ai miei amici

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Cari amici, se leggo le vostre parole inscritte nei fumetti delle chat vi immagino come goccioline di vapore acqueo che non state in nessun posto, in ognuna c’è un po’ del riflesso di come vi ricordo e chissà come siete adesso. Rovinati come me dall’età e dalle voci nella testa che prolificano come roditori e in quanto roditori è bene star loro alla larga che non si sa mai, sapete le malattie. Amici che non ci vediamo più da lustri e decenni, che ci rivolgiamo domande come se fosse naturale che ci interessano ancora le stesse cose di allora e invece già il fatto di doverci mettere comodi per cercare di mettersi a fuoco dovrebbe essere un mutuo segnale che non è così. Amici mi spiace di essere uno di quelli ai margini che c’era sempre qualcosa prima di più urgente, di più remunerativo, di più strumentale e più distante, per allontanarmi. Ancora adesso ho difficoltà a stare fermo, sarei un pessimo adepto per le scuole di yoga, dopo un po’ devo cambiare la gamba d’appoggio e riconfigurare l’equilibrio. Così è stato anche nella vita, almeno fino a un certo punto e poi non so come è andata. So solo che mi ci sono visto riflesso e facevo una splendida figura, almeno lì. Amici miei cari, se non torno è perché sono a disagio, dovremmo ammettere che abbiamo perso, che sarebbe stato più facile da ricordare se fossimo stati più lucidi allora mentre cercavamo di esserlo il meno possibile. Il repertorio, poi, sarebbe lo stesso, per tornare intimi almeno per qualche ora ma non so se ci piacerebbe. Parlare di ora, di quanto ci siamo sconosciuti, ne resteremmo delusi e desiderosi di tornare al presente. Amici miei, ecco: restiamo dove siamo, con reciproci auguri a vedersi per caso e, in quel caso, a portare qualcosa che riassuma tutto il periodo in cui siamo stati dispersi per poi trovarci così, con il nostro vigore stemperato nei social network, nelle foto che è tutto un tirare un sospiro di sollievo che in fondo va bene così, va bene che non ci siamo più incontrati.

le regioni rosse da mettere a fuoco

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Era la prima volta che facevo un viaggio lungo in macchina con l’aria condizionata. Lei no, lei c’era abituata. D’altronde l’auto era quella di suo papà e non era certo una poco avvezza al lusso, o per lo meno ad agi come quello. La tecnologia un po’ migliora il modo di vivere, e tra guidare nella canicola di agosto in autostrada con i finestrini aperti e fare lo stesso al fresco in un abitacolo non c’è stato il tempo di logorarsi troppo per scendere a compromessi oppure no. Ma mi è stato sufficiente fermarmi un secondo a stirare la schiena oltre il casello autostradale per prendere coscienza dell’inferno a cui avevamo rischiato di sottoporci. Già una volta avevamo perso il treno per Bologna. Noi eravamo sul binario in attesa a chiacchierare, l’Intercity si era fermato, alcuni erano scesi e altri saliti ma noi non ce ne eravamo nemmeno accorti e il treno era ripartito lasciandoci lì. Abbiamo chiesto a un ferroviere di passaggio che ci ha confermato il nostro timore. Avevamo perso l’ultimo treno diretto e siamo stati costretti a prendere locali e regionali infiniti. Il nostro destino sarebbe stato negli spostamenti su gomma, altro che rotaia.

Quella volta invece dovevamo alloggiare da un amico della persona da cui ci eravamo autoinvitati, i soggiorni a mutuo scrocco erano un classico delle vacanze low cost. Avremmo dormito in una specie di agriturismo per turisti nordeuropei, quei posti così inospitali e forzosamente austeri che piacciono solo a loro. Era una cascina sull’appennino gestita da un ragazzo del posto che si era messo con una olandese, una studentessa ora trentenne che si era spostata da quelle parti anni prima per un corso di ceramica, poi si erano conosciuti e così aveva deciso di fermarsi. Quei tipi che si vedevano una volta, con le salopette a quadrettini, le Birkenstock e gli occhialini tondi sotto i capelli corti, sia lui che lei. Lei che era un contatto linguistico e un fenotipo utile con le terre settentrionali da cui proveniva la maggior parte degli ospiti. Facevano una vita quasi ascetica, vegetariani e coltivatori del minimo necessario al sostentamento proprio e dei clienti. La cena infatti fu a dir poco frugale, ma tutti i commensali sembravano in forma e quasi contenti del sacrificio, parlando con loro ho notato che solo noi italiani ci abbuffiamo la sera per coricarci con cibi pesatissimi sullo stomaco, che non fa bene.

