amu-china – #day3

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L’Amuchina è uno di quei prodotti che a casa dei miei non mancava mai, come il dentifricio Emoform, le pastiglie di Imodium e il Timodore, il cui impiego – tonnellate di polvere versata direttamente tra scarpa e calza – costituiva una sorta di costoso hacking rispetto all’applicazione standard descritta dall’illustrazione della confezione e, di conseguenza, meno efficace nell’abbattere gli effluvi podalici. Così, quando sono andato a stare da solo, ho trapiantato questi capisaldi della gestione domestica direttamente nella nuova vita, dandone per scontato l’essenzialità. Una casa non poteva essere una casa senza Amuchina, Emoform, Imodium e Timodore.

È la convivenza, poi, a sbatterti in faccia la realtà. Famiglia che vai, brand che trovi. Nessuna delle persone con cui ho vissuto si sono dimostrate avvezze ad alcuno dei prodotti di cui i miei genitori mi avevano fatto credere l’essenzialità. La gamma delle reazioni che ho riscontrato, nel corso del tempo, vanno dalla semplice scesa al compromesso dovuto a uno scambio equo di tradizioni famigliari a un rifiuto netto per motivi meramente economici. La marca dei prodotti cosiddetti secondari, come quelli di cui sopra, si sceglie a seconda dell’offerta disponibile al supermercato. Così facendo, non ci si affeziona al brand – approccio fondamentale per evitare la fidelizzazione nella società dei consumi – e si finge di abboccare al marketing commerciale acquistando i prodotti che la Grande Distribuzione Organizzata prevede che il cliente scelga ma chi se ne importa se, in fondo, chi compra può risparmiare. Senza contare che gli articoli delle marche con cui sono cresciuto sono tra quelli meno economici nella loro categoria.

Poi, per fortuna, di Imodium non ne ho quasi mai bisogno, il Timodore è stato efficacemente soppiantato da certe solette miracolose e di dentifrici, al giorno d’oggi, c’è l’imbarazzo della scelta. Con l’Amuchina ci siamo invece ritrovati quando è nata mia figlia e, in quell’occasione, ho capito perché nella dispensa di mia mamma non mancava mai. Con l’Amuchina si igienizza tutto e quando una nuova vita entra in una casa è meglio stare ben attenti alla pulizia. Ve lo dice uno che, quando è uscito dal reparto di ostetricia con il fagottino nuovo di pacca in braccio, ha trovato l’auto parcheggiata sotto con una vistosa scritta “lavami” ricavata sul fango che ricopriva il portellone posteriore, vergognandosi come un ladro. Dentro le condizioni non erano molto diverse e in quel frangente ho promesso a mia figlia – anche se non poteva capire – che avrei avuto maggior riguardo per la pulizia delle cose che l’avrebbero circondata, a partire dalla macchina. Promessa, ovviamente, che non ho mai mantenuto.

In questi giorni di epidemia, in cui l’Amuchina va a ruba e non mancano le ricette per i disinfettanti fai-da-te, ho un po’ rimpianto quella fissa dei miei genitori di averne sempre una scorta in casa, anche solo per poterla rivendere alla borsa nera. E così ho pensato anche al gioco di parole del titolo: se si chiamasse Amu China (pronuncia Amu Ciaina) chissà come l’avrebbero presa i consumatori più affezionati come mia mamma, in un momento in cui ci siamo scoperti essere così diffidenti da tutto ciò che viene da oriente.

zero paziente – day #2

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Stare a casa è bello e tutto quanto ma alla lunga rompe i coglioni. Almeno ieri sembrava uno di quei primi giorni quando si esce vivi dalle catastrofi come si vedono nei film, tutto cieli azzurri e prati verdi e tanta voglia di ricominciare. Oggi è tornato il cielo grigio milano che è più in linea con il bollettino di guerra anche se le istituzioni, finalmente, stanno smorzando i toni per far rientrare la psicosi.

