Ma andiamo al nocciolo, e prendiamo i 60 di Pietro e Gigetto. La loro musica da ballo è quella: valzer, mazurche e tango. Negli anni 60 hanno sessantanni. E la loro generazione, nel loro caso peraltro di estrazione contadina, ha avuto altro a cui pensare che l’emancipazione della cultura giovanile. Quando cioè gli under 20 sono diventati un movimento, dal ’68 in poi. Non hanno quindi uno specifico musicale (non so se si dice così, ma passatemi il termine) di riferimento, giusto? Continua a leggere (da Alcuni aneddoti dal mio futuro del 27/01/2011)
Disclaimer: in estate chiunque si barrica dietro un autoreply di chiuso per ferie e mette in sua vece un ologramma giusto per tenergli caldo il suo centimetro quadrato di spazio on line per il ritorno. Sapete, di questi tempi meglio non lesinare in sicurezza, i posti si fanno presto a perdere e mettere un surrogato di sé stessi può essere una strategia vincente. Così noi che apparteniamo a una sottospecie di categoria di esodati ma solo perché abbiamo preso parte come milioni di altri alle partenze molto poco intelligenti, ma allo stesso tempo non vogliamo che vi dimentichiate di noi, abbiamo pensato di pubblicare in questo periodo di vacanza qualcosa di già edito, nostro o altrui, o qualche pezzo a cui siamo particolarmente affezionati. Ciò non toglie che l’ispirazione, dai mari della Sardegna, faccia capolino di tanto in tanto.
Ieri mio padre al telefono era convinto di aver passato la giornata sulla neve, nella casa di campagna in cui ha trascorso la maggior parte del suo tempo libero. Sembrava sorpreso del repentino peggioramento delle condizioni atmosferiche in estate, e questa è stata la conferma dei miei sospetti. Si era di nuovo perso nella sua testa, aveva rovesciato uno scaffale di ricordi e li aveva rimessi a posto incurante dell’ordine cronologico. Ovviamente, come per il resto degli ultimi mesi, non si era mosso dall’appartamento, l’unico particolare attendibile era il fatto che in quel posto di campagna aveva davvero nevicato, durante la notte, e qualcuno al telefono doveva averlo aggiornato. Così gli ho chiesto di poter parlare con mia mamma. Non mi pare sia tornata a casa con me, mi ha risposto. Per fortuna quando gli ho suggerito di guardare meglio in cucina, l’ha riconosciuta e me l’ha passata. Quindi è questo quello che ci aspetta – non è un pensiero che ho condiviso con lei, è che mi sono distratto mentre mi forniva un resoconto degli ultimi episodi che già sapevo ed è stato facile smarrirsi nella preoccupazione a quel punto. Quindi è questo quello che ci aspetta, ho pensato, un filo smangiucchiato che fa arrivare a singhiozzo gli input e altrettanto discontinuamente trasmette verso l’esterno e che nessuno è in grado di riparare come il vecchio telefono fisso da cui lei mi stava parlando. E come per i guasti più gravi di questo, ecco il volume che sfuma a zero verso la fine, un fade-out talvolta con un’interruzione brusca, che poi è quello che più o meno simmetricamente corrisponde a un principio e che giustifica l’eccezionalità dell’essere vivo. Il che è paradossale perché si tratta di un contrario che dimostra l’autenticità di una condizione che altrimenti non sarebbe tale. E se avessi studiato filosofia con giudizio ora potrei anche dirvi chi è che lo sosteneva.
