Non c’è molta differenza tra augurare buon lavoro e dire vaffanculo. Auspicare la felice riuscita di un’operazione antipatica come il lavoro non è molto diverso da sincerarsi che qualcuno precipiti giù da un ponte nel migliore dei modi, o che gli venga il cagotto in una situazione controllata, oppure che gli sia lieve la terra dopo il decesso o ancora che l’attrito della cheratina dell’appendice ossea sulla fronte del toro in fuga per le strade di Pamplona al momento dell’incornata sia tutto sommato ridotto. Buon lavoro suona come e ora sono cazzi tuoi, ti lascio solo a produrre quello che ti ho chiesto tanto se non mi piace non ti pago, arrenditi pure al destino delle prossime ore tanto sei schiavo del tuo mestiere senza il quale non potresti mandare tua figlia a scuola. Chi dice buon lavoro me lo immagino abbandonare esseri umani ai flutti del mare in tempesta con il solo ausilio dei braccioli di Peppa Pig, oppure fare una carezza prima di gettare paracadutisti al battesimo del volo giù dall’aereo perché si percepisce perfettamente la differenza tra chi resta al sicuro e chi è lasciato al suo destino, tra i salvati e i sommersi, tra chi può permettersi di delegare attività agli altri grazie ai soldi e invece chi è costretto a soccombere alle leggi dell’economia perché di origini più umili. Dici buon lavoro e vedo la scintilla sul canino come l’effetto dei cartoni animati quando lo squalo si vuole divertire un po’ prima di mangiare la preda. Buon lavoro è un insulto, chi tiene veramente a te anziché farti un augurio del genere ti solleva dall’incombenza, si offre al tuo posto, ti chiede di dividere fifty fifty la responsabilità della riuscita, ti propone di darti una mano senza pretendere nulla. Quindi attenzione perché a chi mi augura buon lavoro d’ora in poi di istinto gli rispondo a soreta.