bestialità di agosto

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Ancora a proposito di aggiornamenti, il gattino che avevo eroicamente strappato a un destino crudele lungo un’autostrada toscana ora è un gigantesco felino che vive a casa di mia cognata, io non avrei potuto tenerlo visto che ne ho già due. Probabilmente porta i segni dell’esperienza di aver viaggiato incastrato in una feritoia di un’automobile, nel senso che non ha proprio un carattere addomesticabile. Comunque a suo modo è affettuoso. Ha persino subito una confusione di genere, nel senso che si pensava fosse una gattina e per qualche mese è stato chiamato con un nome femminile, fino a quando l’appartenenza è risultata inequivocabile così gli è stato affibbiato un nome maschile ma sempre terminante con la lettera a, forse per mitigare un passaggio transgender che lo avrebbe frustrato ulteriormente.

Invece non so più nulla del caro vecchio cane che aveva infilato l’ascensore per errore trovandosi poi in un appartamento simile a casa sua ma sistemato diversamente. Ho cambiato ufficio da un anno circa e non ci siamo più incontrati. Spero che lui (o lei) e relativo padrone che, come si dice, si assomigliano in tutto e per tutto continuino il loro menage quotidiano fatto di attese, per uscire e tornare a casa, perché in fondo la vita è così e ce ne accorgiamo se sbagliamo piano.

Avere cani d’altronde è una grossa responsabilità, e se vi ricordate bene il mio rapporto con il più fedele amico dell’uomo è piuttosto variabile soprattutto quando vado di corsa e devo per forza attraversare luoghi frequentati da chi li porta a spasso. A volte invece ho proprio paura perché fanno paura i loro proprietari, e quando te ne ritrovi uno che si è perduto – nolente o volente – è sicuramente da maneggiare con cura. C’è poi il dolore di quando cani e animali in genere si separano da noi, e lì ci accorgiamo del valore dell’esperienza di averli adottati. Se siamo quel che siamo, in fondo, è anche grazie a loro.

Quanto ai miei, di animali, anzi, di felini, ogni tanto spargo notizie e foto qui e là. Tutto sommato fa piacere averli per casa, un po’ meno notare che non perdono le cattive abitudini di svegliarmi a ore assurde, fino a quando combinano disastri o svomitazzano il cibo sul pavimento e allora devo rileggermi storie come queste per ricordarmi il motivo per cui ho deciso di condividere i miei spazi con loro.

sono o non sono i nostri migliori amici

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Ciò che differenzia noi umani dagli altri animali è la consapevolezza del tempo. Un’affermazione quantomai discutibile, potrei fare decine di esempi di strumentisti negazionisti dell’utilità del metronomo pronti ad astrarsi nella loro scansione matematica personale suscitata da aritmia, tachicardia o altre personali interpretazioni delle proprie pulsazioni di riferimento per mandare in vacca velleità collettive di successo. Ma, battute a parte, sia in senso musicale che in senso sistolico, circa la nostra capacità di orientarci tra un passato, un presente e un futuro c’è tutta una letteratura più autorevole di quello che ne penso e scrivo io e, soprattutto, molto più redditizia per gli autori che l’hanno prodotta a supporto della tesi di cui sopra.

E se a calcolare il divenire con l’unità di misura che tutti ben conosciamo siamo stati noi mi chiedo perché anche le altre specie non si siano date da fare in questo senso, e magari oggi non saremmo noi ad avere l’esclusiva di cose come Google Calendar. Non saremmo i soli dotati della capacità di sopportazione e controllo dell’attività dei succhi gastrici nella scansione del passaggio dalla notte al giorno in barba alle caffettiere con il timer che ci avvisano che anche oggi dobbiamo dare il nostro meglio. O cose meno prosaiche, come i musei antropologici con le registrazioni, dalla viva o giù di lì voce dei nostri bisnonni, delle tecniche per fabbricare il carbone nelle radure strappate alla vegetazione spontanea, lì sì che il tempo gioca un ruolo da protagonista, stiamo parlando di secoli, altro che quella manciata di giorni che ci separano dal venerdì sera e dal primo apericena della settimana. Voglio dire, dubito che un moscone si ricordi delle civiltà dei suoi avi una volta che poggia le sue zampette su qualcosa di esecrabile per noi, succulento per lui. De gustibus, si dice proprio così, ma stiamo parlando a uno stadio teorico perché sono essi, i non umani, che per primi non ci raccontano un po’ dei loro sogni nel cassetto, che nel caso di una tarma è più di un futile gioco di parole.