Mi sento in pensione, o almeno immagino che essere in pensione sia così perché non ci sono ancora andato e chissà se mai ci andrò: uno stop produttivo forzato in cui ogni contribuente non può far altro che aspettare. Ma non dovete pensare che sia uno di quelli che non riesce a stare in casa. A casa ci sto benissimo e spero che nessuno degli addetti che controllano che l’Internet funzioni e che gestiscono le commodity base come la corrente, il gas e l’acqua non sia indotto ad abbandonare il posto di lavoro per la febbre del momento. Mi bastano i libri (ne prendo sempre tanti in biblioteca perché non si sa mai), i dischi (ne ho scaffali pieni), il pc da cui sto scrivendo, Netflix e poco altro.

Ho contravvenuto però alla clausura per sbrigare qualche faccenda che, anche se faccio l’insegnante, non riesco mai a sistemare durante la settimana normale. Le giacche pesanti al lavasecco e la macchina dal meccanico per un controllo all’impianto gpl. Il limite delle officine – almeno quelle che frequento io – è che non c’è una vera e propria reception. Ti presenti all’ingresso ma nessuno ti caga perché i meccanici sono troppo presi da quello che stanno facendo. Così aspetti che qualcuno passi di lì e abbia il tempo per raccogliere le tue indicazioni.

L’officina a cui mi rivolgo in realtà ha un’impiegata tuttofare, quella che la scorsa estate a furia di vedermi per problemi alla macchina mi chiamava Roby, ma è sempre al telefono con clienti e fornitori. Stamattina però non c’era il solito casino così sono riuscito ad accordarmi con lei per quello che c’era da fare. Mi ha detto di aver sentito alla radio che stavano per chiudere il paese attiguo al nostro come successo per i focolai del lodigiano, ho subito cercato riscontri con lo smartphone ma non ho trovato nulla. Così ho lasciato l’auto e le chiavi per il controllo e sono tornato a piedi.

Ho avuto tutto il tempo per riflettere e figurarmi cosa stessero facendo a casa i miei alunni, se anche i loro genitori fossero vittime del blocco totale o se avessero parcheggiato i figli dai nonni o da qualche altro conoscente. Da insegnante spero tanto che ci facciano recuperare questa settimana (e le altre che si renderanno necessarie a smaltire l’epidemia) a giugno, e secondo me sarebbe giusto e utile ai fini della didattica e della valutazione. Ho pensato anche di ricordare ai colleghi che la Google Suite che abbiamo in dotazione comprende un sistema per fare lezione da remoto in videoconferenza. Sarebbe bello provarla, e questa mi sembra la situazione più adatta.

cronache del coprifuoco – day #1

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Stamattina alle dieci e trenta alla Coop avevano già finito le banane e non so se questo sia correlato con l’assalto ai supermercati di cui parlano tutti e con le foto che stanno facendo il giro del mondo. Io sono andato solo per comprare due litri di latte e mi sono diretto in fretta al banco frigo. Ho notato però che c’era molta gente ma non ho mai fatto la spesa il lunedì mattina e non ho termini di paragone per confermare l’eccezionalità della situazione che mi si è presentata. C’erano tutte le casse aperte e gremite e persino una addetta alle casse automatiche che smistava la fila. Tutti facevano battute sulla corsa ai generi di prima necessità. Un ragazzo con la ffp3 bianca ha preso un cartone da sei uova proprio dietro di me, ma è l’unico che ho visto dentro. Fuori, mentre mi avviavo al parcheggio, un anziano con il volto coperto da una di quelle mascherine da verniciatura di colore sgargiante ha chiesto al venditore ambulante che staziona periodicamente all’esterno del supermercato se vendesse quel modello. Per assicurarmi che fosse vero quello che stava succedendo ho passato in rassegna i borselli e le cinture ammassate sul tappeto e, in realtà, di dispositivi di protezione delle vie aeree non c’era nemmeno l’ombra.

