Controllo l’ora, sempre quella. Qualche minuto prima programmi e finestre sul desktop iniziano a chiudersi con l’effetto delle luci che si spengono progressivamente in un locale ampio ed esteso, in cui file di neon sul soffitto sono collegate a interruttori diversi e l’effetto è progressivo. Arrestare il sistema è una cosa che mi è sempre piaciuta perché, avulso da Windows, è un modo di dire ribelle e anarchico. Arrestare il sistema potrebbe essere il sogno di adolescenti incappucciati con felpe e zainetto nero pronti a prendere a spranghe ottusi bancomat rei di dare soldi solo a chi ce li ha. Il controllo più importante però è sugli effetti personali. Il portafoglio che è la cosa più importante. Lo smartphone che è la cosa più importante. Le chiavi perché sono la cosa più importante. Sistemato ciascun elemento nel rispettivo spazio dedicato al suo contenimento, meglio fare un secondo check. Per esempio mi ci vorrebbe un paio d’occhiali per trovare gli occhiali da videoterminale (che termine d’antan, vero?) che si mimetizzano con la scrivania. Gli occhiali da videoterminale vanno nell’apposito box che sistemo nella tasca esterna dello zaino, insieme al libro. Le chiavi nella tasca destra della giacca. Lo smartphone in quella sinistra, con gli auricolari che escono e s’infilano nelle orecchie. Il portafoglio a fare il bozzo nella tasca anteriore dei pantaloni. Solo a quel punto la via è libera, e ammetto che invecchiando anche abbandonare l’ufficio a se stesso mi genera quei tre quattro minuti di pensieri malinconici. L’aziendalismo ormai è un fattore anagrafico: con il turn-over causato dalla precarietà e dalla dinamicità imposta ai più giovani, affezionarsi al proprio ambiente lavorativo è pressoché impossibile. Fuori c’è il buio e c’è la nebbia, ci sono le insegne luminose, i fari delle auto che passano e il fumo che esce dal naso di chi cammina con la lena che si richiede quando c’è un tram o la metropolitana da non perdere. In fila alla fermata del passante ferroviario le solite facce. Seduto nella carrozza ancora visi famigliari, la routine è un fattore comune, è il loop grazie al quale sopravviviamo in un sistema lineare che ha un inizio e una fine. Girando su noi stessi ci sembra di rallentare, finché si riesce. O almeno ci illudiamo. Qualche pagina di libro e poi l’oblio, il sonno, la testa che cade, le mani che cedono, il libro che cade sulle ginocchia, gli altri passeggeri che non ridono nemmeno più delle gag involontarie di chi trasforma i mezzi pubblici in dormitori provvisori. Quando il miracolo si avvera – addormentarsi da seduti non è una qualità per tutti – c’è sempre un orologio geolocalizzatore che incrocia la fermata del convoglio con l’ora esatta e mi fa saltare su. Sveglio, ritrovo le voci che mi avevano lasciato prima dell’abbiocco e che con molta probabilità non hanno mai taciuto. Tutti parlano, e il dialogo con altri presenti non è nemmeno il peggiore dei mali. Ancora musica per coprire la distanza tra la stazione e casa ma ormai i giochi sono fatti. Il ritorno si compie con l’ultima mandata della chiave nella serratura, la luce che irrompe nell’ingresso che coincide con il soggiorno che coincide con la cucina a vista. I gatti che percepiscono l’arrivo dell’addetto all’approvvigionamento già dal rumore dell’ascensore, o forse dal portone che si chiude, o magari dai passi in strada, chissà. Il ritorno, in fondo, è il vero inizio. Anzi, il ritorno è la vera partenza.