C’era solo una stanza libera con un pagliericcio senza lenzuola e ci siamo arrangiati, giusto un telo da mare sotto ma con il caldo che faceva non avremmo sopportato altro e poi l’alloggio era gratis e per solo una notte. Avevamo lasciato gli scuri aperti per via del buio apocalittico che circonda la campagna di notte e a cui nessuno è più abituato, solo che così secondo lei c’era il rischio di favorire l’ingresso di pipistrelli in camera. Nemmeno a farlo apposta, saranno state le tre o le quattro del mattino, non so, lei mi aveva svegliato perché c’era un’ombra sospetta a forma di v proprio sul soffitto sopra le nostre teste. Faceva così caldo che non mi veniva in mente nemmeno un modo intelligente per risolvere la situazione. Ma ho pensato che, accendendo la luce, il volatile notturno si sarebbe spaventato e, a furia di svolazzare sbattendo contro le pareti, avrebbe infine imbroccato l’uscita giusta. Un’opzione che lei mi bocciò dapprima su tutti i fronti, non pensava di sopravvivere se il pipistrello, come racconta una nota leggenda metropolitana, le si fosse infilato tra i capelli. Ma io non avevo alternative, non avremmo potuto riaddormentarci in quelle condizioni, quindi la pregai di mettersi il telo da mare intorno al capo così da verificare l’efficacia del mio piano. Ricordo di aver acceso la luce e di aver sentito il suo grido. Ma sul soffitto non c’era nulla se non una macchia a forma di pipistrello che, non so per quale legge di rifrazione, con il buio aveva assunto contorni tridimensionali. Io avevo una mia teoria, tra l’altro, a proposito di macchie sul muro. E cioè che un po’ incarnano le nostre paure e proiettiamo in esse le cose che non vorremmo vedere. Da bambino vedevo macchie di umidità che sembravano ragni, banditi con il cappello, alieni. C’è stato un momento in cui era in voga giocare con il bicchiere e le lettere sul tavolo per fare le sedute spiritiche, e io ogni sera, prima di addormentarmi, vedevo materializzarsi sulla parete a fianco del mio letto la faccia di Mozart perché era il personaggio che cercavamo di evocare, non chiedetemi il perché. Scorgevo un viso rosso e immobile, ma forse era la macchia che resta fissa nel nostro sguardo quando, anche per un istante, osserviamo una luce accesa come l’abat-jour sul comodino, prima di spegnerla. Comunque, la notte del pipistrello l’urlo aveva sventato il pericolo e aveva però svegliato i cosiddetti tenutari, che si erano precipitati a controllare che problemi potessero avere due come noi. E forse avevamo svegliato anche gli altri turisti.

La mattina successiva il tempo era ancora caldissimo ma il cielo sembrava nuvoloso, tutti facevano il tifo a colazione per un temporale estivo. La giornata prevedeva la compagnia dell’amico che ci aveva accompagnato il pomeriggio prima all’agriturismo, lui poi se ne era tornato a casa. Era domenica, e per il pranzo aveva pensato di portarci, anzi, di farsi portare con l’auto e l’aria condizionata a una celebrazione partigiana lì a pochi chilometri. Si doveva salire di qualche tornante più in alto. C’era un museo che raccoglieva reperti e testimonianze della Resistenza che, su quelle vette e dentro a quelle valli, aveva svolto un ruolo importante all’interno della storia di quel secolo che si apprestava a concludersi. I vecchi partigiani raccontavano le gesta e rispondevano alle domande.

Fuori dal museo gli organizzatori avevano allestito uno stand in cui alcuni volontari preparavano piadine, tigelle e altre amenità locali, di cui approfittammo considerando soprattutto l’economicità di quel pranzo. A fianco c’era un palchetto su cui si alternavano discorsi a musica. Salì un gruppetto di giovanissimi che, chitarre alla mano, inanellò una serie di cover dei CCCP tra cui l’immancabile, visto il contesto, “Spara Juri”. Un ex partigiano, seduto a fianco a me, notò a voce alta che loro, le scarpe Adidas, mica ce le avevano quando combattevano la guerra civile per affrancarci dai nemici dentro e fuori. Ascoltando il punk filosovietico, il nostro amico si rammaricava dell’assenza della sua ex, si erano lasciati da poco e quella formula a tre, io lei e lui, una doppia coppia mancata, aveva qualche impatto sulla dinamica delle conversazioni.

