qualche idea per un inno di una zona rossa – day #13

Standard

Quelli che sognavano la secessione saranno contenti. Lo smacco è che a nessuno è venuto in mente di chiamarla zona verde, ma più che di daltonismo è una questione di semiotica dei colori. Ci hanno chiuso dentro e buttato via la chiave, come si dice. Qui è pericoloso, e Zingaretti ne sa qualcosa. Persino a chi se ne starebbe tutto il giorno chiuso in casa questa imposizione sta stretta. Oggi c’era il sole e il fatto che sembrasse primavera ha spinto tutti quanti a condurre la propria vita come se niente fosse: i social sono zeppi di foto di gente a spasso per Milano, a fare shopping, a bere l’aperitivo, forse perché riflettere sulle strade e i bar vuoti ci ha trasmesso l’idea di quanto sia fondamentale la gente per una città. La gente che vituperiamo, odiamo, prendiamo in giro perché commette errori di grammatica da prima media e a cui vorremmo togliere la licenza di esprimere il proprio voto è il principio cardine della vita. Proprio per questo è importante preservarla, tutto sommato. Altrimenti, con chi litigheremmo su Facebook? Siamo al di qua di una cortina di ferro e ci staremo per un po’. Chiudersi in casa farà bene a tutti.

pensare positivo per risultare negativo – day #12

Standard

Partecipare alla vita sociale, di questi tempi, è una roulette russa, ma se dici di no a un appuntamento fai la figura del paranoico. Ho trascorso la serata a una cena a sorpresa, e la sorpresa non era il Covid-19 che usciva in bikini da una torta, senza contare che non ero il festeggiato. Un’amica ha cambiato numero davanti raggiungendoci nei cinquanta e il marito le ha organizzato una paella con sangria sui Navigli. Il caso ha voluto che il mio posto al tavolo fosse a fianco del cantante di una band indie-rock italiana degli anni 90 e a meno di un metro di distanza. Abbiamo condiviso il palco rotante del concerto del Primo Maggio a Roma nel 96 (non c’era nessuna epidemia in corso e comunque abbiamo suonato in momenti differenti) ma poi loro, grazie a un’identità molto più convincente della nostra, hanno vissuto una carriera più longeva. Quando si incontrano due musicisti quello che c’è intorno sparisce soppiantato da sale prove puzzolenti, birre medie alle quattro del mattino, viaggi interminabili su furgoni malridotti, pagamenti rateali di strumenti messi a rischio da introiti aleatori, esibizioni al cospetto di quattro gatti e cose così. Il timore del contagio è passato quindi in secondo piano al terzo o quarto aneddoto. E pensare che, poche ore prima, avevo insistito per tenermi alla larga dalle colleghe durante una sessione di programmazione didattica a scuola. C’è una parte molto realista della scuola che pensa che, a questo punto, se ne riparli a settembre. Ma c’è anche una nutrita compagine di insegnanti che sostiene che le misure di prevenzione siano sovradimensionate e ti prendono in giro se proponi una videoconferenza al posto di una riunione di persona. Gli scienziati consigliano caldamente di stare in casa e io, non essendo scienziato, faccio quello che mi dicono.

ritornelli contagiosi – day #11

Standard

Se dovessi fondare una band oggi proporrei come nome COVID-19, scritto così tutto maiuscolo e pronunciato all’inglese “covaidi naintiin”. Mi immagino un successo della madonna, per un gruppo di post-punk, e anche uno di quei micro-spot che le rockstar fanno alle emittenti televisive tipo “ciao, sono plusuan giemtii, tastierista dei covaidi naintiin, state guardando Deejay Television e questo è il nostro nuovo video”. Dopo, lo stacco/jingle della trasmissione che lancia il singolo, un ronzio che si leva sopra a immagini di pandemia e apocalisse. La band è inquadrata in brevi scariche di qualche secondo, come interferenze di onde elettromagnetiche, unico segnale di vita nel silenzio cosmico, tutti vestiti di nero con delle mascherine protettive bianche dietro a strumenti realizzati con evidenti materiali di scarto provenienti dalle numerose discariche in cui si sono trasformate le principali metropoli dell’occidente industrializzato alla deriva. Ritmi ossessivi, suoni alienanti, consueta voce eco di quella dimensione parallela che ha dato i natali a tutti i figli del disagio post-coronavirus. L’anti-natura che cerca la sua rivincita in un album di cattiveria sperimentale.

