underground

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Da quando Elio e le Storie Tese l’hanno messa al bando in quanto bella tutto quanto ma alla lunga rompe i coglioni, non si sente più tanta musica balcanica in giro. Le ultime avvisaglie risalgono forse a una decina di anni fa, ma mi sembra che i fasti delle colonne sonore con le bande di ottoni e le fisarmoniche siano ormai un lontano ricordo, e non solo in termini di distanze tra noi e l’ex-Jugoslavia. Il fatto è che ho una teoria persino su questo. Anche dagli ultimi Eurofestival, che costituiscono tutt’ora l’estremo baluardo per i paesi emergenti musicali europei, mi risulta che l’intera area riconducibile all’ex Patto di Varsavia si sia ormai completamente occidentalizzata e che, di conseguenza, anche il pop slavo sia ormai definitivamente una costola del pop americano, quello pesantemente influenzato dall’R&B-trap contemporaneo. Almeno fino agli anni 90 l’ispirazione al di là della cortina di ferro al massimo aveva le sue radici nell’eurodance. Questa ulteriore virata di globalizzazione ha probabilmente tagliato quei pochi fili che legavano la musica commerciale balcanica con la tradizione, quella di Bregovic, per intenderci. Ci pensavo stamattina perché alla radio hanno passato “Hop Hop Hop” e il suo bizzarro (per i nostri canoni armonici) riff di fiati. Io me li ricordo benissimo i tempi d’oro dei film di Kusturica, perché la guerra non ci era mai stata così vicina e Sarajevo trasmetteva un fascino che non saprei descrivere. Da poco più distante dalle terre di “Kalašnikov” veniva poi questa stramba risposta a “Oh Carolina” di Shaggy. Che tempi (e che intervalli).

dieci

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La cosa che mi piace di meno del mio lavoro è la valutazione, il motivo è che ne costituisce la componente più difficile. Vista da fuori sembra un gioco da ragazzi, soprattutto quando ci sono da correggere le verifiche oggettive: come nel pattinaggio, si attribuisce un punteggio a ogni passaggio oggetto della prova e, arrivati alla fine, si tirano le somme. L’esperienza da studente la fa sembrare persino uno strumento per esercitare il potere: dai giudizi e dai voti dipendono presente e futuro di un bambino e i docenti possono definire, in largo anticipo, il loro percorso scolastico. La questione in effetti è molto spinosa, a partire dalle valutazioni di chiusura ciclo che vanno a quantificare il valore degli obiettivi raggiunti dallo studente. Quest’anno insegno in una prima e il problema, che pensavo a questo stadio embrionale della scuola primaria potesse considerarsi rimandato, si è palesato invece ancora più controverso. La domanda che mi sono posto è se, nei primi mesi della vita scolastica di un bambino, sia necessario già restituire a lui (ma di più alla sua famiglia) dei feedback non positivi. Se da una parte una penalizzazione così acerba è in grado di far correre ai ripari nel caso di una difficoltà di apprendimento da affrontare, dall’altra può minare la relazione tra scuola e genitori, demotivare gli alunni, far nascere una diffidenza prematura nei confronti dei docenti. La risposta che mi sono dato è che gli ostacoli si possono superare con il confronto e il dialogo ma, in questa fase iniziale del percorso di studi, la scuola si deve porre come soggetto accogliente e, di partenza, limitarsi a una ponderazione sul livello dell’entusiasmo per la scuola dimostrato che, nei bambini di prima, merita sempre un punteggio pieno.

