tutto perché siamo messi per così

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Il Syntax Report 2020 (relativo a dati del 2019) conferma il vecchio motto che dice, più o meno, latitudine che vai, complessità che trovi. Percorrendo la Pianura Padana verso nord nelle giornate come quella di oggi si stagliano all’orizzonte le Alpi innevate. Questo ci ricorda che l’agiatezza in cui molti degli abitanti di questi posti si ritrovano a vivere ha, come rovescio della medaglia, l’obbligo di dotazioni invernali a bordo per molti mesi dell’anno e che, se non vuoi cadere nella grande truffa delle gomme stagionali, occorre saper montare le catene in caso di abbondante nevicata. Siete capaci? D’altronde se volete vivere sempre in gara ricordate che dovete anche essere pronti a risultare ultimi e persino a retrocedere nelle serie minori. Agi quali l’efficienza sanitaria e la pulizia delle strade qualcuno, comunque, li deve pagare. La musica cambia nelle regioni centrali, quelle che sono costellate di borghi medioevali e di cascine ristrutturate da miliardari europei immerse in redditizie vigne millenarie. Posti dove si può vivere di rendita per i propri immobili ma poi per disporre di un corriere per spedire un pacco devi spararti decine di km per raggiungere la città più vicina. Scordatevi le migliaia di pendolari che si riversano dalla periferia al centro grazie a un capillare sistema di trasporto pubblico su rotaia. Per accompagnare un figlio in macchina a scuola occorre resistere indenni a tornanti e strettoie tra mura etrusche e si è costretti al transito lungo strade panoramiche gremite di ville i cui proprietari non si sa bene cosa facciano per vivere ma, nel complesso, ogni sera si possono mangiare prodotti a chilometro zero cucinati in ricette difficilmente digeribili. Al sud, come da copione, ci sono i quartier generali delle onnipotenti organizzazioni criminali, vige l’incuria urbana mentre sulla suburbia popolosa a ridosso delle metropoli meglio stendere un velo pietoso ma poi sembra che tutti siano contenti perché, nell’insieme, nessuno ha voglia di cambiare le cose e le assicurazioni continuano a raggiungere polizze record. Sono in molti i giovani che si giocano la carta della fuga dei cervelli verso il nord e verso gli stati in cui il tasso di disoccupazione risulta sotto controllo. Nessuno comunque sembra rinunciare al proprio dialetto e alla cadenza tipica delle radici tanto da venir scambiati per stranieri come tutti gli altri. La fotografia di un intero popolo si riflette anche nell’idea che, chi vive in continente, ha dell’Italia insulare nei mesi invernali. Che cosa si fa Cagliari a febbraio? C’è vita a ridosso delle dune della Costa Verde o è solo un’invenzione del marketing territoriale locale, pronto a divulgare materiale pubblicitario solo nei mesi in cui fa più comodo attirare gente?

diversi, uguali o x

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Il mondo si divide tra chi si sente diverso, tra chi fa di tutto per essere uguale agli altri, chi cerca di essere se stesso e chi vive e basta. Ognuna di queste correnti di pensiero, come in ogni competizione, è animata dal dibattito tra follower e detrattori. Chi si sente diverso è amato da chi disprezza l’omologazione degli individui ma è inviso a chi pensa di essere più diverso di lui/lei, d’altronde la storia del genere umano è piena di gente che ti supera a sinistra. Chi fa di tutto per essere uguale agli altri e vede nella conformità un asso nella manica fa sanguinare gli occhi agli alternativi e a tutti quelli che vivono per distinguersi che però, in fondo, son sempre contenti che il mondo sia pieno di pecoroni così fanno meno fatica a emergere. La questione è più complessa per chi cerca di essere se stesso perché di base c’è una componente di presunzione, quella che ti fa dire al prossimo che vai sempre dritto per la tua strada senza stare a vedere cosa fanno gli altri e, in questo caso, è facile essere scambiati per qualcuno che si sente diverso. C’è una corrente di pensiero che sostiene che quelli che cercano di essere se stessi alla fine sono tutti uguali perché credono che le immedesimazioni più banali – che poi sono le più facili da indossare – siano la vera strada per l’emancipazione ma siccome lo pensano tutti e, quindi, tutti lo fanno finisce che questa categoria va a coincidere con quella di chi fa di tutto per essere uguale agli altri. Poi c’è chi vive e basta e non gli interessa né un modo né un altro. Anzi, non si pone proprio il problema perché ancorato a soddisfare esigenze entry level e non può investire tempo e risorse per speculazioni filosofiche sul pensiero unico o variegato. Comprende anche quelli che dicono di vivere e basta, anziché vivere effettivamente e basta, perché è gente che è tagliata fuori dal resto. Quello che comunque manca a questo sistema così complesso è qualcuno che stabilisca chi ha ragione. Io ho più volte inviato la mia candidatura e spero che, prima o poi, chi deve decidere me ne dia l’opportunità. Ho tutte le carte in regola e sono abbastanza maturo e adulto per mettere per sempre l’ultima parola sulla questione. Posso persino fare un paio di nomi per le referenze, nel caso qualcuno lo richiedesse.