Visto da sotto sembrava un gigante, anzi era Gulliver spaventato, ritto in un prato verde popolato da Lillipuziani in maglietta colorata e pantaloncini. Qualcuno gli intimò di fermarsi ma ormai il peggio era compiuto, le pantofole killer non avevano lasciato scampo e i due nipoti, a terra sul pavimento dell’ingresso, non sapevano quale fosse la procedura di emergenza. Il nonno era fotofobico ma non indossava mai gli occhiali perché le persone anziane sono testarde e una volta lo erano ancora di più, non seguivano i consigli di nessuno, compresi medici, mogli e figli. Passava il tempo sul terrazzo sotto il sole a curare i suoi vasi, metteva le casse del giradischi rivolte verso la finestra e trasmetteva musica folk tutto il dì. Rigorosamente esposto alla luce di intensità doppia, riflessa anche dal mare. Poi la sensibilità degli occhi aumentò tanto che al passaggio tra luoghi all’esterno e ambienti al chiuso gli calava una barriera nera sulle pupille, una sorta di cecità temporanea che con il tempo aveva prolungato a intervalli preoccupanti la capacità della vista di adattarsi all’inferiore livello di luminosità. Così il nonno, procedendo nel suo buio, non aveva notato la presenza di un telo verde sul marmo sottostante e di due ragazzini intenti a spingere a ditate omini in plastica poggiati su piattaforme basculanti verso una pallina grande poco più di una biglia, con l’intento di lanciarla verso una porta in miniatura. Il nonno mosse i suoi passi come un orco delle favole e si fermò proprio a centrocampo, solo perché allarmato dalle grida dei due ragazzini sotto che si aggrapparono alle sue gambe omicide implorando pietà. Un portiere e altri sette calciatori di entrambe le squadre giacevano già a terra in diversi punti del campo divelti dalla loro base di sopravvivenza, con le teste o le braccia o le gambe mozzate. A quel punto il nonno si rese conto del pericolo in corso e accettò la resa, la nonna corse in aiuto degli inermi omini e aiutò i nipoti ad evacuare la zona di gioco. Ecco nonno, ora puoi proseguire. Il campo venne liberato, ma la partita fu interrotta e mai più ripresa. Quel giorno, una maledetta domenica di morte, viene ricordato ancora oggi negli annali del Subbuteo come la triste ricorrenza della “strage dell’orbo”.
Quando penso a iniziative tipo “adotta una parola” mi rendo conto che ci sono termini che nessuno prenderebbe mai con sé, e non mi riferisco alle volgarità comuni, quelle che sentiamo ogni giorno. Esistono nomi di malattie, medicinali o di oggetti legati all’ospedalizzazione come catetere, per esempio, che sono brutti, sfido a farli propri. Incarnano significato, significante e segno in una aberrazione semiotica che chiunque pagherebbe per veder le lettere di cui sono composti svanire ad una ad una come le scritte sul vapore dei vetri, ma ci vuole ben altro. Forti dell’appartenenza a un vocabolario tecnico, invadono le vite come soprammobili regalati da terzi che ci conoscono poco e tirano a indovinare circa i gusti altrui, così ti restano in casa perché ti vergogni a metterli in cantina che poi se l’autore del dono passa di lì non sapresti come giustificarti. Speri però che il gatto in un eccesso di entusiasmo da appetito o da gioco faccia cadere quella macchia scura che fa parte della tua vita ma di cui faresti a meno, era proprio un bell’oggetto ma Birillo sai come sono i gatti, inseguiva una mosca e l’ha mandato in mille pezzi. Ecco, ci sono tante parole di cui faremmo a meno, pensate ai nomi dei disturbi della memoria, il termine stesso demenza senile, che smacco alla dignità di una donna o di un uomo o qualunque persona che ha vissuto decenni lavorando, allevando figli, giocando a carte o leggendo romanzi gialli o terminando cruciverba senza usare il dizionario. Demente sarai tu, qualunque cosa tu sia.
