Per assistere a una loro esibizione nel tour di Badmotorfinger ho pagato un biglietto sovradimensionato a causa della band di metallari del cazzo che i Soundgarden supportavano, i più celebri Guns N’Roses. Sta di fatto che quel disco è una pietra miliare della mia formazione musicale, e spero pure della vostra. Anche se non ci piacciono le recensioni postume di ellepi vecchi come il cucco, come Badmotorfinger appunto, questa pubblicata da Pitchfork non è niente male perché coglie l’oggettivo e perfetto mix di quel sound dei Soundgarden, tra roba pesante e post-punk. L’atteggiamento è molto grunge ma era la moda dei tempi, e se non ci credete guardate qui sotto. Qualcuno ha registrato il concerto di cui sopra e la cosa strabiliante è che lo ha fatto nel 92, il 27 giugno per la precisione, allo stadio Delle Alpi di Torino e con una telecamera, mica con uno smartphone, e a giudicare dalle riprese sembra proprio nel punto in cui più o meno c’ero anch’io.
Badmotorfinger
venti di cambiamento
StandardLe celebrazioni si fanno per decenni, ne avevo già scritto qui, ma si fa così indipendentemente dal fatto che io ne abbia scritto lì, sia chiaro. E in rete sono iniziate le celebrazioni dei vent’anni del grunge. Il 1991 infatti è stato, oggettivamente, l’anno della rottura, da allora in poi, mi riferisco alla musica, nulla sarebbe stato più come prima. Intanto per l’uscita di Nevermind, l’album che ha portato i Nirvana ad un successo senza precedenti. Ma ci sono altri tre dischi fondamentali per quel genere musicale che ha influenzato, in misura minore rispetto a quanto accadde per il punk alla fine dei 70, gli anni successivi. Naturalmente, come per tutti i fenomeni così esplosivi, il corso è stato standard: boom immediato, massima esposizione mediatica, tre o quattro anni di rendita, diciamo fino al 1995, poi giro di boa e riflusso, musica agli antipodi, quindi, a vent’anni di distanza, nascita degli emuli. Ne parlerò più avanti, anche se è un thread trito e ritrito, ma questo è stato il processo che hanno attraversato analogamente, per esempio, il punk, il post punk, la new wave, ma anche il beat e il rock psichedelico, persino il progressive. Materiale da tesi di laurea, chissà.
Ma torniamo ai tre album che dovrebbero, a mio parere, accompagnare Nervermind in una equa celebrazione di quel 1991. Anzi, a dirla tutta, Nevermind è stato si deflagrante, ma oggi è innegabile che le reminiscenze che abbiamo e l’approccio critico siano obnubilati dalle vicissitudini di Cobain, dal mito che la sua tragica fine ha prodotto. Senza nulla togliere ai meriti di quel disco, non dimentichiamo che “Smells like a teen spirit” è uno dei pezzi più belli di tutti i tempi. E, per rimanere nel mainstream degli interventi che spopolano in rete per l’anniversario, ecco un inciso sull’immancabile “dove ero io nel 1991”. Beh, grazie per la domanda. Nel 1991 ero già grandicello, avevo finito il servizio militare e stavo per laurearmi. E per seguire l’ennesima moda underground, con l’unico obiettivo di suscitare il maggior interesse possibile nel sesso femminile, mi ero fatto crescere i capelli lunghi lunghi e vestivo trasandato (ma guarda un po’) proprio come i grungi. Allo stesso modo in cui dieci anni prima vestivo di nero e avevo la cresta, cinque anni prima avevo la zazzera come Morrissey e così via. Ecco come disperdere la propria personalità. C’è un detto che sintetizza questo atteggiamento, ma è tropo volgare perché riguarda la capacità di traino di un particolare vello femminile. Per chiudere qui la parentesi personale scaccia-lettori, i due ricordi più vivi che ho di Smells like eccetera sono una bottiglia di Jack Daniels in due prima di un concerto dei Diaframma con Davide nella sua Opel Corsa con quel pezzo a palla, e un buttafuori di un club di Torino che mi ha, appunto, buttato fuori perché avevo iniziato a saltare pregno del pathos esaltante dal riff di chitarra di Cobain. Fine. Ah, di Nevermind avevo acquistato il vinile, in omaggio c’era una maglietta che ho regalato a una tipa, sempre per il detto di cui sopra.
Ma non dimentichiamo che nel 1991 ha visto la luce anche Ten dei Pearl Jam, innanzitutto. E, in quanto a spessore, i Pearl Jam sono ben altra cosa. La versione meno fashion del grunge. Leggo da Il Post che ci saranno celebrazioni ufficiali dell’iniziativa, comprendenti “un film documentario intitolato Twenty e diretto da Cameron Crowe, regista con assidue frequentazioni nel mondo del rock“. Bene. Eddie Vedder che suona l’ukulele ha comunque un suo perché, non trovate?
Terza pietra miliare dell’epoca è Badmotorfinger dei Soundgarden, la versione un po’ tamarra del grunge. Ma Jesus Christ pose è senza dubbio un capolavoro dalle venature dark, divertente da ascoltare, ballare e suonare. Per vedere i Soundgarden in quella tournée, pensate un po’, ho dovuto per contrappasso sorbirmi un concerto dei Guns’n’Roses, allo stadio Delle Alpi di Torino, gruppo di cui la band di Chris Cornell fece da supporto. Tsk. C’erano anche però i Faith No More. Ma questo accadeva l’anno successivo, sempre per il solito modo di dire scurrile di cui sopra.