torna presto

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John è uno dei miei alunni più enigmatici e divertenti. È di origini cinesi ma è nato qui. Ha genitori giovanissimi, molto attenti e colti ma anche piuttosto impegnati: la mamma tiene le fila di tre figli e il papà viaggia spessissimo per lavoro. Hanno persino assoldato un babysitter italiano che lo accompagna e lo viene a prendere a scuola. Per i suoi sette anni gli hanno regalato le Geox con il display a led che visualizza una scritta personalizzabile sul bordo della suola che, se ve la devo dire tutta, se ci fosse in commercio il 46 me le comprerei anch’io e ci scriverei il mio motto, “give synth a chance”. In matematica potrebbe già affrontare il programma di quinta ed è così pignolo che mi corregge se non scrivo bene lettere e numeri alla lavagna. A volte mi guarda e si muove come un fumetto e io lo assecondo imitandolo perché mi sembra un ottimo canale di comunicazione tra insegnante e bambino. Se ci sono io durante l’intervallo viene a farmi sentire come fa esplodere il cellophane della merendina confezionata. Alcuni si spaventano per il botto ma la colpa è mia perché sono stato io a iniziare quel rito rumoroso. D’altronde lo faccio anche a casa e mi scordo sempre che poi in classe occorre trattenersi per non dare il cattivo esempio. Ciò non toglie che sia un’azione decisamente appagante.

John è a casa da una decina di giorni. Siamo nel pieno dell’influenza e non abbiamo badato molto al fatto che fosse assente. Ho avuto giornate con meno di dieci bambini in classe e pure io mi sono dovuto attrezzare con la tachipirina pronta per tirare fino alla campanella. Non so se lo sapete ma con la storia dei mesi di vacanza estivi gli insegnanti – almeno quelli che vivono il loro mestiere con il giusto senso di colpa – tendono a rispettare l’orario anche con la febbre per non creare disguidi, rivoluzionare l’organizzazione dei colleghi o lasciare che dividano la propria classe. Comunque sono passati i giorni, John non è ancora rientrato e finalmente ho capito. La mia collega ed io abbiamo persino ricevuto un messaggio del padre da cui si evince il timore che John potesse risultare vittima di pregiudizi per il fatto di essere cinese e influenzato, ai tempi del virus Corona. Ho pensato così che, in effetti, i genitori capaci di scatenare l’inferno dell’ignoranza ci sono, magari gli stessi che poi mandano i figli non vaccinati contro il morbillo a scuola. Poi magari mi sbaglio io e nessuno, nella mia classe, si dimostrerebbe capace di un comportamento così miserabile. Quindi spero che John torni presto, magari già oggi, magari già domani, con un messaggio di amicizia per i compagni sul led delle sue nuove scarpe Geox. Una cosa tipo “grazie per essere persone di buon senso”.