casa
piccola storia imu
StandardPioveva, ero triste, ero bollito dopo una mattinata frenetica in ufficio e mi stavo recando in auto dall’altra parte della città, presso lo studio di un fornitore in cui avrei dovuto trascorrere un pomeriggio di lavoro altrettanto snervante. La direttrice da percorrere prevedeva il transito nei pressi di casa mia, avevo mezz’ora di anticipo per l’incontro ed era più o meno l’ora di pranzo. Potevo fermarmi nel primo autogrill sulla strada e farmi fare un panino. Potevo uscire dalla tangenziale e attraversare il centro del paese, sicuramente una panetteria aperta dove acquistare un pezzo di pizza per riempire lo stomaco al volo l’avrei trovata. Poi l’illuminazione. Gli avanzi della cena della sera precedente nel frigo, la possibilità di pranzare con qualcosa di più sano di un pasto cucinato in serie, una manciata di euro risparmiati da una spesa superflua. Non ci ho pensato due volte, ho messo la freccia e mi sono diretto verso la mia abitazione. Il tempo impiegato sarebbe stato lo stesso. Il paese dormitorio era deserto, ho parcheggiato in strada e percorso in tutta fretta quei pochi metri che mi separavano dal cancello, riparandomi sotto l’ombrello Ikea che è quello che mi è durato più tempo di tutti. Sono entrato, ho dato due mandate alla porta, avevo poco più di dieci minuti. Non mi sono nemmeno tolto le scarpe, e per non sporcare troppo sono rimasto nei pochi metri quadrati tra l’ingresso, il frigo, il microonde. Mi sono messo a mangiare in piedi, ma non mi sono sentito a disagio. Non mi sono sentito nemmeno di fretta. Da lì si vedono quasi tutte le stanze. La casa era vuota, pochissima luce visto il tempaccio là fuori, i gatti hanno fatto capolino per assistere all’evento straordinario. Qualcuno che è presente in un giorno feriale, alle due del pomeriggio, in cucina. Mentre consumavo quel poco rimasto dalla cena della sera prima mi sono guardato intorno e nel silenzio ho pensato quanto fosse bello avere una casa propria. Da dove nasca il desiderio, a una certa età, di avere un luogo unico in cui raccogliere le proprie cose, le persone importanti, la propria vita. Da dove venga il bisogno del possesso e della proprietà privata. Quanto sia un privilegio e quanto sia difficile da ottenere, voglio dire che se come me non siete ricchi, quelle quattro mura ve le siete pagate con il vostro lavoro. E quanto sia insostenibile, a volte, capire perché nella propria casa siamo costretti a starci così poco, la maggior parte della nostra esistenza la passiamo altrove. Ecco perché poi alla fine devi pagarci le tasse su, anche se è una catapecchia è il concetto in sé che è un vero lusso.
dolce casa
StandardAbbiamo bevuto un cappuccino in fretta, il bar della stazione di servizio è come al solito preso d’assalto dalle comitive di turisti provenienti dall’est, né mia moglie ne io siamo degli esempi di tolleranza alle resse, ormai siamo persone di una certa età. Abbiamo tentennato sino all’ultimo per decidere se fosse meglio affrontare il viaggio in automobile o utilizzare il treno. Io preferisco il treno, in genere, perché ormai guidare mi stressa soprattutto per i viaggi lunghi, anche solo di un paio d’ore, quando oltre la distanza subentra la fatica di stare seduto, tenere le mani al volante a lungo. Mia moglie invece preferisce l’auto, e alla fine mi convinco anche io a patto che ci si fermi a metà strada, un minimo di ristoro, una visita in bagno. Poi però la fretta di arrivare prevale sempre, e la sosta dura sempre una manciata di minuti, la consumazione al bar che è sempre tiepida, il clamore e il fastidio degli entusiasmi delle trasferte altrui o di chi viaggia per lavoro e non sa di che parlare se non delle cose che vendono gli autogrill e non si vedono altrove.
