Nemesi, l’ultimo libro di Philip Roth pubblicato da Einaudi, è una storia sulla guerra, un conflitto su più fronti. Il protagonista, Bucky Cantor, ha poco più di ventanni ed è un insegnante di educazione fisica prestato all’animazione dei campi estivi di Newark, proprio mentre si diffonde – siamo nell’estate del 1944 e il vaccino non è stato ancora scoperto – un’epidemia di poliomelite. La guerra di Bucky Cantor è principalmente contro se stesso. Un paio di difetti, apparentemente irrilevanti (gli occhiali e la statura) lo hanno tenuto lontano dal fronte, il che gli genera la frustrazione di non aver potuto seguire gli amici partiti a lavare l’onta dei giapponesi dopo Pearl Harbour. La sua missione con i suoi ragazzi nella torrida estate newarkese, educarli con il gioco e tenerli lontani dall’infezione, assume quindi il valore della rivincita. La guerra è anche contro il suo dio, il dio degli ebrei, che dispensa invalidità e sopravvivenza con polmone d’acciaio, se non, nel migliore dei casi, la morte, ai ragazzini dei quali vede diminuire la presenza giorno per giorno. In una lotta titanica contro l’immutabilità degli eventi, Bucky sarà la principale vittima del suo rigore morale, negando a se stesso anche l’amore di una vita. Solo la finzione narrativa di Roth riesce ad alleviare, anche se solo in parte, il decorso tragico. Roba, comunque, da cinque stelle.