Ci è sufficiente utilizzare il nostro grado di evoluzione per stabilire una scala più o meno precisa dell’intelligenza degli esseri viventi con cui siamo costretti a condividere le risorse sempre più a rischio. In base a questa classifica di cui noi – sempre secondo il nostro punto di vista – deteniamo la posizione di vetta da molto prima degli scudetti del Genoa, ma almeno dalla scoperta di strumenti di business come il fuoco e il sesso avulso dalla riproduzione, possiamo stabilire chi è degno di farci compagnia. Animali non troppo feroci, che non pungono, fedeli e impegnativi quanto basta, in grado di suscitare tenerezza che poi è uno degli elementi per i quali sussiste una perpetua lotta per le posizioni di Champions League tra cani, felini domestici e, per chi vive in aree non metropolitane, i cavalli. Certo, l’ideale sarebbe anche in grado di non pesare sull’economia domestica. Nessuno però potrà mai arricchire la famiglia in cui è ospitato con l’esperienza scritta nella mappa genetica di riferimento ma asservirà al nostro bisogno di comunicazione ad alto tasso di aleatorietà interpretativa in un eterno presente fatto di scatolette, bastoni da riportare, ostacoli da saltare con il dolore degli speroni nel fianco.

Poi ci sono quelli che ti dicono che non è vero, ci sono addirittura gli animali vendicativi che si ricordano se gli hai dato cibo acquistato nel discount e che quindi hanno una qualche attitudine alla sistemazione cronologica degli eventi. Io non ci credo, e come prova di ciò vi invito a dare un appuntamento a un esemplare di una specie qualunque che non abbia ancora scoperto l’utilità delle calze di lana in ufficio quando il riscaldamento non è ancora a regime, e poi a dirmi come è andata e, in caso di esito negativo, quale scusa ha addotto.

it’s a dog-eat-dog world out there

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Se c’è una cosa che mi fa schifo è il cibo per gatti, direi quasi più che la lettiera o, persino, di quando rimettono (stavo per scrivere vomitano, poi ho pensato che è quasi l’ora di cena e qualcuno di voi ipersensibili mangia davanti al computer) e occorre pulire tutto. È una tara che mi porto dietro da quando il primo gatto mise le zampe in casa dei miei, e mia mamma (ovviamente fu lei a prendersi carico della cura degli animali domestici oltre al lavoro e a mio padre e a noi tre figli) la mattina, mentre facevo colazione, apriva quelle bombe chimiche delle scatolette industriali. Negli spot, gatto e padrone si scambiano profondi sguardi d’amore sopra le ciotole ricolme di tali leccornie. Ma credo che se sotto al naso dell’attore ci fossero davvero le porcherie che ci vengono proposte come delikatessen, sono certo che gatto e product manager si prenderebbero delle sonore pedate nei relativi fondoschiena. Magari il gatto no, poverino, non c’entra nulla. Beh, mia madre apriva la scatoletta alla fragranza del giorno e a me, già imbestialito per dover andare a scuola, prono sulla scodella di caffelatte fumante, saliva la nausea.

Ma si sa, uno prende un animale e subito è tutto lanciato nel dargli il meglio. Poi inizia la routine, magari ti svegli tardi o torni a casa a un’ora assurda e non hai voglia di preparare nulla, figurati per una bestia, quindi ti fai tentare e apri la vaschetta. Bleah, pensi, lo sapevo che prima o poi ci sarei cascato. Per non parlare delle lattine, in cui oltre ai moncherini di chissà quale animale macellato senza tanti complimenti e distinguo tra carne e non-carne c’è la broda che, nella strattone dell’apertura, magari ti finisce addosso. Però questo è il prezzo della società occidentale, sfamiamo animali domestici mentre là fuori c’è tutto un emisfero che muore di inedia, e la filosofia dei quattro salti in padella prima o poi la si applica anche agli animali di casa.