parka

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Al bar Magenta i cocktail per astemi si chiamano Dry Anal e Sweet Anal. Lo so perché dal primo dell’anno ad oggi, senza alcun motivo particolare, non ho più buttato giù nemmeno un goccio di alcol e penso che resisterò almeno fino a luglio. Quando mi invitano per un apericena sono costretto a ripiegare sui beveroni tutti frutta e blocchi di ghiaccio che assecondano la sete in estate ma non c’entrano niente con il buffet salato. Insomma, a parte il nome per certi versi invitante, non ve li consiglio. Al tavolo vicino il clan dei parka ha qualcosa di meglio da festeggiare. Lo capisco perché il leader indiscusso ha un boccale da litro di birra bianca e, per giustificare la scelta, assicura a chi sostiene che conviene prendere una media per volta perché poi la birra si scalda che lui non ha di questi problemi perché tanto la finisce prima. Si vede che è il capo perché possiede un parka grigioverde originale dell’esercito della DDR con il pelo marrone scuro dentro acquistato l’estate della maturità a Dresda, mentre il resto della banda indossa modelli meno originali e di qualità più economica, provenienti da catene di fast fashion. La pratica dell’happy hour non è più quella di una volta. Oggi è di dominio comune, giovani vecchi e persino famigliole che comprano ai bambini hamburger e patatine mentre i genitori si strafogano delle consumazioni all you can eat comprese nel costo del long drink. I figli sono tutti uguali perché sfoggiano quelle magliette che usano oggi, decorate con i disegni in materiale cangiante. Sul davanti hanno illustrazioni fatte con delle lamelle colorate diversamente a seconda della faccia esposta. Il gioco è quello di passare la mano per scoprire cosa compare dall’altro lato, anche se il motivo è uno stereotipo maschile o femminile a seconda di chi la ha addosso. I camerieri fanno i complimenti alle t-shirt più colorate. Sono giovanissimi, vengono da tutto il mondo e parlano inglese con i clienti stranieri. Anche poco dopo, sulla metro al ritorno, sale un gruppo di ragazzini di tutte le nazionalità. Ci sono nordafricani, adolescenti dell’est Europa e una solo ragazza, una albanese. Mescolano l’italiano alle loro lingue e per farsi notare, oltre a fare passaggi con un pacchetto di fazzoletti di carta. Si appendono ai sostegni in alto e si insultano a voce alta con un idioma inventato ma si vede che hanno solo voglia di divertirsi. La signora al mio fianco dice che è contenta che, lì in mezzo, non ci sia sua figlia al posto dell’unica femmina, e forse sono vecchio ma in effetti è una considerazione che mi fa riflettere.

dalla parte dei Tirreni

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Da qualche tempo sono iscritto a un gruppo di Facebook che si chiama “Passione Etrusca” e vi assicuro che non è un posto in cui ci si scambiano foto di milf della regione compresa tra l’Arno e il Tevere. Gli Etruschi hanno sempre suscitato un forte fascino sulla mia fantasia storica, come del resto altri argomenti porno e scottanti come la cultura proto-villanoviana e tutto il resto delle popolazioni pre-romaniche e coeve fino al periodo monarchico e repubblicano. Il fatto è che anche su “Passione Etrusca” ci sono i troll, c’è gente che si manda affanculo, ci sono amministratori che ricevono segnalazioni di persone da bannare, c’è l’ironia fuori luogo, i rompicoglioni, i puntacazzisti, gli strafalcioni grammaticali, i profili fake, gli “e allora il PD” e tutto il resto delle cose che ci hanno portato alla nausea i social network, a partire dalla gente. Possiamo quindi stare tranquilli: l’odio su Facebook non è una prerogativa dei temi legati all’immigrazione, all’omosessualità, ai sopravvissuti ai lager nazisti, alla religione, alle pagine “Sei del paesello se..” e alla politica. In Italia la guerra civile del duemila può scoppiare per qualunque motivo: non solo tra gli ultras del calcio ma anche tra gattari e cinofili, tra fan di Morgan e seguaci di Bugo, boomer contro trentenni, vegani contro organizzatori della sagra dell’arrosticino, chi va in viaggio in Francia contro i vacanzieri autarchici e chi ha l’Opel e chi compra Volkswagen. Due fazioni contrapposte per qualcosa si trovano sempre. C’è chi sostiene al contrario che quest’odio a parole è un ottimo ammortizzatore emotivo che impedisce agli italiani lasciati in balia della propria ignoranza di mettersi le mani in faccia, di investirsi volontariamente con la macchina, di prendersi a pistolettate come negli anni di piombo. Io non ne sono così sicuro e, nel dubbio, anche nel gruppo “Passione Etrusca” preferisco non intervenire nelle discussioni. E, se proprio volete sapere la mia opinione, secondo me erano autoctoni.

radio attività

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Il 13 febbraio è la Giornata Mondiale della Radio, per gli anglofoni World Radio Day, un’iniziativa promossa dall’UNESCO per confermare l’importanza del mezzo di comunicazione più diffuso anche ai tempi del web. Oggi infatti parliamo di programmi radiofonici come modelli di entertainment e non soltanto per il modo in cui il segnale viene emesso. Il format in cui si alternano speaker a musica non necessariamente è inteso fruibile in radiofrequenza ma anche tramite Internet in diretta streaming o in differita come podcast (ma lo stesso vale per la tele, il cinema, i libri, i dischi, il sesso ecc. ma questo è un altro problema).