A pensarci bene sarò anche io così. Perché non c’è gusto a intabarrarsi e rischiare la salute per sbrigare commissioni nelle ore mattutine dei giorni infrasettimanali. Che tristezza poi sarebbe mettersi in auto per andare alla Coop a fare la spesa che ne so, il martedì mattina per esempio, e posizionarsi alla cassa più libera scoprendo che intorno ci siamo solo noi, la parte della società che ha fatto il suo tempo, ha smesso di essere produttiva e ora può godersi giornate svuotate dal lavoro e dai figli che oramai sono grandi e hanno la loro famiglia. Che noia sarebbe aspettare il proprio turno in farmacia tra clienti tutti un po’ già vecchietti, ognuno con il proprio problema di salute, anziché fare la fila tra mamme e papà giovani, ragazzi con a malapena un mal di gola, gente che ha solo il sabato mattina come momento a disposizione in cui concentrare tutto quello che manca e che in settimana, al lavoro, non riesce a portare a termine. Così il numero di potenziali acquirenti nei giorni prefestivi raddoppia, e chi spera di sbrigare in quattro e quattr’otto una qualsiasi attività rimasta in pending da chissà quanto si trova a fare i conti con una ingiustificata invasione della terza età appiedata o, peggio, automunita che si riversa nei luoghi chiave del menage domestico medio: supermercati, esercizi al dettaglio, chioschi pubblici come la casa dell’acqua. Come se nel resto della settimana la città fosse chiusa, e quando figli e nipoti sono a scuola o al lavoro i pensionati non potessero dedicarsi alle più comuni attività quotidiane a causa di turni folli. Ma no, è che è l’unico momento, il sabato mattina, in cui si possono sentire ancora parte del tessuto sociale della comunità, anche quando ti precedono a velocità medie da trazione a pedali e tu hai fretta perché sei giovane, più o meno, e vuoi che i tempi morti, che per loro sono i momenti più corroboranti, durino il meno possibile. Ma ciò non giustifica l’uso del clacson o l’essere scontroso in attesa del proprio turno. Che prima o poi arriva, inevitabilmente per tutti.
Ieri sera più di mezz’ora ho dovuto aspettare fuori per mangiare un po’ di sushi. Mezz’ora. E il bello è che non esco mai, ma quando esco trovo sempre tutto pieno. Ma allora c’ha ragione quello là, quello che parte la domenica e va a Riva del Garda in elicottero mentre tutti sono in coda in macchina. Ma quale crisi, il ristorante era pieno. Sono tutti pieni. Poi ci saranno pure quelli in bolletta, non lo metto in dubbio, ma gli altri sono tutti fuori a spendere. Dicono che i centri commerciali sono pieni di gente che va lì a vedere e non compra niente, ma io non ci credo. Cosa vuol dire andare lì e guardare i Rolex o i pantaloni e le scarpe e non comprarsele. Se io vado al supermercato ci vado perché devo far la spesa, mica per guardare l’uva o i cetrioli. Son tutti lì a spendersi i soldi della pensione dei nonni, altro che. Dovrebbero fare una campagna per la protezione dei vecchi, altro che protezione degli animali. I vecchi sono gli unici che hanno i soldi, che hanno un reddito fisso, e allora i figli e i nipoti li mettono nel freezer e continuano a prendere la pensione. Sa a cosa servono tutti quei pozzetti e i congelatori che vendono adesso? Quelli grandi così? A tenerci dentro i vecchi. Ogni tanto tirano su il coperchio e gli fanno una carezza, come stai nonno? gli dicono, poi chiudono e li lasciano lì e nel frattempo gli arriva la pensione e loro vanno spendersela nei ristoranti. Più di mezz’ora ho dovuto aspettare fuori al freddo, dentro era pieno così. Poi sono riuscito a entrare, e ho mangiato tanto di quel sushi che stamattina ho passato un’ora in bagno.
(Anonimo lombardo durante la coda in panetteria, traduzione e adattamento dal milanese a cura di plus1gmt)
Una volta me l’ero presa con il marito. Era poco che abitavo qui, mia figlia aveva qualche mese. E lui ricordo si mise a tagliare il prato del giardino con il tosaerba un sabato pomeriggio, poco dopo pranzo. Mia figlia stava dormendo nella culla, in una stanza proprio di fronte alla loro villetta a schiera. Diamine, gli dissi, lei che è pensionato perché non approfitta dei giorni feriali, quando siamo tutti al lavoro, per dedicarsi alla manutenzione della casa? Potrebbe fare tutto il baccano che vuole che so, di martedì pomeriggio, no? Finì così, qualche parolone, chiamo i vigili e vediamo a chi danno ragione, ma nulla di più.
