“Se non vuoi perdere tempo a spremere flaconi di crema dopobarba semivuoti perché il prodotto per ovvi motivi di fisica è tutto depositato sul fondo – certo non gliene possiamo fare una colpa – prova a riporlo capovolto nell’armadietto, la prossima volta, proprio come si sono inventati per il ketchup e la maionese e i loro tubetti da mettere in frigo a testa in giù”. Sento che il consiglio che Giorgio cerca di darci ispirato dalle salse che ci hanno portato al tavolo insieme agli hamburger un giorno dovrò scriverlo da qualche parte per vedere, fissato nero su bianco su un foglio o su un blog come questo, l’effetto che fa. La nuova fidanzata di Giorgio di chiama Perla e per noi è una novità che esista nel genere umano gente in grado di dare ai propri figli nomi così di merda. La mia fidanzata, per dire, si chiama Chiara ed è un nome bellissimo e facciamo cose sceme come entrare al supermercato, comprarci una tavoletta di cioccolato a testa, pagarla e poi consegnarcela reciprocamente con mille smancerie appena passata la cassa come se dovessimo farci un regalo. Entrambi la nascondiamo dietro la schiena, ci diciamo di chiudere gli occhi, poi ce le scambiamo dandoci un bacio e ogni volta ridiamo come se fosse la prima. Con una che si chiama Perla le cose invece potrebbero essere molto più complicate. Se ti chiami Perla e sei un cesso, per dire, non passi indenne tra compagni di classe e amici. E per me di Perla ce n’è una sola, si veste con l’ombelico scoperto, s’innamora di Kabir Bedi e non fa una bella fine. Potremmo essere molto più indulgenti con Giorgio e con e fidanzate che si sceglie se non avesse votato alle ultime politiche per Forza Italia. Nel 1994 se lo fai dopo tutto quello che è successo con mani pulite, Falcone e Borsellino se più che uno stronzo e non sarà certo una fidanzata con un nome così fuori dal mondo a renderti meno responsabile del decorso del nostro paese. Giorgio dice che ha scelto il partito di Berlusconi perché rappresenta il nuovo, come lui e come i nomi nuovi che si sceglie la gente a partire da Perla. Così dico a Max, che suona il basso con me e con Giorgio che invece è alla batteria, che dovremmo cacciarlo dalla band. Non suono con un fascista per principio e so che dovrebbe farlo anche lui. Anni dopo addirittura negli annunci che metterò sui siti per musicisti per cercare gente o gruppi con cui suonare scriverò “astenersi elettori di centrodestra” e intorno ai cinquant’anni ammetterò con amarezza che la maggior parte degli amici di palco e sala prove, come Max che nel 94 era un boss dell’ARCI e si suonava da comunisti insieme ma anche come Giorgio che Perla o non Perla non capiva un cazzo di politica, vota per i grillisti. Il binomio politica e musica non è solo Bella Ciao e il demago-rock dei Modena City Ramblers ma è un sistema di cose strano che richiede coerenza, forse perché la musica nel 1994 è ancora un aspetto che caratterizza fortemente, aggrega, ti fa vedere le cose da un punto di vista dal quale, se osservi bene, è impossibile non schierarsi. Giorgio alla batteria poi non è granché, accelera e non ha il senso delle canzoni che sta suonando. La musica è anche una questione di buon gusto, nessun musicista serio crederebbe a un inno di plastica come quello di Forza Italia e poi, di fronte a una che si presenta dicendo di chiamarsi Perla, gli scoppierebbe a ridere in faccia.
avere una band
i dj dovrebbero essere come prima cosa dei ballerini
StandardÈ proprio per evitare questo scollegamento con la realtà e con il lato pratico e quotidiano delle cose che gli architetti dovrebbero abitare le case che progettano, ma, come dice la mia amica Roberta che fa proprio quel mestiere lì, allora i dj dovrebbero essere come prima cosa dei ballerini perché di sovente la loro selezione trasmette un’idea della danza e dell’intelligenza motoria delle persone che darebbero qualsiasi cosa per dimenarsi come degli ossessi sotto sul dancefloor, piuttosto discutibile. Non vi nascondo che a me piace molto questo approccio che vede, nell’immedesimazione con il proprio target, la soluzione alla qualità del nostro lavoro ma per gli artisti – gli scrittori in primis – è tutto un altro paio di maniche. Non parliamo dei musicisti perché l’obiettivo è offrire a pioggia delle spremute di sé e, se non si vende nemmeno una copia per manifesta incompatibilità con il prossimo, chi se ne importa.