Per quelli della mia generazione la radio ha svolto ruoli fondamentali e occupato spazi decisivi nel percorso di formazione e crescita. Senza tirare in ballo la politica e le radio libere tra i settanta e gli ottanta, vi basti pensare alle dediche in diretta ai programmi delle emittenti locali, in cui ci si poteva lasciar andare a vere e proprie dichiarazioni d’amore o di semplice interesse, e alla possibilità di registrare le proprie canzoni preferite – anche previa richiesta – in un’era analogicissima in cui o ti compravi i dischi, o conoscevi chi ne era provvisto e imploravi per avere una copia su nastro, quando il tempo di riversamento tra vinile e cassetta era reale e duplicare gli album agli amici poteva diventare una bella e time-consuming rottura di maroni.

Poi ci sono stati programmi di culto grazie ai quali siamo riusciti a coltivare e mantenere vivi i nostri gusti di nicchia, a partire da Stereodrome o Stereonotte, questo fino a quanto il video ha ucciso definitivamente le star della radio, come cantava Trevor Horn, e tutti siamo passati alla tv. Prima i programmi di videoclip, poi le emittenti monotematiche musicali fino alla nascita della compressione mp3 che ha fatto piazza pulita. Il fatto è che la componente umana alla radio faceva la differenza. I bravi speaker e i dj fidelizzavano gli ascoltatori e, detto tra noi, non so se abbia fatto più danni alla radio l’avvento della dematerializzazione o i vari zoo di 105, cioè tutti quei programmi-monnezza in cui non c’è nessuna attenzione al contenuto e, in più, mettono solo musica di merda.

Non solo. Noi utenti evoluti di musica facciamo fatica a utilizzare la radio come sottofondo sonoro. Non so se avete mai provato, ma se vi cimentate nello zapping radiofonico come faccio io quando viaggio in auto non troverete una canzone decente nemmeno a pagarla, e vi assicuro che, nel mio caso, ascolto davvero di tutto. Preferisco così di gran lunga collegare il mio smartphone con i suoi 64 giga di mp3, curare personalmente la playlist più adatta o, nei casi limite, attivare la riproduzione random. Quanto alle voci della radio, non credo di perdere molto. I network commerciali divulgano solamente facezie senza contare che, ai tempi dei social, il connubio tra le stupidaggini pubblicate da noi gente comune e il pour parler che copre quei pochi secondi tra un pezzo di Sanremo e la nuova hit reggaeton possiamo anche risparmiarcelo. A parte qualche raro caso di resistenza al basso standard qualitativo, e non mi riferisco certo alle radio di finto rock che sparano ossessivamente il loro fastidioso jingle tra un pezzo e l’altro, la radio ai tempi del web è sempre più un’occasione persa per fare le cose diversamente dal resto. Peccato. Viva la radio e, soprattutto, stay tuned!

i cuore my family

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Nella classe di mia figlia la percentuale di genitori separati e divorziati è impressionante. Non che ci sia qualcosa di male, per carità, non sono certo un pillon qualsiasi. Il fatto è che si creano dinamiche piuttosto curiose dal punto di vista di chi invece ha esperienze di situazioni durature, sia nel nucleo di origine che nel contesto attuale. Mi riferisco ad adolescenti che hanno il papà che vive a trecento km di distanza, la mamma professionista che lavora venti ore al giorno, il fratello che studia all’estero e loro alle prese con un livello di autonomia (tendente alla solitudine) di non facile gestione. Bisogna cioè essere oltremodo determinati per non perdersi quando sei così giovane e i riferimenti li devi trovare dentro di te. Tra i miei alunni le cose vanno un po’ meglio ma in periferia, si sa, abitano ceti più bassi che medi per i quali trovare il tempo e le risorse per mettere in dubbio le scelte di vita è fuori discussione, mentre la scuola di mia figlia – nel centro del centro della metropoli – ha un’utenza di ben altra estrazione con gente che si può permettere di mantenere tutte le famiglie che vuole.