In estate, come tutti, tengono la finestra aperta, ma con la tv sempre ad alto volume all’ora di cena, quei programmi che più ne indovini più alimenti la speranza di toccare il milione, la faccia onnipresente del gerriscotti di turno che si vede anche da qui sul loro schermo a non so quanti pollici. E poi quel vizio di parlarsi, lei alla finestra mentre mette su il soffritto alle nove del mattino, lui sotto che ha sempre qualcosa da fare con il garage aperto. Fa, briga, svita, pittura, ramazza, smonta, rimonta, cerca, trova. E lei che lo chiama ma lui ha la faccia dentro la cassetta degli attrezzi e non può rispondere, magari è anche un po’ duro d’orecchi. Allora grida il suo nome più forte, e lui risponde urlando, e così per ogni nonnulla. Per non parlare delle conversazioni al telefono. Lo faceva anche mia nonna: più l’interlocutore chiamava da lontano, più forte parlava per coprire meglio la distanza.
Poi però qualche mattina fa ho visto lei prestissimo, era ancora buio, infagottata nel primo freddo autunnale, in piedi davanti alla porta di casa. In mano una borsa di tela che traboccava di buste color esame medico. Radiografie, esami del sangue, quella roba lì. Lui, nel garage, stava accendendo l’auto. Non so che dei due stesse accompagnando l’altro all’ospedale, magari un semplice controllo. Ma la mattina non è fatta per le malattie, per il doversi curare, per la preoccupazione di rimanere da soli e di trascorrere gli anni successivi senza il coniuge da sgridare perché si attarda a trovare la vite giusta e si raffredda la minestra. La mattina è il risveglio, tutto funziona per forza, come da sempre. Da sempre sorge il sole, qui sopra da qualche parte. C’è tutto il giorno per trovare un’ora libera per sentirsi male quando si è in pensione, o per sentirsi tristi, con tutto il tempo che si ha a disposizione, magari nei giorni feriali quando gli altri sono al lavoro. Lasciare la propria villetta a schiera tenuta così con cura, con il prato perfettamente raso, prima dell’alba quando è ancora buio è una delle cose più deprimenti a cui riesco a pensare.
Sapete quanto ami usare l’informatica come metafora dell’umana natura, ho vissuto tutte le fasi della sua evoluzione e della cosiddetta democratizzazione dei computer, dispositivi ridimensionatisi da elementi di laboratorio per cervelloni a elettrodomestici da poche centinaia di euro alla portata di (quasi) tutti. E non c’è nulla che come un hard disk che mi consenta di raffigurare la memoria di un uomo che, per l’età, inizia a dare segni di cedimento. File che non si trovano, errori di ridondanza ciclica, difficoltà nell’ordinare nella giusta sequenza operazioni elementari. Accorgersi che una persona che conosci da una vita intera, perché è la seconda persona che ti ha visto appena nato, perde di lucidità è un’eventualità spiazzante, cancella punti di riferimento, suona come un’anticipazione di una storia che sta per iniziare, di cui si immagina il finale e si spera sia, comunque, decoroso. Non sono pronto, è la prima cosa a cui ho pensato. Ma chi lo è.