L’idea era venuta a me, ma si trattava di un’esperienza che avevo pianificato da tempo. Ci avevo pensato la prima volta a venticinque anni o giù di lì, quando rientrando a casa – la casa in cui avevo vissuto fino a qualche mese prima – avevo notato nell’androne del condominio i pezzi smontati del vecchio letto matrimoniale e dell’armadio della camera dei miei genitori, quella che da sempre era rimasta al suo posto e la cui presenza davo per scontato. Ma dopo che li avevo lasciati, avevano pensato a dotarsi di qualche comodità in più a rinnovare un po’ l’ambiente in cui vivevano, in concomitanza con i vuoti affettivi che si erano creati, a partire da una nuova camera da letto. Io me l’ero presa con la loro fretta di fare piazza pulita del passato, non capivo che urgenza ci fosse, anzi la capivo ma era come se si disfacessero di qualcosa che era anche mio anche se ora non ero più fisicamente lì a controllare ogni giorno che tutto fosse al suo posto. E avevo anche fantasticato su come sarebbe stato recarmi in visita in quell’appartamento da vecchio, quando i miei non ci sarebbero stati più, e quelle stanze sarebbero state affittate da chissà chi. Lo considerai un impegno, e decisi di non rimuovere mai più quel proponimento.
La seconda volta ci avevo pensato una mattina d’inverno, sul treno che mi stava portando in ufficio, provato da un riscaldamento irrazionale e tutto preso da un libro di DeLillo. Una ragazza, al telefono, stava raccontando a un’amica di aver stretto amicizia per caso, mentre era in fila per rinnovare l’abbonamento, con un’anziana signora che ora abitava il vecchio stabile in cui sua mamma era nata e cresciuta. Si meravigliava per la coincidenza e non vedeva l’ora di metterle in contatto per consentire alla madre una visita ai luoghi natii. Ricordo che avevo interrotto la lettura, cosa che sul treno mi capitava spesso, non è facile concentrarsi tra tutte quelle comunicazioni personali. Avevo riflettuto sulle possibilità che la madre non avesse granché desiderio di ritornare nelle stanze della sua infanzia, magari aveva subito maltrattamenti, era cresciuta nella miseria, oppure semplicemente come difesa dall’essere sommersa dalla commozione, a una certa età fa male. Poi però ricordo di aver ricondotto quella conversazione a quell’altro episodio precedente, quella sorta di promessa che mi ero fatto. Quindi mi ero segnato tutto sul taccuino, quello che portavo sempre con me per appuntarmi le cose che vedevo e i passaggi più toccanti dei romanzi che divoravo, e addirittura ne scrissi un post, ai tempi tenevo un blog come quasi tutti quelli che conoscevo che facevano il mio mestiere.
Penso alla chiusura del cerchio, la resa dei conti, mentre risaliamo nell’abitacolo della vettura. Mia moglie ed io ci avviamo così per l’ultimo tratto del viaggio, che poi è la parte più bella perché sbuchi fuori dall’appennino e a un certo punto vedi il mare, che è quello che mia moglie preferisce prima del pezzo finale che, non ho mai capito perché, ritiene sia il più faticoso, malgrado siano una manciata di chilometri. Forse si riferisce alle curve, o a quel punto si ha solo voglia di arrivare e non ti passa più. Ci scambiamo impressioni sul fatto che ormai nostra figlia è distante, ha la sua vita, e trovare il tempo per organizzare questa gita di cui so già che mi pentirò non è stato difficile. Ha giocato a mio favore l’aver rintracciato facilmente i nuovi inquilini, la famiglia del figlio di un mio vecchio amico, i quali si sono prestati senza problemi ad accontentare un anziano milanese in pensione.
La città è sempre la stessa, è sempre stata la stessa e ce lo dicevamo sempre quando trascorrevamo i fine settimana in visita qui, e io le raccontavo di come fosse sempre stata uguale, che non ci sarebbe stata mai nessuna possibilità, e chissà come sarà ora. Mentre parcheggio l’automobile, lei mi ricorda di comprare un po’ di focaccia come eravamo soliti fare, anche se adesso so già che mi risulta pesante, non è che digerisca l’olio così facilmente. Il portone è diverso da come ce lo ricordavamo, non c’è nemmeno più la farmacia a fianco, dopo le liberalizzazioni del 2012 probabilmente non ha retto alla concorrenza, in un città già economicamente dimessa. Cerco il numero corrispondente al nome sul citofono, suono, e mentre aspetto una risposta mi stringo a lei, e le dico troppo tardi che mi sto commuovendo, che fa male a una certa età, e che forse è meglio tornare indietro.