Era un ragazzo che conoscevo da poco. Aveva incontrato la proprietaria dell’auto full optional aria condizionata inclusa in una cittadina del Belgio, dove si trovavano entrambi per quegli scambi tra universitari dove si va a far baldoria lontano da casa. Lui era così senza soldi che era giorni che si nutriva solo di biscotti, una confezione destinata altrimenti a scadere che aveva rinvenuto nella stanza che occupava. Lei così lo invitava a cena spesso, gli aveva forse anche prestato qualcosa ma non ne sono sicuro, di certo lui si sentiva in debito anche se in quel modo irriverente in cui comunque uno si sente di aver già espiato.

C’era anche il legame di sponda che avevano mantenuto con la cittadina del Belgio in cui avevano soggiornato. Lo zio di lei era un professore universitario e aveva le mani in pasta in questo traffico di cervelli accademici, un tipo davvero originale che una volta si era pure prestato ad aiutarmi nel trasportare un frigo che avevamo trovato nella spazzatura, un pezzo da collezione di design retro, fin quasi su in casa mia. Addirittura, tempo dopo, lo zio docente aveva fatto venire in Italia una ragazza di Bruxelles. Aveva convinto la sorella di lei – sempre la tipa dell’aria condizionata – ad affittarle il suo bilocale ammobiliato, tanto non ci viveva quasi mai.

Questa ragazza belga aveva ottenuto così un appartamento tutto per sé a un prezzo stracciato. Lì vicino alla casa che occupava aveva quindi scoperto la gelateria, che poi è una delle cremerie più note della zona, e ogni giorno, andando in facoltà, si faceva fuori un cono con un gusto solo, ogni volta differente, per provarli tutti. Dopo qualche settimana con un ritmo così aveva messo su qualche chilo, ma non si vedeva più di tanto, era alta e anche piuttosto carina. Una volta in un locale in cui avevamo trascorso tutti insieme una serata, per levarsi di torno un tizio che la tampinava gli aveva detto che io ero il suo fidanzato e mi aveva anche messo un po’ in imbarazzo.

Della ragazza belga ne ho sentito parlare tempo dopo, quando ho chiamato al cellulare un amico che rispondendo mi ha pregato di mettere giù subito, si trovava a Bruxelles e si sa che nelle chiamate internazionali paga il traffico anche chi le riceve. Comunque prima di interrompere la conversazione mi ha fatto salutare da lei, che era lì al suo fianco, entrambi seduti a un tavolino di un bistrot, che combinazione. La coppia dell’agriturismo non l’ho mai più vista. L’amico che ci aveva invitato laggiù l’ho invece incontrato un anno dopo, ero capitato dalle sue parti e anche se la storia con la ragazza dell’aria condizionata era finita, ed era lei il nostro debole tratto di unione, avevo pensato di chiamarlo lo stesso. Mi serviva infatti sapere dove poter mangiare le piadine più buone della cittadina in cui viveva, una cosa che si fa spesso quando sei in un luogo e hai bisogno delle informazioni giuste da qualcuno che è del posto. Gli ha fatto piacere avere mie notizie, mi ha spiegato come arrivare al chiosco nel parcheggio dello stadio, di fare attenzione perché ce n’erano due ai due lati e uno era molto meglio dell’altro. Poi mi ha raggiunto lì, qualche minuto più tardi.

manie di protagonismo

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Dovevate vedere la sua faccia quando lei lo ha lusingato dicendogli una cosa così, che poteva sembrare una battuta. Ma per uno come lui, completamente privo del senso dell’humour o comunque facile a prendere sul serio qualunque conversazione, risultava una cosa talmente intima da mandarlo in tilt. Dell’ascendente che lei aveva su di lui ne ero certo, e risaliva alla volta in cui lui mi aveva fatto notare che scambiare quattro chiacchiere con lei durante i viaggi in treno era piacevole, malgrado fosse complicato distrarla dalle attenzioni degli altri pendolari di sesso maschile che si prestavano a catturare il suo interesse ma solo perché le si scorgevano quasi sempre le mutande, viste le micro gonne che usava indossare.

Dopo quell’episodio, che era davvero una manciata di anni prima, si era trovato poi per caso alla discussione della laurea di lei su non so che opera di Antonio Rosmini. E sottolineo per caso, perché poi le sue gonne si erano allungate, sapete com’è, la moda cambia e la vita di conseguenza. E se lui non l’aveva quasi più frequentata – cosa di cui sono certo perché con lui ho preparato quasi tutto il resto degli esami che ci separavano dal termine della nostra carriera accademica – era solo perché la considerava troppo bella per un rapporto duraturo. Una di quelle ragazze che poi a mantenerle con sé diventa molto impegnativo, soprattutto se sei un po’ possessivo e il patire la disponibilità altrui al dialogo con terzi, quando i terzi poi vorrebbero solo portarsi a letto gli altrui, spesso degenera in malattia tendente all’insanità totale. Meglio non iniziare nemmeno, mi ammoniva lui.