In questa città si invecchia in un modo unico. Le coppie di anziani passano il tempo a parlarsi con l’accento da comanda, da padrone a bracciante, da avventore maleducato a cameriere inesperto, e a chiedersi scusa subito dopo per rimediare. Ma ad altre latitudini è peggio. Gli anziani hanno il volto cotto dal sole, le rughe segnate da stagioni trascorse sulle sdraio in riva al mare. Calzano ciabatte anche fuori di casa, sandali in cuoio incrociati sulle dita dei piedi; li vedi – vedi solo loro, laggiù i giovani non esistono – uscire dai negozi dei caruggi con le borse che traboccano di verdura, o mentre scelgono in pescheria la vittima designata. Grezzi e austeri. Altrettanto poco simpatici, ma in un modo diverso, non perché non hanno tempo. Ne hanno fin troppo. Anche a 80 anni con le borse in mano di quelle che ti segano le dita, perché con i carrelli su marciapiedi sconnessi e strade devastate dall’incuria la fatica è doppia. E infine su per rampe di scale strette e buie e ripide. A casa aprono cassetti in cui non ci sta più nulla, alcuni fitti di sacchetti di nylon ormai fuorilegge, altri di vasetti di yogurt vuoti di cui stento a immaginare il loro secondo impiego. Gli scuri chiusi, le infiltrazioni nei muri, la tv accesa a conciliare il sonno, dopo pranzo.
Questo è un post in prima persona singolare rivolto alla terza plurale, perché si parla dei miei nonni e, vi giuro, non so come, ma riuscirò a taggarli in qualche modo. Se non vi interessa e volete cambiare canale, fate pure, vi capisco. Anche a me annoiano i blog-diario dei ricordi. Ma qui, tra poco, fidatevi, ancora una volta si parlerà di musica, e i miei 2 nonni, Pietro nonno materno e Gigetto nonno paterno, per la precisione, sono solo un escamotage per introdurre l’argomento.
Dunque, un po’ di dati e date per iniziare. Mio nonno Pietro era del 1898, Gigetto del 1904. Entrambi erano appassionatissimi di musica, soprattutto di ballo liscio. Che – sono ignorante in storia del liscio – probabilmente ai tempi a cui mi riferisco (anni ’40, ’50 e ’60, prima che diventassero troppo anziani per ballare) magari non si chiamava neppure liscio, semplicemente folk, o musica popolare. Proviamo su wikipedia. Letto? Mi sembra un po’ lacunoso, anche perché nel nostro caso si tratta di “ballo al palchetto”, espressione tipica del basso piemonte. La festa del paese, giovanotti e donzelle che si affrontano, palo della cuccagna e così via.
Ma andiamo al nocciolo, e prendiamo i 60 di Pietro e Gigetto. La loro musica da ballo è quella: valzer, mazurche e tango. Negli anni 60 hanno sessantanni. E la loro generazione, nel loro caso peraltro di estrazione contadina, ha avuto altro a cui pensare che l’emancipazione della cultura giovanile. Quando cioè gli under 20 sono diventati un movimento, dal ’68 in poi. Non hanno quindi uno specifico musicale (non so se si dice così, ma passatemi il termine) di riferimento, giusto? Sì, ci sono stati i fenomeni della loro epoca, Natalino Otto e il Quartetto Cetra. Ma di certo non sono stati ispiratori di un modello socio-culturale, visto che – ripeto – avevano bel altri pensieri per la testa. Per esempio, come riempire la pancia.
Ora, prendo come esempio un qualsiasi sessanta-settantenne del 2011. Pensando a chi ha 70 anni oggi, è sufficiente una sottrazione per avere l’anno di nascita: 1940. Il che significa che nel 1970 aveva 30 anni, corretto? E che dai 20 ai 30 anni, cioè dal 1960 al 1970, dovrebbe aver ascoltato Elvis, i Beatles, i Rolling Stones, magari ha acquistato Deja Vu di Crosby, Stills, Nash & Young quando è uscito, nel 1970. A 30 anni, era il 1997, compravo ancora dischi underground. Fatemi l’esempio di un disco uscito nel 97. Ecco, il primo album dei Subsonica. L’ho acquistato, e sono andato pure al loro concerto, in un centro sociale. E li compro tuttora, i dischi. Si, lo so, ne scarico anche molti, ma questo è un altro thread. Mia nonna Pina (moglie di Gigetto) probabilmente ha iniziato ad usare l’espressione “Bitter”, una dialetizzazione dell’inglese “beat”, termine con cui definiva ogni giovane di allora con i capelli lunghi negli anni ’60. E tutti i giovani ribelli dei decenni successivi, me compreso, erano bitter. Anche questo è un altro thread, ma ci tenevo a dirvelo.