Appartengono a questa categoria i V1, che sono ora sul palco e stanno suonando una canzone contro il Papa polacco con strumenti che trasudano ingenuità adolescenziale malgrado i vent’anni suonati (è proprio il caso di dirlo) e, peraltro, invano in quanto, al livello della line-up che si succederà a questo “Festival del nuovo rock italiano” organizzato da Radio Luna, i gradi di separazione dal più dirompente successore di San Pietro sulla terra dai tempi di non so chi (se volete un paragone che regge andate su un blog di qualche vaticanista, io non seguo molto le vicende della chiesa) sono troppi. Almeno una trentina, così sui due piedi, e di certo il meccanismo del sentito dire per riportare l’ironia del cantante a sua santità non credo sia in grado di protrarsi oltre il secondo, a essere ottimisti.
Un problema che, comunque, non sussite. I V1 si scioglieranno di lì a poco e in tempo per non dover cambiare il loro nome dopo la comparsa degli U2, a causa dei quali mantenerlo sarebbe sembrato fortemente ridicolo. Tra poco toccherà a noi salire sulla scena e dare il meglio affinché, nell’impegno a distinguersi che accomuna tutti i gruppi che si esibiranno, il nostro suono sia percepito come il più originale. Nemmeno a noi ci andrà bene, forse un po’ meglio dei V1 ma tanto che importa, il 1982 sembra così lontano che non so nemmeno che senso abbia parlarne. Anzi, mi meraviglio se siete arrivati a leggere fino a qui. Oggi la gente non va oltre il titolo e, quando va bene, le prime due o tre righe del corpo del testo. Per i numeri la situazione è addirittura peggiore, altrimenti non si spiegherebbero i prezzi come 9,99 euro ma queste sono cose che sapete già.
la chiave del successo
StandardLa musica ha l’odore della muffa, anche la musica di più recente produzione che giace impilata nella vostra dispensa – fisica o virtuale che sia – da poco, perché la muffa delle cantine in cui vive chi compone ed esegue musica si appiccica poi tra i solchi dei dischi venduti o nelle cartelle degli mp3 scaricati. Se ce l’abbiamo ancora nelle narici noi che con la musica non abbiamo combinato nulla è facile spiegare l’odore che si riversa dalle casse dello stereo quando l’ascoltiamo. Quindi rivalutiamo la puzza di chiuso mista a umidità e mista a sudore, perché è di questo che sa il rock. La musica ha poi il tono della comprensione, e vorrei che rifletteste su questa affermazione. La musica sa capire chi l’ascolta perché dice le parole che chi ascolta vuole sentirsi dire e, allo stesso tempo, sa arrivare a destinazione utilizzando tutti i sistemi invisibili che ti stuzzicano la pancia, il cuore, le ghiandole delle lacrime, la testa e il collo, le gambe e i muscoli della faccia. Un pezzo a caso trasmesso alla radio, a cui chiedi qualcosa, ti dimostra con la sua armonia come sia facile trovare quello che cercavi, un accordo che risolve in un altro ti consente di tirare un sospiro di sollievo, ed è in grado anche solo di distrarti dall’ansia del momento, questo perché probabilmente chi ha scritto quella canzone era nelle tue stesse condizioni, per di più immerso nella puzza di cantina umida. Amici musicisti, continuate quindi a darvi delle risposte quando suonate i vostri pezzi e togliete i deodoranti da ambiente nei posti in cui le componete. Questa è la chiave del successo.
