemi e condanne su chi parcheggia in doppia fila, su chi si riempie di tatuaggi, su chi si compra il macchinone e via dicendo. Il capo branco ritira i premi, c’è anche una sedia da spiaggia, tutta rossa con la bandiera della Sardegna, e a colpi di cinque e di pacche sulle spalle rientriamo in tenda. Mia figlia mi tiene per mano, tutta contenta, ed ecco che mi vergogno un po’, perché mi sento snaturato di fronte a lei. Papà, mi dice, papà sono felice perché è la prima volta nella mia vita che vinco un premio. Anche io tesoro, le dico, anche io.