Il primo di ottobre è una di quelle date che passano alla storia perché ci si rende conto che svegliarsi che fa ancora buio dovrebbe essere annoverato tra i crimini contro l’umanità, e per girare il dito nella piaga c’è chi ti fa notare che non è niente, considerando l’imminente cambio dell’ora. Il dottore mi ha rivelato che quella è la fase peggiore per gli ipertesi perché la pressione è più alta al mattino, io non so, ho tante altre cose per la testa quando mi alzo che non mi sento nemmeno le orecchie fischiare. Osservo il buio fuori e penso che non è naturale, l’alba è dopo che sorge il sole ed è contro tutto il resto che bisognerebbe fare le crociate, altro che matrimoni gay. Il vicino imprenditore che tira fuori la Golf dal garage per aprire l’impresa alle sei del mattino, ecco chi è contro natura. Ed è talmente immane lo sforzo a tirarsi su nei cambi di stagione che poi fino a quando non digito la password della posta elettronica cado in una depressione che non ha confronti. Vi giuro che mi viene persino da piangere. Per fortuna che c’è un altro momento della giornata che dà grandi soddisfazioni. L’origine del mio ritmo biologico di abbioccarmi intorno alle diciotto barra diciotto e trenta si perde nella notte dei tempi e, da qualcosina come quindici anni, coincide con il viaggio di ritorno a casa sui mezzi pubblici. Posso fare qualunque cosa in quella fascia oraria che se chiudo un occhio poi mi si chiude anche l’altro e patatrac. Ecco, il primo di ottobre è una di quelle date che passano alla storia perché la forbice luminosa, che non ha niente a che vedere con la falce del triste mietitore ma è un modo di definire la parte della giornata esposta alla luce del sole, si riduce a tal punto che nei due valori di inizio e termine – il risveglio dalla notte e il risveglio dall’abbiocco – apro gli occhi e mi chiedo che cosa mi abbia declassato nel mio regno di appartenenza ad animale notturno ed è lì che vorrei tanto sporgere il braccio fuori dal plaid e riportare l’abat-jour al suo stato meno utile.
autunno
l’autunno ha crashato, meglio spegnere e riaccendere
StandardViviamo strani giorni, canta Franco Battiato. La stranezza quotidiana nelle canzoni è un tema ricorrente, ci sono giorni e giorni e alcuni più bizzarri degli altri. In questa domenica di ottobre in cui sembra che la stagione abbia bisogno di un upgrade tanto si pianta di continuo e forse è meglio disinstallarla e riprovare da capo, stavo organizzando un po’ di musica per il nuovo smartcoso di mia moglie quando mi è capitata tra le mani questa che è la madre di tutti i giorni strani.
chi l’ha spento sei tu
StandardChe bello, ci si stupisce ancora per il primo freddo, per la prima nebbia in autostrada che poi è nebbia per modo di dire, si vede benissimo ma tutti accendono le luci davanti e dietro. Ci sorprendiamo ancora quando a stare fermi seduti in casa a fare cose come scrivere un post così vengono mani e piedi gelati. Così guardiamo al di là della finestra e pensiamo che è bene mettersi qualcosa di più pesante e addirittura provare a uscire e annullarsi nei non-colori di stagione. Che poi a meno che uno non viva in campagna non è che mette il naso fuori e c’è il bosco con le castagne commestibili o i profumi del calore della stufa a legna che si mescolano all’umidità. Al massimo la campagna puoi andartela a cercare, anche su internet volendo, se vuoi ridurre tutto a un film che accendi e spegni quando vuoi perché puoi scegliere i contenuti e il contesto senza nemmeno fare un passo. E forse è per questo che è bello se ci stupiamo ancora per il primo freddo e il grigio che l’accompagna, perché se fosse per noi sceglieremmo sempre e solo il meglio o le cose più facili da vivere. Sono tutti bravi a essere sereni con il cielo sereno e il mare davanti e i delfini al largo che seguono le barche. Sono tutti bravi a pensare la poesia con i muretti e i borghi e cocci aguzzi di bottiglia. Qui bisogna fare un po’ di sforzo e trovare ciò che si cerca nelle similitudini, nelle bellezze di nicchia, nel ricordo dei piaceri provati altrove che hanno lasciato il loro strascico da qualche parte nel nostro corpo ancor prima che nella nostra mente. E comunque c’è poco da fare, ogni stagione è diversa perché ogni anno siamo noi ad avere qualche mese in più dell’ultima volta in cui abbiamo trascorso un fine settimana impegnati nel cambio degli armadi. E non è che non ci piacessero più i vecchi mobili di casa anche se ogni scusa è buona per andare all’Ikea, in autunno poi il giallo ed il blu sono una sferzata di ottimismo, è ovvio che si tratta di un modo di dire per dire, appunto, che ogni volta che dopo qualche mese ci dobbiamo rimettere in discussione è sempre come rispolverare vecchie abitudini che sono i golfini dell’anno scorso, le scarpe per la pioggia, la giacca che ti ripara dal tempo brutto, e non in senso meteorologico.