Potrebbe essere un nostro fan il bibliotecario che oggi mi ha consegnato i libri che ho ordinato per affrontare la clausura senza annoiarmi. È uscito il nuovo di Percival Everett, “Quanto blu”, poi ho preso “Uomini di poca fede” di Nickolas Butler e “The Free” di Willy Vlautin. Mentre sbrigava la pratica ha accennato qualcosa sui miei gusti smaccatamente americani, ma non ho capito nulla. Sono duro d’orecchi, mi trovo in difficoltà se non leggo il labiale, e quando c’è di mezzo una vistosa FFP3 assicurata con i lacci a doppio giro dietro le orecchie le possibilità scendono a valori irrisori. Mentre rientravo in bici pensavo ai titoli delle nostre canzoni, intendo alle hit dei COVID-19 e a quanto era bello quando a sedici anni passavo sabato e domenica pomeriggio chiuso in sala prove con il mio gruppo, che poi era anche la mia famiglia, che poi era anche il mio mondo. Un ambiente così poco salubre che, di questi tempi, sarebbe più che fuorilegge.

niente in programma – day #10

Standard

Non mi avete ancora dato la risposta alla domanda “che cosa è qualche settimana o un mese rispetto a una intera esistenza” ma probabilmente non avete studiato e non venite a dirmi che quando l’ho spiegato eravate assenti. Scherzi a parte, a scuola molti colleghi hanno deciso di approfittare della sospensione dell’attività didattica fino al 15 marzo per fare un bel ripasso di tutto. Quale migliore occasione per allinearsi sul programma tutti insieme. Prendiamo questo esempio dalla didattica e organizziamo la vita così, in questi tempi di coronavirus e di economia in stand-by. Facciamo un bel ripasso di tutto quello che abbiamo fatto finora. Gli affetti, le cose che non abbiamo risolto, quello di cui ci eravamo dimenticati, le relazioni che abbiamo sospeso, i progetti che abbiamo lasciato incompiuti in qualche cassetto, come ce la siamo cavata fino ad oggi nella nostra vita passata remota e in quella più recente. Le materie in cui zoppichiamo, a partire dalla difficoltà ad ascoltare, a comprendere e ad aiutare. Certo, sempre che possiate permettervelo. C’è un sacco di gente che non ha lo stipendio fisso e assicurato e che, a stare con le mani in mano, rischia la bancarotta. Ci saranno delle misure ad hoc, questo è quello che si dice. D’altronde, tra queste parentesi ci siamo davvero tutti, credeteci o no. Le difficoltà investono ricchi e poveri, magri e grassi, i leghisti e quelli di Lotta Comunista a cui ho aperto il portone stamattina. Se vi occorre una mano, in questo ripasso, fate sapere a me che sono un insegnante. Abbiamo anche a disposizione un’efficiente piattaforma per la didattica a distanza, quindi non c’è nemmeno il rischio di scambiarci qualcosa di brutto.

isolation – day #9

Standard

Il fatto che facciamo a gara a fare citazioni musicali che possano rimandare al coronavirus la dice lunga sul modo in cui siamo cresciuti. Il problema è che le cose possono cambiare. Abbiamo vissuto un’epoca di relativa pace, di sviluppo, di democrazia e di tranquillità economica e sociale. Ma provate a chiedere a chi abita nel terzo mondo, in medio oriente, o anche solo alle regioni che hanno subito catastrofi naturali e terremoti. Un giorno stai a scrivere stronzate sul tuo blog e quello dopo i contagi di un’epidemia arrivano a quota 2263. Ci sono situazioni di emergenza che comportano la clausura, la limitazione della libertà, la povertà, la perdita del lavoro, l’indigenza, persino la morte e, paradossalmente, questa è la vita. Non c’è nessuna civiltà tecnologicamente evoluta che non ne possa essere esente. Pensate alle famiglie di origine ebraica nella Berlino degli anni 30, oppure a quello che succede in Siria, quelli che si avventurano sui gommoni per sbarcare a Lampedusa e i nostri antenati sulle navi dirette in America. Purtroppo accadono cose che cambiano il corso della vita, individualmente e coralmente, ma questo non c’è bisogno che ve lo dica io. La cosa che mi colpisce – a parte quello che dice la gente a proposito di ciò che succede – sono le persone che sono diverse da me. Nel senso di molto diverse: chi sceglie di fare il dirigente scolastico, chi sceglie di pilotare aerei di linea, chi decide di diventare attore che è una cosa che non farei mai. Oggi ne ho conosciuto uno, un signore anziano che fa parte di una compagnia amatoriale. Si vedeva che faceva l’attore perché sfoggiava una personalità a cui non potrò mai aspirare per indole. Anzi, ne aveva così tanta che forse erano due in un corpo solo. Per consolarmi ho chiamato il mio ristorante cinese preferito ma, a conferma di quello che si legge in giro, è chiuso e fa servizio solo d’asporto. Il proprietario, che è molto simpatico, si è scusato e così poi gli ho chiesto scusa io, per tutto. Dimenticavo: la citazione musicale contestualizzata al momento è “Isolation” dei Joy Division, in questa versione sbarazzina dei New Order.