E dicevo dell’incontro in facoltà per caso. Lui era lì con me solo per consegnare una risma di appunti a qualche matricola, e si era trovato così nell’aula magna mentre lei – in un elegante tailleur con pantalone, questa volta – stringeva la mano al correlatore e suggellava con una lode il suo curriculum studiorum. Il tutto mentre il fotografo ufficiale della cerimonia immortalava, sullo sfondo di quel momento epocale, le espressioni abbagliate dal flash di tutti gli astanti comprese le nostre, nel senso di mie e di lui, impressioni di sorpresa. La mia del tutto irrilevante per questa trama, la sua invece talmente determinante tanto che lei gli chiese di posare in quel frangente in tutte le foto del servizio, anche quelle con mamma e papà. Aveva infatti frainteso il motivo della sua presenza, quella mattina, illudendosi – senza essere peraltro smentita, beninteso – che lui si trovasse lì solo per lei.

E manco a dirlo il cerchio si è chiuso ancora qualche anno più tardi. Io e lui avevamo messo su un duo di pianobar, io al piano e lui al bar e alla voce,  giusto per arrotondare in nero (nel senso della divisa ufficiale del duo, cosa credete) i guadagni delle nostre rispettive attività di giovani in attesa di occupazione. Accettavamo qualunque tipo di ingaggio, soprattutto i matrimoni dove era più facile ubriacarsi a scrocco degli sposi con gli invitati, che tanto in caso di deriva avrebbero tifato più per i musicisti che per la coppia “just married”.

E avete capito bene come va a finire questa storia. Quando marito e moglie hanno fatto il loro ingresso nella sala del ristorante, tutta agghindata di vegetali colorati e profumati che nemmeno al festival di Sanremo, in cui si sarebbe tenuto il banchetto nuziale per il quale il proprietario ci aveva assoldati. Sulle note di un adattamento per strumenti in playback di una delle due marce nuziali più conosciute, e conoscendone la difficoltà giurerei si trattasse di quella di Mendelssohn ma non è che me la cavassi bene nemmeno con quella di Mozart. Proprio lì, la novella sposa – questa volta in abito lungo – e la sua vecchia fiamma che in quel momento aveva una chitarra a tracolla si sono guardati con la sorpresa di chi è sopraffatto dall’ineluttabilità delle coincidenze. Ed è lei che è stata la prima a rompere il ghiaccio, dicendogli che si sentiva così strana nel sapere che lui avesse fatto di tutto per starle vicino anche in quel passo importante che è il matrimonio tanto da voler essere ingaggiato per la parte di balli e intrattenimento sonoro. Senza essere peraltro smentita una seconda volta, beninteso. Ma questo è stato sufficiente a far sì che lei gli chiedesse di farsi riprendere anche nelle foto ufficiali, quelle che si fanno prima coi genitori, poi con i parenti di entrambi eccetera eccetera.

Ed ecco perché lui si è sentito lusingato quando, a fine cerimonia e staccando un assegno a cinque zeri (vigeva ancora la lira), lei gli ha detto che pensava di trovare così romantico il fatto che lui fosse stato presente in tutti i momenti più importanti, come la laurea e le nozze, e ci sono pure le foto a testimoniarlo, come se si trattasse di una delle principali figure di riferimento della sua vita. Che poi magari lo era anche.

shazzan!