Lo stop didattico forzato mi ha fatto anche venire voglia di una corsetta all’aperto. Al parco c’era pieno di bambini con i genitori che si godevano spensierati questi giorni di vacanza estemporanei alla faccia dell’economia mondiale. Il tempo era stupendo, e ho pensato che non fosse proprio male il fatto che sia stata la natura (anche quella sviluppata artificialmente in laboratorio) a indurci a rimettere in ordine la scala delle priorità. Ci sarà tutto il tempo per recuperare qualche settimana di lavoro, epidemia permettendo, anche se alcune delle mie colleghe si sono già poste il dubbio se sia giusto mandare qualche compito da fare a casa ai bambini.

le cose, come stanno

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La mia vita è fatta di piccole ossessioni. Una di queste prevede che ogni cosa sia sempre al suo posto. Un accorgimento che investe anche le persone: gli adulti al lavoro, i bambini e i ragazzi a scuola, ogni giorno e seguendo una regola sociale di facile applicazione, considerando che è sufficiente attenersi alla normalità. Se non trovo l’adattatore della caffettiera elettrica che riduce la capienza del filtro da quattro a due tazzine e che deve stare nel pensile a fianco del barattolo del caffè inizio a preoccuparmi. Potrebbe già trovarsi nella caffettiera dal precedente utilizzo o, come è successo un paio di volte, qualcuno potrebbe averlo gettato per errore nella spazzatura svuotando il filtro, non accorgendosi della sua presenza. Stessa cosa se non c’è la schuko nella spina del tostapane. In casa ne abbiamo qualcuno in meno rispetto al bisogno, mentre i dispositivi con l’attacco tedesco sono la maggioranza, e io non mi sono ancora arreso all’assenza di uno standard globale su queste cose. Inizia così l’ispezione dell’estrattore, dell’alimentatore del notebook, la scopa elettrica e persino l’asciugacapelli per rintracciare l’ultimo che ha usato la schuko del tostapane senza riporla al suo posto, alla fine. Il fatto è che è una vita che mi dimentico di comprarne altre, proprio non mi viene in mente e non ho mai scritto sulla lavagnetta in cui si segnano i prodotti di cui c’è necessità di acquistare qualche adattatore schuko. Magari averne scritto qui cambierà qualcosa, chissà. Il punto è che questi piccoli disagi diventano assillanti se declinati sulle persone. Se mia figlia, per qualche motivo, non è dove deve stare, e cioè a scuola, inizio a sudare freddo. Mi dà persino fastidio se qualcuno dei miei alunni è rimasto a casa e non ho la classe al completo. Io stesso non ho fatto nemmeno un’ora di assenza in aula, nemmeno quando ho avuto l’influenza, un comportamento già sconveniente di per sé, figuriamoci oggi ai tempi del Coronavirus. L’ordine delle cose dev’essere mantenuto e rispettato. Scrivo tutto questo mentre la Regione Lombardia ha emesso un’ordinanza per chiudere tutti i luoghi pubblici, compresi i plessi scolastici, come cautela al fine di evitare una massiccia diffusione delle infezioni. L’idea che nessuno, per una settimana, sarà dove deve stare mi manda in tilt. Spero che mi sia di lezione.

tutto chiuso

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La psicosi del contagio ci induce a pensare che le generazioni nate dopo la guerra non abbiano mai attraversato una situazione di emergenza come quella che stiamo vivendo da qualche ora. Tutto chiuso, supermercati presi d’assalto, la gente barricata in casa. Risulta evidente che i provvedimenti che limitano la nostra libertà di spostamento sono stati presi per evitare che l’impennata delle infezioni possa portare al collasso il sistema sanitario nazionale, che comunque deve continuare a far fronte alla normale amministrazione. I problemi di salute tradizionali continuano e le risorse sono sempre quelle.