l’artista è passato – day #8

Standard

Mi piacciono i film sulla seconda guerra mondiale perché, qualunque sia la trama, finiscono bene e i nazisti ne escono sconfitti. Ancora più belli sono i film in cui c’è la caccia ai nazisti e finisce che li fanno fuori tutti, penso alla scena trionfale di “Bastardi senza gloria”. Nell’ottavo giorno di clausura da coronavirus ho iniziato “Hunters” su Amazon Prime, una serie che se vi piacciono le storie in cui le vittime dell’olocausto si vendicano sui loro carnefici è perfetta. Mentre assistevo alla prima puntata pensavo che potrei scrivere un racconto o un libro in cui ci sono dei nazisti che vengono uccisi uno ad uno. Una trama semplice composta da una lunghissima sequenza di nazisti che si prendono pallottole in fronte. Detta così potrebbe sembrare un romanzo noioso ma sono sicuro che avrebbe successo tra quelli come me che hanno sete di giustizia universale.

In realtà oggi ho infranto la quarantena per trascorrere una buona mezz’ora in coda all’ufficio postale a ritirare un pacco. C’era parecchia gente, costretta dal direttore della filiale ad attendere fuori senza nemmeno poter prendere il biglietto della fila. Ordini superiori, rispondeva a chi gli chiedeva spiegazioni. L’ordinanza della Regione vieta gli assembramenti nei luoghi pubblici. Non c’era uno in attesa che non si lamentasse ad alta voce per la cattiva gestione, per le disposizioni sovradimensionate in materia di prevenzione, per il terrorismo psicologico dei media e per tutte queste teorie mescolate l’una con l’altra. Un cretino sosteneva addirittura che il vero virus sono i nostri governanti, una bella frase d’effetto che avrà letto chissà dove su Facebook.

E, a proposito di social media, oggi io mi sono sentito come quel meme di Pablo Escobar che aspetta in diverse posizioni, avete presente? Un’ulteriore settimana di sospensione dell’attività didattica mi ha messo giù di corda. Come se non bastasse, in giornata abbiamo anche appreso la notizia della morte di Ulay, l’artista ex compagno di Marina Abramovich. Quando ho assistito a quel lungo addio che si sono dati seduti l’uno di fronte all’altra al Moma, durante la performance “The Artist Is Present”, mi sono chiesto come sia possibile che due come loro decidano di prendere strade diverse. Come fa l’amore nato dall’arte e per l’arte a separare le persone. Per me non esiste nulla di più longevo.

finestra, letto e la tua radio che continua a dirti che è domenica – day #7

Standard

Quando è domenica, è inverno e potrebbe andare peggio, potrebbe piovere, la clausura sembra un’abitudine o un comportamento naturale, considerando che in casa ci saremmo stati comunque. La differenza la fanno alcuni dettagli: domani nessuno interroga nessuno, certe categorie professionali non mettono la sveglia, non ci sono idioti alla tele che ti guardano e che continuano a giocare perché la partita della squadra del cuore è stata rimandata, tua madre smette di dirti “ma non esci mai? Perché non provi a divertirti” dato che siamo in quarantena e soprattutto, secondo la chiusura del testo della canzone che spero abbiate afferrato, meglio non lasciarci le penne.

Anche oggi il mondo della scuola è in subbuglio, almeno qui nella zona giallo/arancione, perché non si sa bene cosa succederà domani. Dalla stanza dei bottoni dicono che si sta a casa ma poi non pubblicano l’ordinanza ufficiale quindi non si sa ancora se sia uno stop didattico, se si tratti di una chiusura totale, se docenti e personale amministrativo debbano sottoporsi alla disinfezione. Noi insegnanti ce ne laviamo le mani, ma posso garantirvi che eravamo puliti anche prima dell’epidemia. Anzi, già che ci siamo, spero che la gente cominci a lavarsi tout court, a partire da quelli che si vestono a cipolla e che ne interiorizzano le qualità organolettiche.