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Sarebbe interessante allestire un Facebook ombra raccogliendo e organizzando le parti tagliate delle foto dei profili degli iscritti. Avete presente vero quelli che non trovano di meglio che prendere una foto scattata in compagnia al mare, durante una cena, in ufficio o – le peggiori – stretti al proprio partner e riciclarla come immagine individuale dopo aver ritagliato il quadrato in cui inscrivere il proprio faccione gaudente incuranti dei particolari che lasciano dedurre la presenza di qualcun altro lì vicino? Una porzione di viso, un arto, i capelli. E spesso non si tratta nemmeno di placeholder temporanei, perché restano lì per mesi e anni e ci sarebbe da chiedersi che fine hanno fatto i rimasugli della versione originale della foto, che è vero che stiamo parlando di byte e non di carta fotografica, ma allo stesso modo del formato materico estromettere da uno spazio pur privato uno o più comproprietari di un bene come un istante di vita comune immortalato da una macchina digitale suona come una mancanza di rispetto. La prima cosa a cui penso quando mi imbatto in questi trattamenti sommari e spesso eseguiti con pressapochismo è che l’autore che si ritaglia – è proprio il caso di dirlo – il ruolo da protagonista unico ha volontariamente commesso un atto di disprezzo nei confronti di un ex, amici con cui ha litigato, famigliari che rivede solo in tribunale rappresentati da legali avversari. E credo che se capitasse a me di riconoscere qualche mio particolare anatomico sullo sfondo di un primo piano sorridente chiederei l’immediato intervento di rimozione tramite fotoritocco qualora l’interessato non volesse per nessun motivo far rientrare anche me nella sua pagina utente. Perché, che diamine, possibile che hai solo quella foto lì? Piuttosto metti una foto in controluce, con delle automobili sullo sfondo, o scattata da lontano così non si capisce né chi sei tu e né di che paesaggio si tratta quello che hai voluto a tutti costi che i visitatori del tuo profilo associassero alla tua persona. Ma, dato che da cosa nasce cosa, ho avuto un’idea. Un concorso. Ricordate quel cartone animato di quei due fratelli ognuno dei quali indossava la metà di un anello, la cui unione evocava una specie di genio della lampada di nome Shazzan? Ecco, quando troviamo una foto palesemente tagliata, e se si tratta di due persone guancia a guancia in cui la scissione risulta ancor più dolorosa e non solo per la parte mancante, sguinzagliamoci come segugi nei social network per trovare la porzione complementare. Ricomponiamo la foto e inviamola ai relativi proprietari, qualcosa di magico sono certo che succederà.

chi l’ha visto

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Se sei ancora come quando ci si vedeva di più, e cioè se riesci ancora a sfuggire a tutto e a tutti e quindi in realtà non è che ci si vedesse di più perché involontariamente o no facevi di tutto per non renderti localizzabile. Se sei ancora così lanciando una ricerca su Google con il tuo nome e cognome i risultati dovrebbero essere pochi. Ma non è così, in realtà sono praticamente nulli. Zero. Risulti solo di striscio in un flyer in pdf come venditore di abbigliamento tradizionale thai in un mercatino tematico e temporaneo e oramai terminato perché organizzato il Natale scorso, quindi nemmeno lì potrei rintracciarti.

E infatti mi piacerebbe proprio rintracciarti ma tranquillo, non voglio metterti in allarme, non è successo niente. È che oggi che la rete ci fa sentire onnipotenti, il fatto che qualcuno si sottragga alla presenza elettronica è causa di frustrazione per noi che siamo abituati a guglare chiunque e in zero virgola undici secondi di media sappiamo che faccia ha questo signor chiunque e dove vive e se è invecchiato male oppure no. Così quando qualcuno sfugge al nostro controllo, nostro di tutti quelli che hanno almeno una finestra di browser attiva, preferiamo ammettere che forse l’oggetto della ricerca non è più tra noi piuttosto di accettare il fatto che non possieda nemmeno un profilo su Facebook. E solo per questo motivo vorrei sapere dove sei e cosa fai in questo momento per avere la certezza che va tutto bene.

Così ho pensato di rendere pubblici alcuni tuoi dati in tua vece, così tutti quelli che ti conoscono come me possono avere qualche possibilità in più di mettersi in contatto con te. Tu che durante l’estate tra la seconda e terza media non so ancora cosa ti fosse potuto succedere ma eri diventato improvvisamente adulto. C’eravamo lasciati a giugno con quella faccia di transizione che viene a tutti e che non si sa dove ti farà approdare e quei vestiti da babbionelli anni 70 e ti eri ripresentato a settembre con la barba, i jeans scoloriti e una maglietta provocatoria.

Poi avevi scelto di frequentare le superiori in un istituto agrario che era fuori, anche quella una cosa da grandi, e la prima volta che ci eravamo incontrati di lì a poco mi avevi fatto qualche allusione che non avevo capito subito e alla quale sono arrivato dopo. Volevi farmi capire che, a seguito di una meticolosa documentazione, avevi provato delle sostanze illegali. Poi qualche anno più tardi eri stato in ospedale per una cosa che non avevo capito cosa fosse ma che sapevo rientrasse tra le conseguenze di chi sbevazza di gusto. Poi l’università e lì hai iniziato a occuparti di artigianato, cosine in legno e in argilla, lampade e vari oggetti e a partecipare ai mercatini dei fricchettoni. Ricordo che avevi un Transit azzurro e che forse ci abitavi pure. C’è stato un periodo in cui però era ancora facile contattarti, avevi pure il cellulare vista la vita nomade che conducevi, e durante il quale mi rivolgevo a te quando avevo bisogno di fare un regalo originale, arte povera, perché ero certo che le tue produzioni erano davvero singolari.