Il settantenne di oggi. Che magari si è sparato tutto il revival anni ’60 degli ultimi 30 anni. Una rotonda sul mare eccetera eccetera. Ora, avete mai provato a frequentare un luogo adibito all’ascolto della musica e alla pratica della danza dedicato ai settantenni? Quello che viene comunemente denominato balera? Sì? Bene. E che musica suonano le one-massimo-two-man-band che i gestori di tali locali ingaggiano per intrattenere gli attempati avventori, molto spesso la domenica pomeriggio? La stessa che ballavano Pietro e Gigetto, i settantenni degli anni 60. Rivisitata, moderna e plasticosa come qualsiasi altro prodotto sonoro musicale digitale di massa. Ma quella è. Ora ci sono più balli di gruppo, c’è il latinoamericano. Ma la matrice popolare del valzer-mazurka-polka-tango resiste, e per fortuna. Il folk è anche canzone popolare. E’ il peggio che deve ancora venire. Il peggio consiste nell’evoluzione dei generi da balera, che ha il suo punto di riferimento in Radio Zeta.
Ora tu, settantenne che leggi il mio blog (anzi, se vuoi commentare sei il benvenuto. Ehi, ho avuto un’idea. Un social network per anziani. Che business!). Tu che hai fatto parte della prima generazione pop della storia dei giovani, quella dei ventiquattromila baci. Cosa ti dà un pezzo così? E ho linkato il primo che mi è capitato sottomano. Tu che vai o guardi Festa in Piazza. Tu che ascolti Radio Zeta. La selezione musicale che trovi nei locali che frequenti (perché imposti culturalmente) ti soddisfa? E tu, one-massimo-two-man-band che schiacci play sul computer e canti sopra alla base nelle balere, barando magari a fine prestazione (direi sessione, nel senso informatico) sui borderò. (Apro un’altra parentesi: anche la dimensione uno sul palco, nessuno che suona, centomila che ballano in sala è disarmante. Ma non è più bello sentire un’orchestra con tanto di fisarmonica e sassofono e batteria? Ecco chi fiacca l’industria musicale, altro che il download. Chiudo la parentesi). Perché non provi a far evolvere la tua selezione musicale? Sei proprio sicuro che il settantenne del 2011 sia lieto di essere omologato in quello che il mercato della terza età impone alla terza età, e non invece desideroso di sentire la colonna sonora dei suoi primi tumulti ormonali? Vogliamo parlare dei lenti soul anni ’60? When a Man Loves A Woman di Percy Sledge è del 1966. Tu avevi 26 anni. Senti qui che roba. Vuoi farmi credere che preferisci un lento-beguine di Al Rangone? E ho preso a esempio il primo pezzo straconosciuto che mi è passato per youtube.
Vi chiederete: ma perché ti scaldi così? Sei un animatore geriatrico? No. Ecco perché: voglio chiudere condividendo con voi una promessa, che io e un paio di amici musicisti ci siamo fatti. Quando scatterà l’anno della pensione, visti i tempi che corrono inteso semplicemente come quando smetteremo di lavorare. Per esempio a 70 anni? Sarà il 2037 o giù di lì (urka, non è poi così lontano). Bene, quel giorno, salute permettendo, riformeremo la banda. E, lo dichiaro qui, faremo post-punk. Faremo addirittura pezzi nostri, oppure se ci proporremo alle balere suoneremo i Joy Division. Le coppie balleranno abbracciati “The eternal”. Pogheranno i Clash. Il nostro genere sarà Elder Wave. Vi prometto che non faremo mistoni solo perché fanno revival: non abbiamo mai ascoltato Michael Jackson, e non lo suoneremo. E ho già il nome del gruppo: I veterani del Punk. Che ve ne pare?