Comunque ho passato la domenica a lavorare per dare un po’ di continuità didattica con le piattaforme digitali. Ho anche ricordato alla mia preside che si possono fare i collegi docenti con Google Meet. Ma la vera notizia del giorno non è questa, semmai il contagio di Luis Sepúlveda. Appena l’ho letto mi è tornato in mente il cartone animato de “La gabbianella e il gatto” e le migliaia di volte che mia figlia mi ha chiesto di vederlo quando era bambina. I ratti hanno un ruolo importante, in quella storia, e ne escono sconfitti. Speriamo che si riprenda presto, come i più di 1500 contagiati.

A parte la vacanza forzata, che poi tanto vacanza non è, credo che stare isolati un’altra settimana non possa che fare bene. La clausura è l’unico modo per abbattere il rischio di diffusione, per una malattia che si trasmette con il contatto. Il problema dello stare a casa è che aumenta l’appetito, complice la noia. A fine epidemia pesiamoci tutti e vediamo chi ha preso più chili.

comunque meglio un topo vivo che un topo morto – day #6

Standard

Li avete visti anche voi mangiare topi vivi? Ma no, non i cinesi. I Visitors. Che poi, voglio dire, paese che vai, gastronomia che trovi. Il mio ex datore di lavoro ha fatto armi e bagagli e si è trasferito in Thailandia dove ha avviato un’impresa alimentare basata sugli insetti, pasta fatta con la farina di grilli, barrette a base di polvere di bachi da seta e cose così. I racconti di chi ha viaggiato in oriente e ha assaggiato le cavallette fritte sono piuttosto diffusi. Facile che in Cina ci prendano in giro per l’agnello a pasqua o il piccione servito nei ristoranti di campagna del nord Italia. Tra le numerose cose che si possono fare in quarantena c’è proprio la sperimentazione culinaria. A me non mi viene mai, questa voglia, e dopo aver trascorso il giorno tra preparare lezioni per la didattica a distanza della settimana prossima, una corsetta quotidiana e un film su Netflix, mi viene sempre voglia di farmi portare una pizza o di ordinare i miei noodles preferiti al mio ristorante cinese di fiducia ad Affori, a qualche km da qui. L’ultima volta che mi sono servito da loro per l’asporto – eravamo già in piena emergenza coronavirus – avevano appeso all’ingresso un vistoso quanto inquietante cartello in ideogrammi. Dentro non c’era nessuno (è un locale frequentatissimo da orientali) e magari l’avviso intendeva far stare alla larga i connazionali. Scherzo, eh. Piuttosto, sapete chi vi saluta tantissimo? No, non stocazzo, ma una coppia di amici che si sono trasferiti da tempo a Hong Kong – non chiedetemi perché – e che si sono fotografati in un ascensore con le mascherine. Lei la conosco da quando ho soggiornato a Brooklyn, una vita fa, in un appartamento di sfaccendati che accumulavano cibi scaduti nel frigo. Erano i tempi di Friends, ma con l’ordine maniacale di Monica proprio non ci azzeccavano. Dormivo in una stanza con uno mai visto prima che lavorava di notte in una web agency e che incrociavo prima di coricarmi e al mio risveglio. In cucina lasciavano delle trappole per topi e, una mattina, ne ho trovato uno (piccolino, mica come quelli a cui fa riferimento Zaia) spiaccicato dentro, con la testa mezza staccata e le budella fuori. Vi assicuro che, tra un topo vivo e uno morto, non ho difficoltà a indicare la mia preferenza.