A quel punto c’è stato lo stacco, un buio di vent’anni almeno in cui ti ho visto appena due volte. La prima per caso nel marasma di una cittadina sarda invasa immeritatamente dal turismo giovanile che di sera si riversa tra una distesa di paccottiglia etnica ideale per millantare agli amici viaggi esotici mai fatti. Eri lì in mezzo e non eri cambiato, sempre con quell’espressione da Gaetano Bresci e i baffi da carbonaro pronto a mettere a ferro e fuoco il sistema. La seconda sempre per caso nella nostra comune città di origine, entrambi al fianco di donne che sembravano essere quelle per sempre, la mia almeno. Ecco, da oggi chiunque farà una ricerca su Google inserendo come parole chiave cose tipo Transit azzurro, fricchettone, baffi da anarchico insurrezionalista e mercatino dell’artigianato forse arriverà su questa pagina che fungerà da collettore di interessati che ti conoscono e che potranno scrivere qui in calce qualche informazione su di te, dare fine al tuo anonimato sul web, tranquillizzare un amico.

se siamo così tanti ci sarà un motivo

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Quello dell’invecchiare è un processo a cui nessuno di noi è abituato, questo paradossalmente perché ci investe sin dal primo istante di vita, ma gli stadi che si susseguono ci sono estranei perché non li abbiamo mai vissuti prima se non di esperienza riflessa. Quindi pensiamo di sapere come ci si comporta da ragazzini quando siamo bimbetti, come si fa a fare gli adulti da adolescenti, come saremo da anziani già da adesso. Così vederci riflessi negli altri che ci sono stati più o meno vicini in tutto questo percorso e vedere gli altri come non li avevamo visti mai mano a mano che questa via si dipana è quantomeno sorprendente, perché poi alla fine le persone, gli amici, i nostri cari sono sempre gli stessi ed è bello seguire questo gioco delle parti quando vedi qualcuno con frequenza ma a intervalli non vicinissimi e quindi ogni volta è una volta nuova in una reciproca epoca di vissuto. E credo che la magia che mantiene costante e vicendevole la voglia di conoscersi sempre più approfonditamente nei nuovi ruoli che con il tempo si acquisiscono – persone che diventano genitori, inquilini di una casa di proprietà, disoccupati, esperti degustatori di vini, vittime di lutti famigliari, riconosciute autorità nel proprio settore, emigranti poi ritornati e, valido per tutti, consapevoli portatori sani di capelli bianchi quando i capelli ci sono ancora – sia quello che nei manuali di saggezza popolare viene universalmente riconosciuto come una delle cose per le quali vale la pena vivere. Del resto non si potrebbe fare altrimenti. Oh be’ sì certo, uno può decidere che è meglio morire soli che male accompagnati. Ma noi che a scadenza regolare rinnoviamo l’iscrizione a questo club di massa degli animali sociali, finché ce ne sarà data la possibilità e ne avremo i requisiti, amiamo metterci intorno a un tavolo magari anche una volta ogni due o tre anni, e lì basta poco per ristabilire i punti di contatto e tutto quello che precedentemente si è costruito insieme e che con il tempo è diventato patrimonio comune. Poi ci si guarda negli occhi mentre a turno ciascuno di noi parla e racconta e ride, ed è semplice rivedere accesa la stessa luce che ci ha consentito di unire gli spiriti non si sa bene quanto ma tanto tempo fa, e malgrado involucri sempre in mutamento – chi meglio e chi peggio – basta poco ed ecco che lì dentro si trova la stessa materia prima, ogni volta, in quantità inesauribile.