bilancio di fine stagione
StandardAlle 14.00 di vent’anni fa, ieri salivo sul palco del Concerto del Primo Maggio a Roma. Non sto a raccontare l’emozione di stare davanti a decine di migliaia di persone che battono le mani a tempo mentre suoni perché è facile da immaginarsi. In realtà nella band in cui militavo e che mi ha permesso di raggiungere il punto più elevato della mia breve carriera musicale da uno che voleva fare il musicista professionista, in quella band purtroppo ero poco più che un turnista. Si trattava di un gruppo costruito pressoché a tavolino nato sulle ceneri della formazione che aveva pubblicato il primo cd, in cui ero stato reclutato per la chiusura della registrazione del secondo. C’era una promettente produzione con un tizio inglese che aveva collaborato già con alcuni nomi di grido, una major che avrebbe fatto uscire il cd, una rete di contatti giusti invidiabile, lo studio di registrazione con il tecnico del suono più di moda al momento, persino un agenzia seria per i concerti. C’erano state persino interviste, articoli e prime pagine sui giornali. Servizi fotografici e agganci per far parte di festival e appuntamenti con altre band ben più famose di noi. Persino passaggi televisivi e un live alla radio del più famoso volpone della musica commerciale italiana. Nonostante tutto questo, i risultati di quell’esperienza sono stati inqualificabili. Dopo qualche mese da quel primo maggio avevo percepito la parabola discendente e mi ero defilato grazie a un impiego normale, che a differenza della musica mi avrebbe garantito uno stipendio regolare.
Il punto però è quella partecipazione al concerto in piazza San Giovanni, con Sting nei camerini che non si lasciava avvicinare nemmeno dagli addetti ai lavori, Veltroni in visita ufficiale, Marina Rei scalza e Mara degli Ustmamò bellissima. Suonare come un turnista o poco più in un’occasione come quella è uno spreco emotivo che non vi sto a dire. Una frustrazione che non ha eguali, come fare l’amore a comando, come mangiare qualcosa di scadente solo per riempire lo stomaco, come bere una birra calda quando si muore di sete. Eseguire canzoni alla cui composizione non si ha contribuito in un concerto di quella portata non meriterebbe nemmeno di essere ricordato. Certo, mi piace raccontarlo come vanto perché non siamo in tanti che possiamo prenderci un tale merito. Ma ora, allo scadere dei vent’anni da quell’esibizione, anzi vent’anni e un giorno, sono pronto a dequalificare l’esperienza, a darle il suo giusto peso, a metterla in archivio con il suo giusto valore. La musica andrebbe suonata solo quando viene da dentro, quando è una cosa intima, quando una canzone l’hai vista crescere come un figlio, quando ci sono pezzi di te sullo spartito o nelle parole. Tutto il resto, e mi perdonino i mestieranti, ne è solo una volgare imitazione.
mettevi comodi perché ora vi spiego che cos’è l’arte
StandardQuello che ci accomuna a Isabella è che siamo privilegiati nel lavoro che facciamo. Noi ci mettiamo in posa con il cantante al centro e lei pure, di fronte a noi con la sua reflex puntata mentre ci chiede di metterci così e cosà, guarda qui o guardate là, più sciolti o meno sorridenti perché comunque dovremmo lasciar intendere che siamo dei tipi tutt’altro che semplici. Il tutto in un orario in cui quelli della nostra età sono in ufficio a prendere ordini da tutti, sono in pochi i privilegiati che al lavoro si godono la luce in tarda mattinata come noi. Isabella è davvero bella come dice il suffisso del suo nome, e qualcuno viene ripreso perché anziché seguire le sue direttive si fissa su alcuni dettagli del suo viso o del suo corpo e non ci facciamo certo una figura decorosa. Il set è manco a dirlo una fabbrica abbandonata e semi-distrutta ma ci è stato detto di vestirci come ci pare, l’archeologia industriale tira di brutto e noi mica siamo una boyband. Anzi, siamo l’ultima ruota del carro di una major e spesso ci diciamo che preferiremmo essere invece il gruppo di punta di una etichetta indipendente, tanto non ci sarebbero soldi ugualmente ma almeno conteremmo qualcosa. Anche Isabella, se è stata mandata fino qui da noi, non dev’essere la fotografa ufficiale della rivista di lifestyle su cui finirà l’articolo