la narrativa ai tempi dell’epidemia

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Il farmacista dice di tornare dopo le diciotto e trenta per ritirare la pomata antibiotica senza cortisone che ha ordinato mia moglie. Mentre controlla la disponibilità tra i suoi fornitori il telefono squilla insistentemente. Dietro il banco sono in tre, tutti piuttosto giovani, ed è per questo che da queste parti preferiscono la farmacia comunale. I dottori di una certa età ispirano più esperienza e, di conseguenza, più fiducia, o comunque se qualcuno chiama mentre stanno servendo un cliente riescono a fare due cose simultaneamente. Il fatto è che la telefonata sembra urgente perché dall’altra parte nessuno desiste. Al momento di digitare il pin sul POS il farmacista si decide a rispondere: no, signora, le abbiamo finite, dice. Al termine della conversazione mi porge la copia dello scontrino della transazione e mi dice che a carnevale avrebbe preferito vendere ben altro tipo di maschere rispetto alle FFP3. Così vorrei dirgli che ho prenotato “Febbre” di Ling Ma in biblioteca molto prima che si diffondesse la psicosi per il Corona Virus ma i tempi di consegna, a seconda della posizione in coda, non li decide un’intelligenza artificiale. Così ho seguito la storia di Candace proprio mentre l’epidemia della nuova variante della polmonite si moltiplicava e colpiva persone secondo uno schema dettato dalla casualità. Un contagio random che nel mondo stretto e nel secolo brevissimo in cui viviamo e moriamo ci deve far riflettere sulla necessità di collegare per forza tutto e tutti. I giornali sostengono che l’isolamento sia la migliore autotutela e la battuta che vorrei fare, prima di congedarmi dal negozio, è che non devo certo aspettare che qualcuno mi dica di non uscire di casa. E chi si muove.

un anno, un anno e mezzo

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Mi piace assistere agli incontri con gli autori perché offrono la possibilità di conoscere il dietro le quinte dei romanzi. Non solo. Ascoltare gli scrittori parlare dal vivo, anziché leggerli, permette di avere un punto di vista diverso e più umano. Solo quando gli autori sono famosi, carichi di un messaggio meta-letterario e già pienamente integrati nello show business sotto altre formule – comparsate in reality show, giudici di talent, protagonisti delle cronache – le presentazioni assumono il valore di evento mediatico a tutti gli effetti. Al contrario, se lo scrittore è alla prima esperienza di successo si presenta spesso in versione dimessa, una persona normale che magari sta continuando a fare il lavoro che faceva prima – insegnante, ispettore di polizia, copywriter pubblicitario – e che prova a osservare il mondo descritto nella sua opera immergendosi nella realtà dei suoi lettori. Mi è capitato di partecipare – da spettatore, ovvio – a una di queste iniziative. L’autore si è presentato vestito da persona qualunque, anzi un po’ meno, con un vistoso moschettone a contenere le chiavi di casa agganciato a un passante dei jeans. Si trattava di uno scrittore di narrativa che, suo malgrado, ha avuto molto più successo con un libro per ragazzi. Ha risposto alle domande del pubblico – una nutrita scolaresca di una secondaria di primo grado – con un marcato accento genovese ma in modo esaustivo e garbato. Poi una ragazzina gli ha chiesto quanto ci impiegasse a scrivere un libro e lui ha risposto che ci vuole circa un anno, un anno e mezzo. Mi è sembrata una finestra temporale adeguata, a prova del fatto che è sbagliato pensare che la scrittura dipenda da fattori quali prestazioni del processore del pc su cui si lavora alla propria opera o autoregolamentazioni sul numero di battute o pagine da ultimare quotidianamente. L’immediatezza e la spontaneità con cui siamo abituati a esprimerci sui social non ci deve trarre in inganno. Temo, tra l’altro, che le previsioni dell’autore non tenessero conto del lavoro successivo dell’editor. Probabilmente si fa prima a fare un disco.

ctrl+c ctrl+v e altre combinazioni

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Ho partecipato, un paio di settimane fa, a un corso di formazione dedicato all’insegnamento dell’informatica nella scuola del primo ciclo. Mi ha fatto piacere avere la conferma, da gente molto più accreditata di me, dei tre errori fondamentali che dovrebbero essere al centro del dibattito su tecnologia e digitale nella didattica:
– l’ossessione per il coding lascia il tempo che trova
– gli investimenti nelle LIM hanno fatto sprecare risorse incolmabili alla scuola pubblica
– il mito che i millennials sono digital è da sfatare