simple m

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Ti voglio dedicare un pezzo a dimostrazione del fatto che come vedi non sei stato solo di passaggio nelle nostre vite ma hai rappresentato qualcosa di importante per tutti noi, e non ti meravigliare se considero questo comitato virtuale di attribuzione di onorificenze come un insieme coeso di amici anche se in realtà poi a scrivere è uno solo e chissà dove saranno tutti gli altri, i membri fondatori come me o i soci onorari e quelle persone ex ragazzi e ragazze con cui ci accompagnavamo nella delicata fase in cui abbiamo assistito al reciproco transito. E se voglio dedicarti una delle canzoni che più ci siamo divertiti a interpretare con le nostre azioni quotidiane è perché desidero che tu riceva un premio in prima istanza per come eri – e come immagino tu sia ora -, per la tua sorprendente sensibilità e complessità malgrado fossi stato indirizzato al lavoro dopo la terza media a causa probabilmente della visione di te che avevano i tuoi genitori e chissà cosa e come saresti diventato se avessi avuto l’opportunità come tutti noi di studiare e frequentare un liceo anziché chiuderti adolescente in una officina con uomini adulti e calendari di pin up a seno nudo, la stessa in cui ripari automobili ancora oggi a distanza di trent’anni. Non che tu non svolga una professione nobile, anzi. E a dirla tutta, il fatto che a differenza di tutti noi per te sia stato possibile emanciparti e renderti indipendente con largo anticipo rispetto al resto del gruppo parcheggiato lustri fuori corso all’università è stato fonte di ammirazione e amichevole invidia soprattutto per la collezione di rarità e bootleg che ti potevi permettere.

Una differenza nei percorsi di vita individuali che però tu mettevi sempre alla casella di partenza di ogni confronto in caso di discussione fino a utilizzarla come tasto di trasferimento nell’iperspazio nei momenti più difficili, quelli in cui scomparire dalla vista degli altri si prospettava come la soluzione più adeguata a non dover ammettere una inadeguatezza. E la prima volta in cui avrei voluto dedicarti questo pezzo è stato quando ti ho trovato in lacrime a casa mia, eri corso disperato da me e pur non avendomi trovato avevi atteso ore il mio rientro senza vergognarti di piangere ininterrottamente di fronte a mia madre per un motivo che magari è meglio non ricordare qui, dato che con il metro di giudizio che abbiamo ora che siamo di mezza età cose così sminuirebbero la portata della sofferenza che avevi provato. Ma non solo.

Ripenso a tutto quello che hai scelto di imparare da autodidatta come hai deciso in autonomia di crescere a tuo modo e le manifestazioni concrete della tua verve artistica, quello che scrivevi, quello che dipingevi fino alla passione per la fotografia, non sai quanto stridevano con il congelatore dei tuoi genitori pieno fino all’orlo delle peggiori abitudini alimentari e con le superfici della parte di camera che condividevi con tua sorella colme all’inverosimile e con una precisione maniacale di sopresine degli ovetti Kinder, puffi di tutte le fogge e di impolverati trudy pegni d’amore. E ti chiamavamo Simple Max solo perché possedevi tutto ma proprio tutto dei Simple Minds, non certo perché ti ritenevamo una persona semplice e poco adeguata ai nostri turbamenti emotivi. Così ho pensato di dedicarti un pezzo come si faceva al nostro programma radiofonico preferito, ci si salutava così un tempo e ci si mandava a dire che si era l’uno importante per l’altro.

da urlo

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Che bello i ragazzini che si chiamano a voce alta da una parte all’altra della strada, cose che poi cresci e non le fai più perché ci si deve dare un tono, non è buona educazione gridare così in pubblico e un po’ ci si imbarazza nel richiamare così l’attenzione. Mentre quando di anni ne hai pochi in buona sostanza nemmeno te ne sbatti, proprio non ti poni il problema. Vedi l’amico cinquanta o centro metri davanti a te che ha già attraversato la strada ma nel frattempo scatta il rosso e il traffico dell’ora di punta – tutti che vanno a scuola e al lavoro – e così sei costretto a stare fermo sulla punta dei piedi pronto a scattare alla prima possibilità di avere il passaggio pedonale sgombro che non arriva mai. Così stringi gli occhi come a mettere a fuoco meglio il destinatario del richiamo e gridi il suo nome a voce alta, mentre tutti ti guardano ma non vedi nessuno. Si forma un’onda sonora che travolge i passanti, le bici legate ai pali, i cani al guinzaglio e le cartacce già spinte dal vento, oltrepassi la barriera di auricolari e la musica che iniettano nella memoria dell’amico che si gira e si toglie le cuffie con un solo movimento. Da lì parte il feedback, il segnale di ritorno, un raggio lanciato dal sorriso dell’amicizia, la corsia preferenziale e sgombera che accelera al massimo la congiunzione tra palpiti, qualche secondo e i due sono vicini e da lì in poi la strada da fare sarà la stessa per entrambi. Dicevo che poi cresci e non chiami più gli amici ad alta voce da una parte all’altra della strada. Un po’ ti vergogni, un po’ perché il sentimento è stemperato e incontrarne uno per strada è davvero una coincidenza impossibile e poi di spalle sono tutti uguali, magari non è nemmeno lui.