Nella settimana di San Valentino ho scoperto che c’è qualche collega che tratta la questione come si fa nella scuola primaria, cioè con riferimenti ossessivi alla ricorrenza in corso nelle attività didattiche. Il cuore fatto con l’origami di arte, il dettato sui valori del volersi bene di italiano, quanti bigliettini ha ricevuto Giorgia se Luca gliene ha scritti quattro e Leonardo tre in matematica, la storia del santo dell’amore in religione e così via. Io sono in prima e voglio rimandare i giochi dei fidanzatini almeno alla quarta, quindi ho mescolato le carte e ho parlato dell’amore per i genitori (indipendentemente da quanti, quali e di che sesso siano), per sorelle e fratelli, per i nonni e per gli animali domestici, ovvero quell’insieme di persone e cani e gatti che sta intorno ai miei alunni e che compone la loro famiglia, approfittandone – per esempio – per scoprire insieme come si scrivono i loro nomi e come si traducono i componenti della famiglia in inglese.

In musica, invece, l’assist me lo ha fornito Daria, una delle mie preferite (e lo so che non si dovrebbe). Daria ha una sorella maggiore, Giovanna, che ha finito la primaria lo scorso anno. Non era nella mia quinta ma avevo avuto a che fare con lei perché nel corso di una supplenza di musica aveva proposto l’ascolto di una canzone di Vasco. Il motivo? Vasco è il cantante preferito dai genitori e, insieme alla figlia, hanno già partecipato a più di uno dei sui interminabili concerti. Stamattina Daria, in un’analoga attività, ha confermato il quadretto proponendo, come sua canzone preferita, un altro brano del rocker nazionale. Ho preso la palla al balzo e ho condiviso con il resto dei suoi compagni tutta la storia: un nucleo famigliare fortemente unito anche nella musica. Peccato che a me Vasco non piaccia per niente. Ho però fatto finta lo stesso di apprezzarne le canzoni mimando con sentimento l’atmosfera rock che si era creata. D’altronde non avrei mai rovinato quel momento perfetto per parlare d’amore per nulla al mondo.

non è straordinario?

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Tra i mesi di gennaio e il primo scorcio di febbraio ho accertato una media di cinque o sei bambini assenti al giorno in classe, con punte di dieci. Solo oggi, per la prima volta da quando ci siamo salutati prima delle vacanze di Natale, in aula c’era un solo banco vuoto. Le assenze alla primaria, e soprattutto tra i più piccoli, sono un problema diverso da come un non-addetto ai lavori se lo immagina. Per gli insegnanti è preferibile non spiegare cose nuove mentre, dall’altra parte, i genitori spingono per tenerli il più a lungo a casa possibile per permettere ai loro figli di rimettersi completamente. Elisa, per dire, si è sparata due settimane di polmonite, è rientrata a scuola ma tempo due giorni si è beccata l’influenza di quest’anno e non l’ho più vista per un bel po’.

Sono state in molte le mamme che mi hanno contattato via mail (sono considerato un folle per aver dato la mia mail – quella con il dominio della scuola, che è una mail di lavoro a tutti gli effetti – ai genitori) per avere i compiti oppure il lavoro svolto in classe per evitare che il figlio rimanesse indietro. A me la cosa ha fatto sorridere perché in prima non è che un giorno si spiegano le equazioni di secondo grado e la settimana dopo inizi con la parabola. Il programma è sin troppo entry level per un contesto di seienni che sapevano già contare e fare somme e sottrazioni in autonomia dalla scuola materna. Comunque, per intercettare il timore delle famiglie che i bambini con la febbre rimanessero indietro (il vero demone della didattica), ho mandato qualche scheda con un po’ di operazioni per mantenere i cervelli con trentanove di febbre in allenamento.

Parallelamente ho fatto di tutto per portare avanti i quaderni dei bambini malati copiando le attività o tagliando e incollando le fotocopie delle schede svolte in classe (se siete quelli che “il profumo della carta” la scuola è il lavoro che fa per voi). Il fatto è che con sei o sette alunni assenti e relativi quaderni da aggiornare, dedicarsi a questo tipo di attività non risulta così fluido durante le lezioni ed è facile immaginare il perché, considerando la richiesta incessante di attenzioni che mi viene richiesta.