ogni scherzo vale – day #5

Standard

Non vorrei essere nei panni di uno di quegli insegnanti piuttosto competenti in ambito digital che si trovano a dover fronteggiare il fenomeno, dovuto alla possibilità di un’ulteriore settimana di chiusura delle scuole, dei colleghi che non hanno mai utilizzato strumenti di didattica da remoto e che, per farsi belli e perché hanno un dirigente che gli sta con il fiato sul collo, vogliono partire con quello che chiamano e-learning già da questo lunedì pur non avendo una sufficiente dimestichezza con Internet e la tecnologia in genere. Sempre che non si ritorni a scuola, cosa che quegli insegnanti piuttosto competenti in ambito digital auspicano fervidamente malgrado siano consapevoli della teoria delle biglie e della diffusione esponenziale del contagio. Mi riferisco a quei docenti il cui indirizzo email poi passa di collega in collega sino ad arrivare ad altri istituti comprensivi dove qualcuno pensa che, magari, può avere qualche dritta lo stesso anche se l’insegnante piuttosto competente in ambito digital di cui sopra è di ruolo in un altra scuola. Per quanto riguarda il resto, è sempre più ovvio che gli italiani, per dirla alla savonese, se ne stanno sempre più battendo la ciolla e con il fatto che ormai le precauzioni non le prende più nessuno – e siamo solo al quinto giorno della quarantena – possiamo solo immaginare cosa succederebbe se ci fosse un’emergenza di quelle toste, un’esplosione nucleare o un’invasione aliena sotto forma di radiazioni sconosciute. Tempo mezza giornata – ma di meno – e gli italiani si estinguerebbero in in un battibaleno se non in un battibelino. Un fornitore a cui mi appoggiavo nella mia vita precedente alla scuola – quando cioè ero un digital per nulla competente nell’ambito del lavoro che svolgono gli insegnanti – ieri mi ha scritto su Whatsapp vieni a trovarmi domani, è tanto che non ci vediamo e mi piacerebbe incontrarti. Io, che come il resto del personale della scuola sono a casa per interrompere la crescita esponenziale dell’epidemia,  ho risposto subito va bene, domattina sono a casa per il coronavirus quindi passo a salutarti. Il mio ex fornitore mi ha risposto mi spiace, domattina sono impegnato per un lavoro. Non ho saputo cosa rispondergli, sapevo che avrei dovuto farlo subito ma mi ha assalito il senso di colpa per averlo messo in imbarazzo. Dal momento che avevo declinato già tante volte il suo invito magari ha pensato di scrivermi sapendo che sarei stato impegnato e la mia disponibilità lo ha destabilizzato. Io sono sicuro che non l’avrei mai fatto. Poi ho pensato che oggi è l’ultimo giorno di carnevale ambrosiano e che forse si è trattato di uno scherzo.

chiedo l’aiuto da casa – day #4

Standard

Il coronavirus ha messo al centro del dibattito anche la didattica online e da remoto. Se esiste il telelavoro perché non si può mettere in pratica anche la telescuola? Si tratta di un sistema di lezioni a distanza che ha avuto illustri predecessori, dalla Scuola Radio Elettra all’università alla tv con i programmi trasmessi di notte sui canali RAI. Il fatto è che oggi, grazie agli strumenti di collaborazione e comunicazione e, soprattutto, grazie alla banda larga, è possibile che prof e studenti si interconnettano dalle loro case in pigiama anziché recarsi in aula in bermuda e infradito. La classe virtuale non è più un sistema scolastico fantascientifico, ed è bastato qualche preside orientato al marketing, in questi giorni di quarantena, che subito ha scatenato la corsa alla tecnologia. Lezioni in diretta Facebook e videoconferenze con Google Meet, con i docenti più scafati in ambito digitale chiamati ad allestire in quattro e quattr’otto per i colleghi meno scafati ambienti sul web già ampiamente disponibili anche prima ma che nessuno, prima dell’emergenza, si era cagato di striscio.

Stando a casa in giorni e orari in cui normalmente si è in cattedra o dietro a un banco è possibile però imparare in mille altri modi, a partire dalle trasmissioni culturali alla tele. Ho scoperto che va ancora in onda, per esempio, un programma interamente dedicato alla storia e condotto da Paolo Mieli di cui avevo già parlato qui. La peculiarità di “Passato e presente”, questo il titolo, è che mette a confronto su importanti temi storici uno studioso attempato o comunque riconducibile all’esperienza e tre giovanissimi universitari o poco più, riconducibili ai cervelli non ancora in fuga. Ragazzi poco più che ventenni ma con una competenza sugli argomenti trattati a dir poco invidiabile, in grado di tener testa ad autorevoli specialisti e luminari del settore. Ascoltando loro non solo si imparano cose nuove su argomenti sui quali un ascoltatore medio che ha sostenuto e superato esami di storia all’università dovrebbe bene o male ricordarsi qualcosa, ma ci si rende conto del fatto che alla loro età gli stessi ascoltatori medi di cui sopra, al massimo, erano in grado di affrontare discussioni sui Cure o i Killing Joke e oggi, a cinquant’anni suonati, nemmeno più quelle.