Chiude la tetralogia (wow, mai avrei pensato di utilizzare questa parola in un post) la summa di tutto quanto, ovvero i Temple of the Dog. I Temple of the Dog, vi ricorderete, erano un supergruppo di Seattle, comprendente membri di proprio di Soundgarden e Pearl Jam, che si era formato come una sorta di tributo per la morte del cantante di un altro gruppo grunge, i Mother Love Bone, Andrew Wood. Il supergruppo durò giusto il tempo della pubblicazione di un album omonimo, uscito nel 1991, con alcuni pezzi davvero ben riusciti, come la struggente Hunger Strike.
Per chiudere, sono convinto che siamo arrivati al grunge passando anche per i Jane’s Addiction. Almeno per me il percorso è stato quello. Il grunge poi un bel giorno è finito, fagocitato da MTV e dai suoi programmi unplugged, dai filmetti come Singles, superato poi dal ritorno (per mia fortuna) dell’elettronica nel rock. Nel frattempo sono uscite altre band, gli Alice in Chains, gli Stone Temple Pilots e gli Screaming Trees, che avremo tutto il tempo per celebrare. Fino a questo anniversario, un po’ più dirompente.
un’estate da urlo
StandardMi accorgo dell’avvento della bella stagione quando la temperatura consente di spalancare porte e finestre che danno sul balcone. Le veneziane calate mi permettono di godere di una manciata di metri quadri di casa in più rispetto ai mesi freddi, in totale privacy. Non vivo in aperta campagna, la vicinanza dei condomini e dei condòmini impone l’uso di separè se non altro a illuderci che, là fuori, al posto della Rho-Monza, ci sia una mulattiera che conduce al ruscello, e i palazzi del quartiere siano giganteschi alberi di canfora, come quello di cui mia figlia si è innamorata dopo aver visto “Il mio vicino Totoro”. Ma certi suoni irrompono senza pietà nel meriggiare pallido e assorto, e non si tratta di schiocchi di merli e frusci di serpi. Anche le altre famiglie, come noi, aprono le finestre in barba agli insetti metropolitani e alle nuove specie che, vuoi i cambiamenti climatici, vuoi il traffico della Malpensa, stanno diventando endemiche.
E magari, avessi come vicino un gigantone simpatico come Totoro. In genere, dalle finestre altrui escono cose irripetibili. Quando, anni fa, vivevo nel centro storico di Genova, avevo una ragazza dell’Ecuador sotto di me. La convivenza era fantastica, se non che il sabato mattina, entrambi alle prese con le pulizie dei rispettivi appartamenti, scattava la battaglia dei decibel. Malgrado tutta la musica sudamericana mai composta, ella amava ascoltare a tutto volume compilation del peggio pop europeo riarrangiato in chiave salsa. Già tutto ciò che, culturalmente, va da Los Angeles in giù proprio non è nelle mie corde. Quel che percepivo era troppo. La mia risposta, in quanto a cattiveria, purtroppo non superava i Soundgarden di Badmotorfinger che, anche a manetta, soccombevano alle bachate downstairs. E quando, esasperato se non altro dall’impossibilità di meshuppare tra ritmi e gusti così agli antipodi, suonavo lungamente al suo campanello per implorare pietà, la vicina dell’Ecuador non mi apriva, probabilmente spaventata dalle blasfeme parole di Jesus Christ Pose appena sentite colare dal soffitto.
Anche qui, nei dintorni di Milano, la situazione non è molto differente. Mi accorgo di essere in estate perché, spalancando porte e finestre come tutti, la quiete è turbata dal vociare sguaiato di alcune famiglie, poche, per fortuna, ma abbastanza però da costituire un insieme molesto che rasenta l’inquinamento acustico e, in primis, inficia il buonumore. Chi si scambia i tips per craccare i dvd o fornisce resoconti sulla disponibilità di banda effettiva del proprio contratto adsl (yum yum!) tra balconi incrociati, tanto che chi vive in mezzo ne rimane per forza di cose coinvolto. Chi organizza festicciole con tanto di barbeque all’aperto, facendo tirare tardi a tutto il quartiere. Ma non c’è limite al peggio. C’è una famiglia o presunta tale, proprio di fronte a me, costituita da psicopatici. Padre, madre, 2 figlie adolescenti e un figlio maschio in età puberale. Un gruppo di pazzi che si urlano da mane a sera. Ma si urlano cose pesanti, roba che siamo sempre lì, pronti a intervenire per chiamare rinforzi, sbirciando ogni tanto tra i listelli delle veneziane nella paura che qualcuno voli giù dal balcone. Dai teneri vaffan***o (madre verso figlio) a ingenui sei una scema (figlio a madre), esplicite botte di p*****a (figlia a madre) con contorno di fatti i c***i tuoi, non rompermi i c******i e minacce varie. Ce n’è per tutti i gusti. E noi tre siamo lì, a goderci il meritato riposo prefestivo sul balcone con il brunch del sabato, la bottiglia di bianco tenuta in fresco, Catch a fire originale su vinile di Bob Marley per inaugurare gli RCA nuovi appena saldati del vecchio piatto Nordmende acquistato nel 1978, good vibes nascoste tra le piante ornamentali. Insomma, sarebbe il colmo dover desiderare l’inverno solo per risparmiarmi le crisi isteriche altrui. L’esperienza insegna: ci sono vicini di casa che possono essere molto pericolosi.