Questo perché
– il coding lo si insegna da sempre e si chiama matematica
– portare Internet veloce e pronta a sostenere accessi simultanei illimitati alle scuole e dotare le classi di un pc di ultima generazione con un economico proiettore sarebbe stato più utile, consentendo agli studenti di usare il pc e non la tecnologia touch della lavagna (fuorviante rispetto alle potenzialità del touch come lo intendono gli studenti con i dispositivi che hanno a casa)
– i millennials saranno bravi con Tik Tok ma non sanno formattare un testo o creare un grafico con Excel. Magari quando entreranno nel mondo del lavoro non si useranno più Word o i fogli di calcolo, ma possiamo escludere che Tik Tok sarà il loro workspace.

Vi giuro che penso queste cose da sempre e che, da quando faccio l’insegnante, ho appurato che è proprio così. Per questo insegno informatica partendo dalle tabelle, dalla somma automatica, impostare i margini e suddividere le linee con i punti elenco senza impazzire.

Per non parlare dei tasti funzione e delle combinazioni che velocizzano le operazioni. Le freccine per andare su e giù e all’inizio e alla fine, il tab per passare da un campo al successivo, rinominare i file con F2, ctrl+a ctrl+x ctrl+c ctrl+v e tutte quelle figure in cui le dita si incrociano sulla tastiera come una partita a Twister.

E mi spiace che Larry Tesler, l’inventore del copia-incolla, sia appena scomparso a 74 anni. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita. Chissà con quali altri shortcut avrebbe potuto migliorarci la vita.

per chi ha deciso di cambiare

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Il montepremi prevede per il terzo classificato la revoca di tre figure di merda a scelta tra quelle presenti sulla pagina personale del sito dell’INPS. La compilazione e l’invio della richiesta è possibile previo accesso tramite credenziali SPID. I dati sono totalmente consultabili e costituiscono il risultato dell’incrocio delle prestazioni con il prossimo svolte negli ultimi dieci anni – a partire dalla data di registrazione al sistema – e la lista delle relazioni interpersonali ritenute sconvenienti (con una percentuale inferiore cioè al 75% di accettabilità secondo un calcolo effettuato con i valori incrociati con l’Agenzia delle Entrate per il calcolo dell’ISEE). Se vi avvalete – per esempio – del servizio per la presentazione della domanda nel mese di marzo del corrente anno 2020 la prima figura di merda visualizzata e disponibile alla revoca risale a dopo il 1 aprile 2010. All’accettazione dei disclaimer e il conseguente invio al sistema l’utente riceve una e-mail di conferma contenente un link per una landing page sul portale dedicato per l’uso del codice univoco per l’altro premio, ovvero il rimborso di una quota calcolata sull’imponibile netto proporzionale agli interessi maturati sul totale delle uscite di cui l’utente ha presentato domanda di recesso, dall’ultimo decreto legge a riguardo estendibile a tutto l’arco della vita del contribuente. Giochi rotti dopo poche ore, panini vomitati a seguito di sbornie, vestiti mai messi e ammassati nel dimenticatoio, dispositivi elettronici acquistati senza aver letto prima le caratteristiche tecniche, viaggi deludenti, cene offerte a potenziali partner senza seguito verranno quindi rimborsati in quote detraibili alla presentazione del successivo modello unico online. Lo stesso calcolo della quota 100 a fini pensionistici potrà essere rivalutato a seconda dell’entità dell’importo coperto dall’iniziativa. Per maggiori informazioni rivolgersi ai patronati di competenza.

Tame Impala – The Slow Rush

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[questo articolo è uscito su Loudd.it]

I Tame Impala suonano un genere a sé. Una posizione di prestigio che ha due chiavi di lettura: Kevin Parker ha davvero inventato uno stile che fa scuola oppure ha passato all’estrattore tutta la musica degli ultimi trent’anni dando vita a uno stile talmente evocativo da contenere l’essenza di tutti gli altri e, anche a un ascolto superficiale, ognuno noi è messo nelle condizioni di trovare un messaggio subliminale di quello che ha dentro, un po’ come la leggenda metropolitana dei frame porno o satanisti tra le scene dei cartoni Disney che ti fanno venire voglia di tette alla fine di “Bianca e Bernie”.