Questo solo per farvi pesare il fatto che:
– ho trascorso una buona parte del pomeriggio per mettere in pari i quaderni dei miei alunni che finalmente sono rientrati
– c’è voluto più di quanto avessi previsto
– e soprattutto l’ho fatto nel tempo libero.
Lo straordinario – nel senso di lavoro non pagato – è in realtà un fattore ordinario, nella scuola.

Ma c’è un vizio di forma: dovendo trascorrere non più di quattro ore al giorno sul campo, in un mondo in cui tutti dicono di lavorare otto ore, il senso di colpa del docente (al netto dei tre o quattro o cinque mesi di ferie l’anno di cui la credenza popolare si riempie bocca) impone al pedagogo professionista che è insito in lui di ricorrere alle ore in cui non fa lezione per sbrigare tutte le altre faccende collaterali. Una fetta di tempo che a chi lavora in ufficio, in negozio, in giro a vendere, in fabbrica eccetera viene riconosciuta con salari adeguati. Più sostanziosi, se rientrano nelle ore previste dal contratto. Come extra, negli altri casi. In realtà lo straordinario, nell’agenzia in cui lavoravo prima, non mi è mai stato riconosciuto nemmeno lì, ma lo stipendio era indiscutibilmente più consono al tempo che dedicavo alla causa.

Nel mio mondo ideale entro a scuola alle 8 ed esco alle 17:00, pausa pranzo compresa. Alterno le mie ore in classe a ore che trascorro nell’ufficio – un bell’open space con il calcetto e quelle fantastiche postazioni in cui ti metti dove capita – a preparare lezioni, organizzare materiale, correggere i compiti, incollare schede sui quaderni degli assenti, ricevere genitori e alunni, programmare con i colleghi. Stessa cosa per i mesi estivi, in cui c’è da preparare l’anno successivo, ci sono i corsi di recupero da tenere a chi ha debiti da recuperare, ci sono attrezzature da controllare ed eventualmente da sistemare, oltre alle quattro settimane di ferie che mi spettano. Il tutto almeno a duemila euro al mese, come è giusto per un mestiere in cui hai una ventina di bambini sotto la tua responsabilità. Questo si che sarebbe straordinario.

che cosa ci insegna il jazz

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Che nella vita è fondamentale essere capaci a improvvisare su uno standard comune in cui si sussegue ciclicamente la stessa sequenza di accordi.

bacchettate

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Non è mai stato prodotto un vero e proprio inventario delle specie in natura che non possono resistere alla tentazione di far notare gli errori o le manchevolezze altrui. Nel mondo vegetale è un comportamento assai difficile da rilevare, anche se a onor del vero la letteratura è piena di storie in cui le piante parlano agli animali e all’uomo e che comunicano tra di loro. Che cosa si dicano o cosa sussurrino – complice il vento – varia secondo lo stato d’animo del destinatario perché, e non sono io il solo ad affermarlo, non è che proprio facciano di tutto per farsi capire. E poi cos’è che potrebbero fare di sbagliato? Stesso discorso per gli animali. Anzi, vigendo un sano spirito di competizione dettato dalle più elementari leggi naturali ispirate dalla sopravvivenza a nessun individuo di un branco verrebbe mai in mente di rimettere in gara un predatore quando ha perso il treno della preda quotidiana per aver sbagliato una mossa nell’attacco. Meno si è a dividere il pasto e più abbondanti sono le porzioni. Il genere umano invece, sotto questo punto di vista, è pazzesco perché prova una piacevolezza unica nel correggere il prossimo sottolineandogli come avrebbe potuto fare meglio o diversamente. Innato nel nostro DNA c’è questa maestrite acuta che ci impone di rimettere le cose a posto quando qualcuno ha fatto casino ma non certo per il senso dell’ordine quanto per il piacere di mostrarsi solerti nell’isolamento della sequenza dell’equivoco o dello svarione di terzi. Questo indipendentemente dalla presenza di un pubblico perché agiamo senza farci problemi anche solo per compiacere il nostro ego che poi, alla fine della fiera, costituisce sempre e comunque la platea più fedele dei nostri successi.

siamo già alla quarta serata e nessuno si è ancora chiesto che cosa voglia dire “sanremo2020 startfine”