che ci riguarda. A pranzo fa un po’ di storie così capiamo che dovremo pagare noi anche la sua parte e in un frangente come quello la cavalleria o comunque la buona educazione subentra su qualsiasi dinamica aziendale. I maschi pagano alle femmine e, considerando che già sappiamo che a nessuno verrà rimborsata nemmeno una lira, dividiamo il conto per cinque anziché per sei. Quello che dovrebbe essere il nostro manager se l’è svignata in tempo in modo da non dover metter mano al portafogli ma chi se ne importa, siamo privilegiati nel lavoro che facciamo. Io non ho molta fame, mentre mi recavo sul set ci ho dato dentro con due etti di focaccia, anche quella me la sono pagata io. E quando la produzione ci fa avere i provini delle foto di Isabella, che hanno anche previsto dei primi piani a tutti, vedo un residuo di quella colazione sulla barba sotto il mento. Una briciola di focaccia bella grossa incastrata tra i peli neri tendenti al rossiccio. Isabella prima di scattarmi quella foto non mi ha detto niente o non l’ha notata, del resto nessuno si è specchiato prima o mica c’è stata una sessione di make-up, oltre a essere superfluo per un gruppo di base non c’era abbastanza budget ma non fa nulla, siamo privilegiati nel lavoro che facciamo. Ma il problema è proprio nella definizione della nostra attività perché, a pensarci bene, né noi né Isabella abbiamo una busta paga, nessuno ci versa i contributi, dipendiamo in continuazione dagli umori di altre persone che nel nostro ambiente sono pessime. Qualcuno ti può estromettere dal lavoro a proprio piacimento, quindi alla fine anche se crediamo di essere privilegiati nel lavoro che facciamo non si tratta di un lavoro ma di una passione qualsiasi, come assemblare modellini in legno di navi o coltivare bonsai o, come si diceva un tempo, si tratta di “una forma di esistenza illecita e lesiva della pubblica morale e produttività, in cui si creano le condizioni per un assenteismo che sottrae energie preziose all’economia”.
i 10 vantaggi più comuni che si ottengono se a cinquant’anni finalmente decidete di smettere di suonare
StandardIl giovanilismo ad libitum di chi gravita sin da ragazzo nel mondo nella musica confluito nella fama illusoria da social network è uno dei problemi più urgenti della società contemporanea soprattutto se, come me, siete di mezza età e avete coltivato nella vita relazioni principalmente con questa categoria evergreen dei casi umani. Se già l’onda lunga della personalità a perenne registro adolescenziale si protraeva molto spesso fino a cinquant’anni e rotti, potete immaginare cosa può causare la nuova linfa data da Facebook ai malati di ego che hanno sacrificato tutto il loro tempo a convincersi che nello spettacolo il successo – che è quello che consente di compiere l’upgrade da passione a fonte di reddito per mettere qualcosa sotto i denti – dopotutto non è importante e si può continuare a provarci fino allo sfinimento dei propri congiunti, amici, semplici conoscenti e gente mai vista raccattata online.
So che parlare ai diretti interessati non serve a nulla e si corre il rischio di guastare rapporti che magari sono in piedi da una vita. Così mi rifugio ancora una volta con tutta l’ipocrisia necessaria dietro questo baluardo di anonimato per raccogliere un piccolo elenco di tutti i vantaggi che può ottenere chi, alle soglie dell’andropausa, si crede ancora un animale da rock’n’roll e rompe i maroni pubblicando composizioni a valanga su Facebook, costringendo la propria rete di contatti a bloccare, nascondere, cancellare tag e tutti i sotterfugi del caso per non affogare nell’imbarazzo e nella compassione altrui.
1. Intanto dopo una vita passata ad ascoltare solo voi stessi, smettendo di suonare potreste finalmente dedicarvi al prossimo. In giro ci sono un sacco di gruppi ottimi e di musica di qualità sicuramente meglio della vostra, considerando che siete ancora lì rintanati in quella patina di oblio spacciata (a voi stessi) come undergound
2. Diceva un mio sassofonista che la musica, da un punto di vista dei costi che richiede, è un hobby secondo solo alla Formula 1. Smettete di suonare, vendete i vostri strumenti e vedrete decuplicare i vostri risparmi nell’immediato e nel lungo periodo.