quando è giorno di bilanci quanto è saggio mettersi a dormire un altro po’
StandardSo che non mi piacerebbe girare l’Italia in automobile per lavoro ogni giorno, confidare nel tono della voce degli speaker radiofonici per sollevare l’umore con cui si attraversano tutte le stagioni e tutte le variazioni climatiche possibili su tutti i tipi di pavimentazione stradale esistenti. Questo anche se avessi un mezzo dotato di tutti i comfort, una voce amica che mi suggerisce il percorso più breve o quello più veloce, persino un rigonfiamento nel sedile che mi massaggia la zona lombo-sacrale nei momenti del bisogno.
So che non mi piacerebbe uscire la domenica nelle prime ore del pomeriggio per cercare un tabacchino aperto nella città deserta e trovare a malapena un distributore automatico embedded nella saracinesca ed essere costretto a scegliere la marca meno peggio tra quelle disponibili, infilare la banconota nell’apposita fessura, premere la combinazione di pulsanti, aspettare la merce e contare il resto senza scendere dalla bici e in equilibrio rimettere le monete nel borsellino ma con la massima calma perché non c’è nessuno in coda. Non c’è nessuno in strada. Non c’è nessuno che mi aspetta a casa.
E so per certo, e ve lo posso anche mettere per iscritto, che non mi piacerebbe essere spinto seduto su una carrozzina a ottant’anni e rotti per l’ora d’aria quotidiana che non posso scegliere io ma concordata con la disponibilità dell’accompagnatore che non sa nulla di me e del mio passato né io so qualcosa di lui, del perché è venuto in Italia anche se è facile immaginarlo né quale potrebbe essere la soglia minima di retribuzione richiesta per essere lì dietro a spingere me, vestito con l’abito con il quale probabilmente sarò anche cremato o sepolto tanto è consunto e comunque che senso ha comprare abiti nuovi se quella è l’unica occasione per sfoggiarli.
So che non mi piacerebbe preparare esami di materie che poi non mi torneranno utili mai perché non esiste più un mestiere in cui possano essere applicate se non addirittura un mestiere in generale che quello che dicono essere una laurea breve o lunga o di media durata presa anche con profitto possa non dico garantire ma almeno favorire. Studiare teorie desuete su testi già obsoleti nel momento stesso in cui sono scritti, in cui si parla ancora di cose come il World Wide Web come se l’ambiente che dire dinamico è assai riduttivo su cui lavoriamo, comunichiamo e viviamo non fosse una creatura intelligente che ormai cresce e si sviluppa da sé e noi non possiamo nemmeno immaginare come sarà questo pomeriggio, che è già tutto finito e c’è qualcos’altro.
So infine che non mi piacerebbero tante altre cose che non penso non dico e non scrivo per superstizione perché solo il vederle incarnate in parole mi mette a disagio, delle quali aspettare il carro attrezzi con una gomma forata in autostrada sotto la pioggia è la meno catastrofica. Ma, come si dice, i macro-problemi si affrontano sezionandoli in millemila micro-problemi alla nostra portata, vero? Poi si parte dal primo, lo si mette nella cartella delle cose archiviate e via così, a partire da come chiudere questo post senza deprimermi più di così.