dimensione parallela

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Voi non avete idea di quanto sia liberatorio e appagante venire a sfogarsi qui. Quando sono euforico, quando mi girano i coglioni, quando scopro qualcosa di incredibilmente avvincente, quando non ho un cazzo da dire, quando devo mettere nero su bianco ore di riflessioni per dar loro un capo e una coda, quando non trovo né il capo né la coda e voglio solo avere tutto disposto davanti secondo l’ordine che mi fa capire le cose. Quando spero che qualcuno passando per caso mi scriva per dirmi che la pensa come me o quando ho voglia di dire in faccia a qualcuno quello che si merita ma so che non lo farò mai. Quando voglio provare a descrivere qualcosa, quando sento il bisogno di fermare un momento, un’esperienza, un dolore o un turbamento. Quando voglio provare a dirlo in un modo diverso da come lo farei a voce. Quando voglio inventare una storia e quando lo faccio solo per me, per rileggerla dopo un anno o tre o cinque e scoprire che la scriverei allo stesso modo. Quando mi scappa da fermare qualche spunto con la punteggiatura a cazzo e quando uso la punteggiatura a cazzo perché non sono capace di fare di meglio. Quando spero di lasciare qualcosa di interessante per qualcuno o quando devo segnare qualcosa di speciale e non ho altro posto in cui sono sicuro di non perdere l’informazione. Quando penso che magari un giorno la memoria si formatterà e avrò bisogno di ricordare tutto. Quando devo fare un elenco di quando e in ognuno di questi quando, nella piccolezza delle cose che scrivo, penso a come dev’essere costruire un romanzo e metterci dentro la propria vita, quella di qualcun altro che è vissuto davvero o di qualche personaggio inventato, e traslocare armi e bagagli in questa dimensione parallela e fottersene del resto.

tutti i numeri di febbraio

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Tra le 02.02 e le 02.20 del 02.02.2020 si sono svolti a due a due gli stessi venti eventi già programmati per il 20.02 tra le 20.02 e le 20.20.

gente che va, gente che torna

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Mentre ci lascia Andy Gill dei Gang of Four ritornano i Psychedelic Furs con un nuovo singolo, preludio di un nuovo album. Richard Butler ha, da sempre, uno dei timbri di voce più straordinari e inconfondibili, alla pari di Robert Smith, Morrissey e Bowie. Sentite che bello. Speriamo che il nuovo disco sia tutto così.

l’urna azzurra

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C’era massima libertà sul soggetto ma la maestra si era assicurata che avessimo compreso appieno il tema legato alle imminenti elezioni europee. L’idea di fare del continente di cui eravamo parte integrante un sistema unico, a trent’anni dalla fine del più devastante conflitto mondiale di tutti i tempi, costituiva l’alba di un avvenire di progresso e di sviluppo. Persino l’Esperanto, pur nella sua artificiosità, conferiva autorevolezza all’Unione Europea, che ai tempi nemmeno si chiamava così: una lingua, una civiltà e una storia transnazionale ben oltre i confini, pronta a estendersi da ovest a est, da nord a sud. Avevo disegnato un’urna azzurra perché quello mi sembrava il colore più adatto a rappresentare l’unità. Sopra c’era una mano che lasciava cadere nella fessura ricavata sul coperchio una scheda elettorale formata da una specie di patchwork delle mie bandiere europee preferite, e sotto l’anno di quella tornata elettorale scritto in doppio, con uno slogan ingenuo ma inventato per l’occasione. Tutti i disegni delle scuole erano stati quindi appesi in un salone all’ingresso del municipio all’interno di una mostra dedicata all’iniziativa, con l’obiettivo di trasmettere l’entusiasmo delle istituzioni per una politica finalmente comunitaria. Dedico questo ricordo al Regno Unito che tra pochi minuti abbandonerà il progetto. Chissà che un giorno non ci si ritrovi ancora, tutti insieme, in un nuovo disegno di speranza.