3. Ampli e casse spaccano la schiena e non siete più i robusti virgulti dei tempi dell’okkupazione, occhio quindi quando vi esibite, anche se è vero che oggi è tutto diverso e la strumentazione – batteria a parte – è decisamente più light.
4. Smettendo di comporre parole per la musica, poi, guadagnereste in credibilità. Come pensate di affrontare i temi che erano i vostri cavalli di battaglia oggi che fisicamente lasciate a desiderare, non potete garantire più certe prestazioni come allora, le muse che riempivano le vostre liriche non sono messe certo meglio, la rivoluzione non si fa più, il nichilismo è un comportamento di massa e non più una nicchia per gli alternativi, cani e porci hanno la cresta e voi a capelli siete messi che è meglio non parlarne?
5. Astenendovi in tempo eviterete di appellativi come “vecchia gloria”, “dinosauro” e tutti gli altri epiteti che vi relegano in un tempo che non tornerà più, mentre l’oggi con tutte le sue complessità vi fa sembrare solo patetici
6. La linea che contraddistingue la vita di una rockstar la conosciamo tutti: ci si atteggia da maledetti e da distruttori del sé e del prossimo fino a cinquant’anni, poi alle prime canizie ci si scopre vulnerabili e si vira sull’unplugged, sullo zen e persino alla vocazione religiosa. Ma dieci anni più tardi ci si accorge che non è cambiato nulla e così ci si prodiga a dare gli ultimi colpi di cattiveria con risultati quasi sempre imbarazzanti. Ecco, smettendo di suonare in tempo è possibile evitare anche un decorso di questo tipo.
7. Il mio amico Fabrizio, per esempio, ha capito che era giunto il tempo di smettere mentre suonava l’assolo di chitarra di “Ordinary World” dei Duran Duran davanti a una manciata di alcolizzati di provincia, in un bar dall’atmosfera dozzinale, accompagnato da un computer portatile che riproduceva una base con suoni orribili e per di più vestito con abiti attillati malgrado l’età. Se seguite il mio consiglio potrete evitarvi folgorazioni sul palco di questo tipo che lasciano un segno indelebile e aumentano i rischi di depressione senile.
8. Ci sono poi passatempi molto più adatti alla vostra età che non generano le aspettative e le velleità che la musica comporta. Fare pezzi nuovi, divulgare in ogni modo e su ogni canale quelli pronti, cercare serate, accettare condizioni vergognose, sopportare i finti apprezzamenti sulla vostra arte di chi vi vuole bene. Provate con qualche attività fisica, il modellismo, i viaggi, la lettura, trascorrete più tempo all’aria aperta.
9. Per chi suona e non è un nativo digitale, Internet e social media sono una trappola perché trasmettono un senso di invulnerabilità emotiva senza confronti. Per chi viene dalle cassette registrate a cazzo in cantina, dalla difficoltà di reperire contatti, dalla fatica di farsi ascoltare, la rete sembra la risposta a tutti i problemi. Mi spiace deludervi ma proprio perché in rete ci sono cani e porci, gli stessi cani e porci della vita reale, nessuno vi caga di striscio nemmeno lì.
10. Perché non ammettete di aver fatto il vostro tempo? Già i futuri adulti sono quelli che saranno costretti a pagarvi una pensione che, pensando a quello che avete portato di valido nel mondo con la vostra musica, non meritate affatto. Quindi lasciategli spazio, cancellate i vostri mp3, risparmiateci le vostre lamentele canore sulla vita che passa e la morte che si avvicina, e se proprio vi fa piacere provate a fare i nonni rock, dando consigli e suggerimenti a proposito. Anche se, detto tra noi, se vi siete ridotti così è meglio che le nuove leve facciano di testa propria. Anzi, che facciano proprio altro.
alle origini del mito
StandardConcludo questa settimana dedicata all’amore e dintorni con una di quelle storie che nascono nelle sale prove o comunque tra musicisti, laddove cioè due che si innamorano non hanno nemmeno bisogno della “loro canzone” perché di musica ce n’è fin troppa. Erano un trio e si erano dati il nome di una città immaginaria tratta da un celebre (quanto sopravvalutatissimo IMHO) libro di Tolkien perché, fondamentalmente, suonavano quel tipo di musica che piace a quel genere di lettori lì. I celti, il folk, gli sifolotti, i violini e sopratutto le voci femminili che ti fan venire voglia di ubriacarti di birra scura e fare la corte alla cantante.
