berghem

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Quello dal palco arringa alla folla, urla “Padaniaaaaaaaa!”. E la folla risponde “Liberaaaaaa!”. E lui ancora “Padaniaaaaaaaa!”, e la folla di nuovo “Liberaaaaaa!”. La politica riassunta negli slogan fa accapponare la pelle dall’imbarazzo, anche a noi riesce difficile nei cortei cantare a una voce lo spirito comune, perché la sintesi della sintesi della sintesi, alla fine una parola o due, lascia perplessi perché è sempre più distante dalla realtà. Le valli del dio Po, per esempio, sentono la stessa solfa da decenni. “Secessioneeee!” esclamano casalinghe e montanari avvinazzati, giovani idealisti e bikers borchiati e ingilettati, sempre più neri e sempre meno verdi. E a parte gli spokesperson che credono ancora in quello che rimane del Bossi e sono dati in pasto agli inviati dei tiggì, la base è tutta schierata con quelli che sì, va bene la libertà da Roma, ma leviamoci dalle scatole quel puttaniere. Ma la festa dei popoli padani è telegenica ugualmente e il rito dell’ampolla è ancora più retorico dello slogan. Ci vogliono decenni perché una tradizione diventi tale, ci vogliono nonni che raccontino ai nipoti della prima volta in cui venne celebrato il dio Po. Ma nessuno ammette la verità: il cammino intrapreso verso l’autodeterminazione del popolo del Nord ad oggi ha raggiunto solo un importante risultato, il nome in dialetto sui cartelli stradali. Il primo passo è compiuto.

intermarché

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Che coincidenza. Proprio oggi in cui ho letto un fantastico post sulle gioie dell’acquisto nei supermercati francesi, roba da acquolina in bocca, ecco l’editto di Umberto sull’embargo di protesta contro il loro atteggiamento “sull’immmigrazione” (il Corriere lo scrive proprio così, con tre emme, forse perché in Francia sono già alla terza generazione, come minimo). Non mi resta che divulgare il più possibile l’estro di Tinni, direttamente da Un, due, tre, via! dandovi un assaggio qui sotto, memore di tanti momenti felici passati al Leclerc da turista consumatore:

…in Francia, come si può ben immaginare, il banco frigo dedicato ai formaggi è il quintuplo di quello italiano: si moltiplicano confezioni, etichette e denominazioni impensabili e, benché tutte le volte mi riproponga di “provare un nuovo formaggio così quando torno in Italia faccio la figa annoiando il mio uditorio e racconto di aver mangiato per davvero quel che mangiano i parigini dando anche il mio parere in merito alle differenti qualità dei prodotti”, ogni volta, puntualmente, rimango intrappolata in quella rete di molle, a pasta semi dura, demi ecremé, duro, leger, à tartinner, aromatizzato, chèvre, provenienze geografiche mai sentite nominare e nomi propri altisonanti fatti almeno di tre membri (per provarmi la mia veridicità inserisco un link eloquente), che, dopo mezz’ora sprecata a gelarmi il sedere (fa un freddo luzzo nel settore frigo, in effetti), mi decido a prendere sempre il solito formaggio, che ho scoperto ormai tre anni fa, e che, fortunatamente, non mi delude mai (e che poi, per la cronaca, micca lo so, che tipo di formaggio è! so solo che si chiama Fine Ligne ed è della Leader Price).