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Il bello di Sanremo è che, alla settantesima edizione, la concorrenza televisiva ha capito l’antifona e anziché riempire i palinsesti di fuffa, che tanto tutti guardano il festival, manda in onda trasmissioni tentacolari come armi di distrazione di massa. Come se, nel 2020, nessuno avesse un abbonamento Netflix, Sky o una connessione a banda larga per fare i propri porci comodi in rete. Per dire, mi sono capitati sotto mano Ken Loach, una sfida ai vertici del campionato A1 di volley maschile e persino un parterre interessante da Floris. Il fatto è che con Sanremo una bella fetta di italiani rimette le lancette indietro di vent’anni e si ritrova a seguire lo stesso programma in diretta insieme. La cosa fa un po’ tenerezza e se non fosse per i live tweeting potremmo fare finta di essere davvero ai tempi in cui facevamo le superiori e gridavamo al miracolo vedendo i Canton di “Sonnambulismo” scimmiottare i Kajagoogoo. In quello che sarà ricordato come l’anno dell’epidemia più epica dai tempi dei Lanzichenecchi e della discesa in piazza delle Sardine ho deciso di seguire la kermesse canora solo in differita, tanto finalmente la Rai si è decisa a pubblicare le singole canzoni sul canale Youtube così a chi non è realmente interessato a tutto l’ambaradan, o semplicemente preferisce coricarsi prima delle dieci come me, è sufficiente leggersi qualche minchiata sui social e poi buttare un occhio a quello che può risultare degno di nota.

Dalle foto che pubblicano i miei contatti vedo molte scollature femminili su vestiti dalla linea simile, per intenderci quei modelli che chi li indossa è costretto a sorreggersi con la mano libera dal microfono il top senza spalline ogni volta che si china, e a chi canta, galeotta fu la la smania di interpretare la canzone, succede spesso. A parte questo, c’è ben poco. Forse il pezzo di Levante ma si sa, c’è sempre il fattore del fascino che influisce su un giudizio oggettivo. La scenografia è claustrofobica, si sentono spesso chiacchiericci di fondo che non si capisce quale microfono sia rimasto acceso, Amadeus ha una narrazione troppo semplificata e banalizzante e dimostra di non conoscere il reale target socio-culturale degli ascoltatori della manifestazione (che sono quelli che lo guardano/non lo guardano per scrivere post come questo).

Discorso diverso per la serata delle cover dei successi delle precedenti edizioni che, ogni anno, è sempre la mia preferita. La mia reazione a caldo, quest’anno, è stata però quella di calcolare il totale dei brani cantati in settant’anni di storia, dividerlo per una media di ventiquattro cantanti a volta e ottenere la sostenibilità di questa trovata per i festival in futuro. Voglio dire, finiranno prima o poi le canzoni di Sanremo da coverizzare perché già nel 2020 hanno rotto il cazzo. Soprattutto, per regolamento, si dovrebbe evitare di riproporre “Un’emozione da poco” ogni volta. La canzone è una delle più belle, ma già dopo Nek e Paola Turci si era sfiorata la sovraesposizione. Inutile dire che la versione di quest’anno delle Vibrazioni è inqualificabile. Per il resto? Interpretando “Cuore matto” Piero Pelù è risultato patetico, il medley dei Pinguini un’occasione perduta che ci ricorda che non tutti possono permettersi di essere Elio e le Storie Tese, Diodato e Nina Zilli pessimi, la disarmonizzazione del ritornello di “Vacanze Romane” oltremodo sacrilega, senza contare che il connubio di timbri di Masini e Arisa può fare più danni dello scontro tra materia e antimateria, Achille Lauro e Annalisa scolastici, tutto il resto indegno di qualsiasi menzione. E poi basta con i rapper che attualizzano le strofe di pezzi stra-conosciuti e la voce femminile che interpreta il ritornello, riusciremo prima o poi a superarla ‘sta cosa?

E se siete capitati qui attirati dal titolo perché pensate che abbia la verità in tasca, avrete capito a questo punto di esservi sbagliati di grosso. Quando parte la pubblicità durante la diretta non si capisce bene cosa voglia dire “Sanremo 2020 startfine”, siamo già alla quarta serata e nemmeno io so darvi una spiegazione.