E infatti il chitarrista acustico del trio era perso della vocalist, con quel timbro da tramonto con capelli al vento su bianche scogliere dei mari del nord e arpe e violini e altri strumenti da immaginario fantasy. Se ti innamori di una che incarna gli ideali estetici di un target che al secondo boccale di Guinness ti invita a darci dentro con la giga – e che pezzo di giga, nonostante il facile doppio senso – sai che patimenti a ogni concerto. Infatti lui si destreggiava tra arpeggi e pennate senza riuscire a toglierle gli occhi di dosso mentre lei vocalizzava tutto un universo fatto di quella materia che non si sa bene se sia mai esistita al di fuori di certa letteratura. Il terzo che completava il trio non conta, era un nerd degli strumenti a fiato artigianali che si faceva arrivare da qualche sedicente bardo agli albori del commercio elettronico pagandoli un occhio della testa.
Inutile dire che colei che sembrava uscita da una favola medievale aveva nei confronti del suo spasimante chitarrista quel tipico comportamento utile a tenere sempre gli uomini sulle spine senza che poi si giunga mai a conclusione. Che poi in un tripudio di astrazione la carnalità avrebbe persino sfigurato. Fareste mai sesso con un angelo, ammesso che gli angeli abbiano un sesso? Per farla breve, la cosa andava avanti così con questa tensione platonica monolaterale fino a quando si avviò un gemellaggio con un altro trio molto più terra terra. Un sodalizio nato per caso una sera in locale della provincia più profonda dove i due mini-gruppi avevano condiviso il palco e, risultandosi simpatici reciprocamente, avevano deciso di invitarsi in modo da raddoppiare le opportunità di suonare in giro. Era un trio anche con una venatura goliardica. Alternava classici della canzone d’autore a versioni kitsch come “le bionde trecce e gli occhi azzurri” cantata sugli accordi di “Smells like teen spirit” oppure un medley di “Adesso tu”, “Sabato pomeriggio” e “Come mai” con strofe, ponti e ritornelli alternati. Ma non è stato il tastierista autore di simili arrangiamenti a fare casino, quello è innocuo e lo conosco bene.
Il cantante, che era quello che aveva insistito più di tutti ad approfondire la partnership, era invece un vero e proprio professionista del broccolaggio in ambito musicale, e potete immagine come è stato complesso convincere il chitarrista del gruppo folk che non era detto che i due front-man e front-woman facessero le cose seriamente dopo che una sera, a fine esibizione, erano spariti evidentemente insieme senza nemmeno smontare le rispettive aste porta-microfono. Ed è finita che i due terzetti di lì a breve si sono sciolti – d’altronde accompagnereste mai una cantante di cui siete pazzi d’amore ma che se la fa con un componente di un gruppo da pianobar dopoché le avete fatto la corte per anni? – mentre i due cantanti sono stati felicemente sposati fino a qualche tempo fa, fino a quando lei un bel giorno è partita per l’Irlanda e, da allora, se ne sono perse le tracce.
oscar per la migliore trama mai utilizzata
StandardLa maledizione che si abbatte su molti gruppetti più o meno dilettanti di musica leggera decretandone la fine, molto spesso in modo provvidenziale se non addirittura mettendo al riparo i componenti dal severo riscontro del pubblico, li aveva logorati a tal punto da mandare tutti i piani all’aria malgrado la presenza di segnali confortanti. Ma pensate a quanti torti si sono consumati dentro alle mura di cantine e box adibiti a sala prova, con ragazze che interrompono duraturi rapporti con chitarristi per mettersi con i cantanti o viceversa. Chi non si è mai trovato coinvolto in crisi artistiche di questo tipo scagli il primo plettro. Questo poi molto ma molto prima dei social network e anche di Internet, quindi in un mondo in cui i giochi si svolgevano alla luce del sole, anzi, al buio delle mura insonorizzate ma comunque in carne e ossa e con i tempi tecnici necessari per spostamenti, telefonate, attese, discussioni verbali, chiarimenti, risoluzioni di conti a ceffoni, drammi, bugie, segreti detti e divulgati con sussurri per non farsi sentire. Giorni, settimane, mesi di struggimenti e turbamenti. Altro che whatsapp. C’era anche una specie di gruppo rivale che ha approfittato di quel tragico scioglimento cannibalizzando i membri non interessati dalle dinamiche sentimentali, solitamente batteristi e bassisti badano al sodo, i tastieristi – lo so per esperienza diretta – sono sempre degli outsider, fatto sta che non erano nemmeno iniziati gli anni 80 che una delle promesse del post punk locale si era già dimostrata bella che impossibile da mantenersi.