La storia della cover tratta da “Currents” copiata poi tale e quale da Rihanna la conosciamo tutti e rende l’idea del successo trasversale ottenuto dallo scorso album, nominato persino ai Grammy. Se possibile, “The Slow Rush” è un disco ancora più azzimato e barocco, un suono che per semplificare – o da quello che sappiamo dalle autocertificazioni presentate dall’autore stesso – riconduciamo all’art-rock psichedelico, come tutte le cose che non capiamo e che immaginiamo frutto di una mente dedita a perdere tempo speculando su quello che si può spiare sbirciando dagli spiragli delle porte della percezione che qualcuno ha lasciato socchiuse.

Se, quindi, con Kevin Parker vale tutto, “The Slow Rush” è una lenta corsa contro il tempo appesantita da alcuni fattori che portano il progetto Tame Impala ancora più distante dal guizzo di encomiabile ruvidezza stoner di “Innerspeaker”. Nel nuovo album c’è tutto il tempo per sorseggiare aperitivi degustando gli avanzi al buffet, ma il fatto è che se vi eravate lasciati ingolosire, qualche mese fa, dal singolo che ha preceduto l’album, “It Might Be Time”, dalla sua citazione di piano di “The Logical Song” dei Supertramp, dalla bizzarra quanto asimmetrica struttura, dal suono di rullante con quell’effetto che non ha eguali in natura e da quelle note di Moog trascinate all’estremo grazie al glissato, il rischio alla fine è quello di lasciare più di un avanzo nel piatto e fuggire dal locale.

Non ci si può sottrarre a un accostamento con tutti gli esperimenti di pop-prog elettronico derivativo e retro che si sono succeduti negli ultimi decenni e che hanno contribuito a mescolare i Rockets con gli Yes, i Rush con i Queen, Giorgio Moroder con gli Sweet o i Secret Service, a partire dagli Air, i Phoenix fino ai Daft Punk. Kevin Parker, in studio poco più che una one-man band con l’aggravante del timbro ossessivamente in falsetto, aggiunge il valore del suo brand, il marchio di fabbrica che candida già da ora “The Slow Rush” a disco dell’anno e se non volete perdere il carro del vincitore spicciatevi a far valere, a partire da oggi, il vostro diritto di prelazione.

A onor del vero, il lavoro che si intravede sotto le tonnellate di suoni distribuiti tra le numerose parti che si alternano a definire le canzoni del disco risulta sicuramente frutto di una minuziosa ricerca, un vero e proprio viagra per qualunque appassionato di synth, e questo va riconosciuto.

Mentre l’attacco di “Instant Destiny” vi manderà in corto circuito nel tentativo di pensare che cosa vi ricorda, “Borderline” ha tutte le carte in regola per diventare una hit mondiale e far gola a qualche altra popstar in quota Coachella, e il raffinato funk di “Breath Deeper”, con il suo piano dance, non è da meno. Geniale anche il richiamo a Harry Nilsson e alla sua “Everybody’s Talkin’” (che da queste parti potrebbe persino passare per una citazione di “Coriandoli su di noi” dei Ricchi e Poveri ma meglio arrendersi alla coincidenza) di “Tomorrow’s Dust”. I rimandi al passato non finiscono qui – d’altronde siamo nel bel mezzo di un concept-album che ha proprio il tempo come protagonista – ed eccoli riaffiorare proprio con “Lost In Yesterday” e, poco dopo, con il tuffo nel prog-glam di “One More Hour”.

Se “The Slow Rush” si proponesse come un onesto e filologico compendio di storia della musica potrebbe assurgere a manifesto di un nuovo movimento di “indietro-nica”, ma l’impressione è che Kevin Parker abbia ben altre ambizioni. Pur riconoscendone la qualità, un’approfondita esperienza d’ascolto restituisce solo un’espressione di pura musica liquida in senso baumaniano, passatemi il termine, un buon album di lounge molto fighetta o poco più.