l’ultimo sforzo

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Claudio dovrebbe fare un ultimo sforzo e ultimare la tesi di laurea. Glielo ripete in continuazione la mamma. Ma mentre lui ha il terrore della sua reazione se macchia di senape i pantaloni appena lavati sembra non curarsi affatto delle ingerenze dei genitori sul suo presente. Non so che lavoro faccia suo papà ma non è mai a casa e il fatto che il fratello minore di Claudio abbia scelto di fare il portiere di notte in un albergo mi fa supporre che si tratti di uno di quei modi per tramandare un mestiere di padre in figlio. Comunque anche noi cerchiamo di mettergli fretta di finire o, comunque, spingerlo a farsi qualche domanda sul futuro. Fino all’autunno scorso Claudio stava con Giulia anche se erano male assortiti. Giulia è una ragazzina che si veste da iper-femmina quarantenne. Sembra uscita da un film neorealista, quelli in cui a vent’anni sembravano tutti così adulti, a partire dagli studenti universitari in giacca e cravatta. Ho sognato che incontravo Claudio mentre passeggiavo tenendo proprio Giulia sottobraccio e temevo che se la prendesse. Claudio spingeva una carrozzina con un neonato dentro e ce lo mostrava con fierezza. Nel sogno abbiamo discusso sul fatto che poi alla fine non si è più iscritto. Ha conosciuto quella che poi sarebbe diventata sua moglie e per sbarcare il lunario si è messo ad accettare lavori sin troppo umili per la sua preparazione. Lavava i piatti in una tavola calda e, qualche anno dopo, è entrato in una cooperativa che si occupa delle pulizie notturne sui treni. Ci incontravamo qualche volta al bar della stazione. Lui smontava dal turno e io prendevo l’Intercity per andare in ufficio. Gli ho persino chiesto, una mattina, se non si fosse pentito di aver sprecato tutta quella fatica per dare quella marea di esami per poi non vedersi riconosciuto l’impegno, ma mi ha risposto in modo evasivo, soffermandosi su un aneddoto su Giulia a cui non ripensavo più da tanto tempo.

la svastica sul collo

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Ho l’abitudine di impormi di saltare la lettura della cronaca, soprattutto quella nera, sui quotidiani quando compravo i quotidiani e ora sulla loro versione online, per non parlare dei post condivisi sui social. Un po’ mi spiace perché capisco che tra le righe ci sono richieste di aiuto e segnali di allarme di chi ha subito un torto. Poi però penso che non posso più farci niente e che fermarsi a riflettere è un po’ come osservare con le quattro frecce l’incidente che si è consumato sulla carreggiata opposta alla nostra. E che, soprattutto, come individuo il mio margine di tolleranza e di miglioramento nei confronti di certi problemi di massa – in quanto somma di problemi analoghi di milioni di individui come me – è nullo. Posso constatare, posso amareggiarmi, posso indignarmi e vergognarmi, ma solo contro il fenomeno in sé e non certo nei confronti del singolo caso. E credo proprio che non si tratti di egoismo perché invece molte delle cose che succedono alle persone innocenti mi fanno girare i coglioni. Ma delle vicende umane e personali delle vittime e di chi ha commesso il reato preferisco rimanerne all’oscuro. Il mio pregiudizio assume poi i toni del rigetto nei confronti di certi programmi che vanno molto di moda oggi. Trasmissioni di inchiesta in cui si va a scavare negli animi della povera gente, dei deprivati sociali, delle persone al margine, degli ultimi degli ultimi, con l’unico obiettivo di spettacolarizzarne l’inadeguatezza alla contemporaneità mascherato da pacca di solidarietà sulla spalla. C’è uno di questi programmi che è condotto da un giornalista pelato con gli occhi come fessure che si mette a pochi centimetri dalla faccia di chi racconta la propria sofferenza. Una vicinanza fisica equivocata per vicinanza di sentimento sia dal pubblico che da chi si sottopone al servizio e che induce il malcapitato sotto i riflettori a liberarsi del malessere di fronte alla telecamere. A me questa confidenza tra intervistatore e intervistato in un gioco delle parti vantaggioso per entrambi e in uno scambio di segreti visibile solo a centinaia di migliaia di telespettatori mette fortemente a disagio. Qualche giorno fa c’era un uomo, una specie di avanzo di galera pronto a condividere la sua redenzione in cambio della notorietà televisiva, che teneva la scena con una vistosa sciarpa al collo del tutto avulsa dall’abbigliamento sfoggiato. Quella sciarpa al collo trasmetteva proprio l’idea di essere stata aggiunta dalla produzione all’outfit da intervista in extremis per nascondere qualcosa. Era di un tessuto diverso dal resto e anche la misura lasciava a desiderare. L’intervistato continuava a sistemarsela intorno alla gola, era evidente che non aveva scelto lui di indossarla e che non si trovasse a suo agio. Fino a quando poi, per una manciata di frame probabilmente sfuggiti in fase di montaggio, la sciarpa, scostandosi di poco, ha svelato una svastica nera tatuata proprio sopra la clavicola. Non so voi, ma io uno con una svastica tatuata sotto il collo non solo non lo passerei in tv, ma nemmeno mi verrebbe voglia di fargli delle domande. Ecco, a leggere o veder in tv la cronaca si corre il rischio di conoscere certe realtà che sono opposte alle nostre e a me, se ve la devo dire tutta, proprio non interessa.