Ieri poi, per puro caso, mi è capitato di vedere “Una fragile armonia”, un filmetto strappalacrime del 2012 che dovreste vedere anche voi intanto perché ha come protagonista Philip Seymour Hoffman e poi perché c’è tanta bella musica classica. La storia si basa infatti sulle dinamiche di un quartetto d’archi di successo composto da una coppia marito e moglie, in cui il marito che è il secondo violino (Hoffman) sentendosi sminuito si porta a letto una ballerina di flamenco. Dal primo violino che è uno scapolone che si innamora della figlia dei due suoi colleghi malgrado la differenza di età (di lui era stata innamorata anche la moglie di Hoffman prima di sposarsi). E dal violoncellista interpretato da Christopher Walken che è costretto a mollare il colpo a causa del Parkinson e che però segue con sofferenza tutte queste dinamiche che minacciano di far esplodere l’ensemble prima del tempo, ovvero prima che lui lasci il suo posto per l’impossibilità di reggere l’archetto.
Ma, lasciando perdere ogni spoiler, mentre il film si avviava alla fine mi si è accesa una lampadina su come scrivere una storia sulla band a cui mi riferivo sopra. Sentite qui. Trascorsi quarant’anni dal loro scioglimento, il chitarrista manifesta i primi segni di Alzheimer e così il cantante, in forma di redenzione per avergli fatto perdere l’amore, contatta gli altri ex membri per rimettere in piedi il gruppo. Hanni tutti quasi settant’anni ma nessuno non riesce a sottrarsi al fascino della musica, a riprendersi gli strumenti un po’ malandati lasciati in cantina o alla mercé dei nipotini, a rimettersi a suonare gli stessi pezzi di allora, il tutto per seguire da vicino e a modo loro il decorso del loro vecchio sodale e con tutti gli annessi e connessi di un’esperienza del genere. I due ex rivali non hanno del tutto smaltito gli antichi rancori, il cantante così cerca di sfruttare i momenti in cui la demenza senile lascia il chitarrista vergine circa il loro rapporto e privo di trascorsi. Ci starebbe anche bene un risvolto sul successo, in un momento di povertà artistica generalizzata – siamo più o meno nel 2025 – una band di vecchietti che calca con grinta post punk il palcoscenico, e un finale strappalacrime, tipo che il chitarrista si dimentica di prender parte all’appuntamento decisivo con il pubblico e manda tutto in vacca ma per il resto del gruppo non importa, a loro serviva solo per allietare gli ultimi anni dell’amico malato e va bene così. Ecco. Ora ci penso su e poi vi dico come va.