A noi però è successo che, mentre eravamo in ferie, uno dei due mici ha contratto un virus intestinale, o forse ha mangiato cibo che, al sole di agosto, si è avariato. Inutile sottolineare che dovendo mobilitare persone ad hoc per provvedere alle bestie abbiamo necessariamente dovuto ricorrere al cibo in scatola. Fatto sta che il veterinario ci ha consigliato una bella dieta e una crema per ricostituire la flora intestinale. Una dieta ovviamente a base di cibo cucinato in casa, pollo, riso, pasta, pesce. Così, io che trovo il cibo in scatola ripugnante, mi trovo alle sette del mattino a disossare polli bolliti in pentola a pressione, staccando pezzi di carne dal cadavere di quello che fino a qualche giorno prima è stato un essere vivente come i miei gatti. Proprio io che, l’unica volta in cui ho provato l’ebbrezza della macelleria durante il servizio militare, sono svenuto dall’orrore prima di tagliare una fettina. E mentre sono lì a violare quel che resta di una vittima designata di allevamento, mentre là fuori riparte per la miliardesima volta la giornata frenetica del genere umano, sento che non mi tornano tutti gli anelli di questa tragica quanto efferata catena alimentare, perché io, quelle due bestie pelose che mi si strusciano sulle caviglie imploranti mentre preparo loro la colazione, mica me le posso mangiare.

se non ce l’hai nel sacco

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In principio era solo una bambina. Poi si è aggiunto un pesce rosso nella sua boccia di vetro, ma si sa, non sono molto interattivi i pesci, e la bambina voleva un animale più incline ai rapporti con il genere umano. Gli animali aiutano a crescere, diceva sua moglie, sono educativi, affinano il senso di responsabilità. Sarà. Il papà ricordava ancora i gatti da appartamento con cui ha condiviso parte della sua crescita. Il primo, anzi secondo in ordine di arrivo, era praticamente inavvicinabile, raccolto chissà dove e caratterizzato da un approccio aggressivo avuto come imprinting nei confronti dei bipedi di sesso maschile, calzanti scarpe n. 44 di fattura abbondante e di colore scuro. Probabilmente aveva avuto un duro scontro con un anfibio, e la sorte ha voluto che proprio nell’appartamento in cui gli era stata offerta una seconda opportunità convivessero già entrambi gli allarmanti particolari, il maschio e la calzatura rinforzata n. 44 nera, quindi la sua vita di felino non era migliorata di molto. Pasti caldi (si fa per dire) e sicuri, ma sempre all’erta e unghie pronte. Il secondo, anzi primo in ordine di arrivo, era un esemplare extralarge, poco più che un soprammobile a causa della stazza raggiunta dopo anni di pietanze eccessive e di vita sedentaria, campato non si sa come fino a 17 anni, i peli del quale è facile ancora trovare in qualche anfratto nascosto di quel monumento alla “vita che fu” che è la casa-museo in cui il papà era nato. Per farvi capire, il soprannome di quel gatto era “Supersize Meow”. Morti entrambi i felini, il papà oramai adulto ha evitato di un soffio l’arrivo della terza gatta, la meno socievole mai vista nella storia degli animali casalinghi. Per sua fortuna viveva già altrove. Ma i ricordi delle nauseabonde lattine di cibo per gatti aperte la mattina presto, o della lettiera impregnata dei loro scarichi, confinata negli ambienti meno frequentati della casa, ma comunque da pulire e rimescolare ogni dì, erano ancora vivi nella sua memoria, e si era ripromesso che mai più avrebbe condiviso i suoi luoghi con esseri viventi dotati di più di 2 gambe e privi della funzionalità del pollice opponibile. Tenendo conto che le scimmie non possono essere adottate, la scelta si era ridotta di molto.

E invece, per farla breve, un bel giorno è bastato un attimo di debolezza, più che distrazione, ed è accaduto l’irrimediabile. Un gatto, sì papà prendiamo un gatto, sì caro un gatto riempirebbe di più la casa. Ma poi come si fa in vacanza? Ma sì, una soluzione si trova. Ma poi si sentirà solo tutto il giorno in casa mentre siamo al lavoro e lei a scuola. Allora prendiamone due, così si tengono compagnia. Sì papà prendiamone due, due fratellini, così possono giocare anche quando noi non ci siamo. No, non se ne parla, e i peli, e il veterinario, e il buco nella porta finestra per farli uscire, e la puzza, e insomma va bene, prendiamo due gatti. Ecco. Il caso poi ha voluto che il pesce rosso si suicidasse proprio la sera prima del loro arrivo, quindi non ha potuto nemmeno salutare i suoi nuovi due compagni di ventura. E ora voi non potete vedermi, ma oggi, primo giorno di ferie, sono ancora a letto, ho il pc portatile in grembo, e malgrado i 30 gradi ho due gatti, sorella e fratello, pigramente appisolati lungo le mie gambe. E, appiccicata al mio fianco, c’è anche la  bambina che li ha pretesi, che si gode il sonno del mattino. Non vi dico la sensazione del contatto tra corpi caldi in agosto, ma, tutto sommato, sorridendo, mi sento di dire che va bene così.