fare sì con la testa patrimonio dell’umanità

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La mia principale abilità, quella di instancabile ascoltatore, è talmente raffinata che quando non ascolto chi si sta rivolgendo a me perché penso ad altro ma continuo a fare vigorosamente sì con la testa, l’interlocutore manco se ne accorge. Il fatto è che la gente a cui piace conversare aggancia chi sa ascoltare all’eccesso, come me, con una sorta di segnale crittografato a cui il recettore risponde sulla stessa lunghezza d’onda, all’insaputa del malcapitato, e si interconnette nella trasmissione ossessivo-compulsiva. Con il risultato che il logorroico supera ulteriormente i suoi standard avendo una distesa di interesse da colmare.

Ma questo perché non mi conoscete. Metto la testa sul mute e, dentro di me, riesco a sbrigare qualche faccenda che mi restava in pending. Quando il monologo volge al termine sono pronto a rientrare dal pilota automatico alla guida manuale con maestria e concludo con un “pazzesco!” , un “ma dài” o un “che storia!”, e il gioco è fatto.

Nel lavoro che facevo prima me la cavavo altrettanto alla grande nelle call con gli stranieri. Il mio inglese è quello che è, me la cavicchio ma al telefono sono un disastro. Così lasciavo scorrere la conversazione rilasciando saltuariamente i soliti convenevoli (yes, yep, I see, sure, great, fantastic, ok, terrific e compagnia bella) e quando era il mio turno di parlare dicevo cose contestualizzate al tema del meeting telefonico ma che non necessariamente c’entravano con quello che era stato detto sino ad allora. Un metodo rodato che funziona sempre.

Tutta questa lunga esperienza e la tecnica che sono riuscito a sviluppare oggi è perfetta per il mio nuovo lavoro. I bambini di sei/sette anni sono un continuo raccontare qualcosa al maestro. Mi stupisco sempre di tutta questa voglia di confrontarsi che poi, nel giro di qualche tempo, si consumerà esclusivamente in una cameretta con lo smartphone acceso in mano. I miei alunni sono devastanti, da questo punto vista. E non sarebbe un problema se 1. non sapessero parlare 2. non parlassero con le mani davanti alla bocca 3. non avessero un volume di voce inesistente 4. non chiedessero le cose mentre il resto della classe intorno sposta sedie, banchi ed equipaggiamento scolastico come se non ci fosse un domani 5. non parlassero rivolgendo l’apparato fonatorio dalla parte in cui è accaduta la cosa che ti vogliono raccontare e non verso l’insegnante 6. non chiedessero cose assurde tipo maestro Rebecca ha detto che non posso essere un gatto unicorno perché nel gioco che stanno facendo non esistono 7. il maestro non fosse quasi sordo. Ed è inutile chiedere di ripetere perché nemmeno la seconda e la terza e la decima volta non risolverebbero la situazione.

Ho imparato così a portare sempre con me una gamma di risposte pronte, una specie di risponditore automatico per bambini perfetto per ogni occasione: prova a dirlo direttamente a Rebecca, dovete giocare tutti insieme, molto bello, che brava, bravissimo, prova a riflettere stando seduto nel tuo banco, vai a chiedergli di fare la pace, non voglio che litighiate, adesso vi faccio saltare a entrambi l’intervallo, va bene ma prima rimetti in ordine il banco. Una di queste cose, scelta all’istante interpretando il labiale e il mood di chi mi ha chiesto un parere o un intervento, è provato che salva sempre la situazione. E comunque un bel sì con la testa, ripetuto ad libitum, non si nega a nessuno.