e tuttoaduntratto il coro
StandardSull’onda di alcuni successi del momento che puntavano sul coro come un elemento cardine di coinvolgimento della massa e di riconoscibilità melodica, per farvi capire a cosa mi riferisco ascoltate l’oh oh oh di Self Control di Raf oppure il laaa la la la laaaa la la la laaaa di Don’t you dei Simple Minds, noi come altri gruppi emergenti eravamo in cerca della formula migliore per trascinare il pubblico nei live, imprimere un tormentone melodico nella testa dei consumatori di hit e di marchiare indelebilmente l’opinione di fans e potenziali ascoltatori con melodie riproducibili con versi e quindi scevre tanto da testi potenzialmente identificativi, e conseguentemente subordinati alla componente soggettiva dell’individuo e alla sua maggiore o minore identificazione se non al completo rifiuto per la totale negazione contenutistica o simbolica delle parole quanto mi sono dimenticato il secondo termine di comparazione. Chiaro, no? Questo per diversi motivi: dalla scarsa dimestichezza con le liriche in italiano agli eventuali sotto-significati politici o comunque in grado di generare impegno in qualche modo. La pace, la redenzione, le tensioni sociali, la rivolta. Le canzonette sono solo quelle lì, appunto, che anche Bennato ha usato un naaaa na na nanna naaaa per cominciarla, rendersi inconfondibile e, di conseguenza, vendere più dischi. Siamo musicisti, mica scemi. Il coro o coretto per funzionare doveva quindi essere semplice e scazzato, come se si trattasse di un coro suo malgrado, nato per caso, non auto-determinatosi tale ma così proclamato dal pubblico pagante, un rito da consumare in comune tra la band sul palco e la gente sotto in grado di suggellare una vicinanza impossibile altrimenti. Perché poi il pubblico ti sgama, se componi un pezzo appositamente munito di coro per trascinare la folla, e volutamente la folla non solo non ti segue ma interrompe proprio la fiducia nei tuoi confronti. Te la sei giocata, bello. Quando invece il coretto sembra spontaneo il gioco e fatto, e può generare introiti di un certo livello. Ma dicevo che noi ci provavamo, ma non ci veniva nulla di utile. Ce n’era uno che però sembrava anticipare la disonestà intellettuale di pappananana pananana pappanaoooo panaooooo di Alive and Kicking, che oggettivamente non è solo uno dei pezzi più imbarazzanti dei Simple Minds ma di tutta la letteratura musicale universale globale dell’intero mondo mondiale. Una volta abbiamo persino azzardato un eeeehh ooooohh eh oooh dalle venature new romantic, alla Adam and the Ants per intenderci. Ma proprio non avevamo il fisico. E poi ci avreste visto sul palco con le luci rivolte sulla massa a guidare l’interazione? Ma fatemi il piacere. Sono cose che agli italiani proprio vengono male.
bootleg
StandardL’unico ad accorgersi che quello è il tema di “Summer on a solitary beach” è il parroco, viene sotto il palco improvvisato con un paio di pedane da cattedra per farmi sapere, appena distolgo lo sguardo dal mio synth monofonico, che Battiato piace anche a lui. Non posso certo deluderlo dicendogli che ho accennato quella melodia solo per attirare l’attenzione di qualcuno durante quella specie di sound check e che a tutti pensavo fuorché a lui, ma pazienza. Ci sono già molti dei partecipanti alla festa di fine anno dell’oratorio, nostri coetanei ma che sembrano appartenere a un altro pianeta sociale. Ci sono già anche quei due o tre amici che ci hanno invitato lì a suonare, si vedono anche un bel po’ di ragazze che poi quella è la cosa principale. Di certo tutti pensano che li faremo ballare, c’è l’equivoco di fondo che quelli che suonano devono per forza fare disco music e, dalla parte dei musicisti, che il pubblico è lì per ascoltare a prescindere. È presente anche qualche adulto, ci sono i catechisti e c’è mio padre che mi ha portato in macchina per via della strumentazione ed è rimasto lì, d’altronde abbiamo quindici anni ed è meglio controllare anche se in un ambiente così difficilmente ci si imbatte in abitudini trasgressive. Basta solo che a uno gli scappi “che sballo” come apprezzamento entusiasta su qualcosa che tutti corrono ai ripari. La serata comunque fila via liscia, in effetti c’è qualche pezzo ritmato su cui ci si può dimenare, liquidiamo il nostro acerbo repertorio in meno di un’ora e poi, tutti insieme, lasciamo la parola ai dischi. D’altronde abbiamo scelto di esibirci per puro diletto, mica volevamo guadagnare qualcosa. Finisce che noi cinque ce ne stiamo da parte e tutti gli altri attendono la mezzanotte insieme, la festa finisce poco dopo e noi smontiamo e torniamo a casa. La serata sarà memorabile, almeno per per me, solo perché rimarrà l’unico live della mia vita in cui ho cantato un pezzo, con un testo inventato sul momento e in un finto inglese.