meglio di alberoni

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L’amicizia non è quella cosa che pensi ad un altro, ma è pensare a te stesso che non puoi fare a meno di quell’altro lì. E non l’ho trovato stampato nell’incarto di un cioccolatino, è proprio roba mia. Giuro. Non è possibile descrivere quello che vedi accadere tra persone che si vogliono bene, né archiviare una riflessione su questo argomento con una canzonetta, nemmeno “You’ve got a friend” di James Taylor, e questo vale anche per la versione degli Housemartins. Pensi di poter prendere una decisione per te stesso e poi ne parli con gli altri perché inevitabilmente l’aria che muovi spostandoti diventa vento forte e addensa nubi tutto intorno, tanto che chi vive là sotto potrebbe chiedersi chi è che fa il bello e il cattivo tempo. Allora pensi alle scelte personali ma è bene pensarci in due o più individui, perché no. Si fa un brainstorming. Ci si briffa. Un giorno di tanto tempo fa decisi in autonomia di cambiare scuola a metà anno, qualche mattina dopo il mio ritiro ufficiale andai all’uscita del liceo a salutare i compagni che rimasero sorpresi, non pensavano si trattasse di una cosa definitiva. Allora il mio vicino di banco e migliore amico, ci seguivamo l’un l’altro dalla prima media, dopo un po’ mi diede una lettera, che conservo ancora: almeno sei fogli scritti a penna in una busta rossa. Se ne avessi parlato con lui prima probabilmente avrei continuato e chissà quale sarebbe stato il corso della mia vita, ma non sapevo come si faceva. Non avevo letto il manuale operatore di gestione dei rapporti umani. Perché non sempre scegliere di restare comporta un sacrificio. Se la controparte ha la stessa devozione, c’è solo da guadagnare.

in verità

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No grazie, non sono abituato a bere vino rosso a temperatura ambiente a metà pomeriggio, devo ancora svuotare il primo bicchiere ma non so nemmeno se lo finirò perché non è che sia già brillo, è che proprio mi è venuta un’emicrania fortissima. Un po’ è la bottiglia che hai stappato giusto perché ritieni che sia bello stordirsi così, senza motivo, di certo il nebbiolo non disseta e avrei preferito al limite una lattina di birra di quelle che hai nel frigo ma non volevo sminuire la tua generosità, mi ritieni un ospite da vino di qualità e, tu non lo puoi sapere, ho maturato nel tempo un’idiosincrasia con l’eventualità di contrariare il prossimo tanto da mettermi spesso al secondo posto nella lista delle esigenze da soddisfare. Quindi no, grazie, vai pure tu con il secondo bicchiere, io sorseggio simulando competenza enologica questo assaggio iniziale e mi viene già da vomitare tanto è forte il mal di testa, non sono nemmeno le cinque e ho ancora il pranzo della vigilia di Natale sullo stomaco. E anche questo non lo puoi sapere, che i miei hanno questo modo anacronistico di prendersi cura del prossimo foraggiando all’inverosimile bevande incluse che uno spiega agli altri che è perché hanno vissuto in tempo di guerra. Sì, è vero, però la guerra è finita da settant’anni, diamine.

Ma il fatto è che questa smania di aggiungere al piacere del vedersi un additivo disinibitore mi preoccupa, purtroppo tra maschi manifestare gioia reciproca è un segno di debolezza. Nessun problema, è bello lo stesso incontrarci a casa tua, non ci vedevamo da qualche anno anche se abbiamo tenuto viva l’amicizia tramite la rete. Non c’era però bisogno di stemperare gli inevitabili aneddoti che riesumeremo con l’alcool, siamo grandi e potremmo ricordare i vecchi tempi anche da sobri tanto più che di là ci sono tua moglie e tua figlia che ogni tanto viene a vedere quello che facciamo, ti sale in braccio, ascolta i pezzi che hai registrato ultimamente, che è una bella conquista quella di potersi fare tutto da soli grazie a un pc, ma non è il pc che migliora la qualità della musica che produci che invece, con il tempo, è peggiorata perché hai pensato di adattarti a uno stile cantautorale che proprio non ti si addice. Il bello delle tue composizioni era il fatto che erano tue e basta, avevano quella grinta che lo so che poi, compiuti i cinquanta, è naturale mettere in discussione ma allora forse è meglio mollare il colpo, chi lo sa. Ecco, a dirla tutta non è il vino la fonte dell’emicrania, ma quegli arrangiamenti che sono costretto ad ascoltare in cuffia in modo da cogliere tutto l’arco stereofonico degli effetti, ma siamo ancora amici, no? Quindi pazienza, starò male fino a domattina, il vino no grazie ma va bene lo stesso essere qui con te.