giardino

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Sono in molti a chiedermi cosa si prova alla conclusione di un ciclo. Io rispondo che non lo so, questa ĆØ la prima volta che accompagno una classe fino alla quinta, e che ne riparleremo a giugno. Anzi, non rispondo proprio perchĆ© ho il sentore che sarĆ  complicato. Se rivolgete la stessa domanda alla mia collega, che invece ĆØ una veterana, lei ha la mia etĆ  ma fa questo lavoro da quando aveva diciannove anni (io a diciannove anni mi conciavo come Robert Smith e volevo fare il musicista new wave) vi sentirete rispondere che ĆØ un aspetto del nostro lavoro, che siamo di passaggio nella vita dei bambini, che poi si riprende con un’altra prima e i nostri ex alunni, tempo qualche mese, non si ricorderanno piĆ¹ chi siamo e cosƬ via. Se lavori con le persone, le persone nella vita vanno e vengono e affezionarsi non ĆØ tanto che non bisogna farlo quanto che ĆØ controproducente, un po’ come per i dottori, gli psicologi, gli allenatori sportivi. E, a pensarci bene, gli insegnanti sono un po’ tutte queste figure insieme ma anche di piĆ¹. C’ĆØ qualche volta in cui non vedo l’ora di lasciarli perchĆ©, ora che sono grandi, non li sopporto piĆ¹. Ma ĆØ un po’ come le dinamiche in famiglia: la sovraesposizione alle persone genera mostri relazionali. Abbandonereste mai il vostro partner, i vostri figli, i vostri gatti solo perchĆ© qualche volta vi fanno arrabbiare? Ecco, anche tra maestri e alunni funziona allo stesso modo. Sanno essere adorabili e insopportabili, a volte anche simultaneamente. La cosa che ho imparato ĆØ che si possono fare delle sfuriate e mettere tutte le note sul diario del mondo ma la mattina dopo, suonata la campanella, i bambini non se lo ricordano piĆ¹ e sono pronti a ripartire da zero, senza risentimento alcuno. A parte qualche eccezione, la mia classe andrĆ  alla secondaria dello stesso istituto comprensivo. Si trova dall’altra parte del giardino e condividiamo la stessa palestra. Ogni tanto li vedo passare, di ritorno dall’ultima ora di motoria, o mentre giocano nel campo di basket in cui ci mettiamo noi nell’intervallo lungo perchĆ© il docente ĆØ assente e l’insegnante di sostegno li porta a pascolare fuori. Li osservo comportarsi da adolescenti e mi chiedo che cosa c’entrino con il materiale umano che mi trovo sottomano. Non ce li vedo, i miei alunni, in quei corpi sviluppati, i maschi con la peluria sul viso, le femmine con il seno. Un paio di notti fa ho sognato il mio ACD cinese che mi parlava nel modo in cui si rivolge a me dalla prima, con le sue frasi senza senso in un italiano da linguaggio macchina. Nel sogno pensavo che non sarebbe stato poi cosƬ male non essere piĆ¹ importunato dalle sue domande sgrammaticate e sparate a raffica, sentirmi libero dall’essere il suo unico punto di riferimento e il primo a cui dire che ha mangiato al Burger King o che suo fratellino lo ha svegliato alle sei e trentotto. Nel sogno eravamo in giardino, lui mi stava accozzato come ha fatto ogni giorno, sin dalla prima a oggi,Ā  a disturbarmi in quella mezz’oretta di relax, mentre tutti gli altri giocavano a calcio nel campetto da basket, e poi, non chiedetemi il perchĆ©, ma nel sogno pensavo a lui come farĆ  il prossimo anno e mi mettevo a piangere e singhiozzare proprio come fanno loro, maledetti ingrati che andranno alle medie senza di me.

Egyptian Blue – A Living Commodity

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Stare dietro alle nuove uscite di dischi post-punk e distinguere quelle di reale qualitĆ , di questi tempi, ĆØ unā€™impresa. Il rischio per i militanti del genere, soprattutto se emergenti, ĆØ quello di rincorrere lā€™affermazione affiliandosi a uno dei generi del momento senza una visione a lungo termine. Ogni nuova uscita ĆØ bene prenderla con riserva. Molto meglio aspettare il secondo disco, per verificare se si ha a che fare con un progetto da una botta e via o cā€™ĆØ invece dietro della sostanza in grado di garantire la crescita e la definizione di uno stile piĆ¹ personale.

In questo scenario, possiamo considerare gli Egyptian Blue unā€™eccezione a tutti gli effetti. Il loro debutto a trentatrĆ© giri dal titolo A Living Commodity suona giĆ  come una conferma e un traguardo di maturitĆ  compositiva.

SarĆ  che la band pubblica singoli e EP dal 2019 e che (sopravvissuti alla selezione naturale artistica imposta dal lockdown) sono stati chiamati a condividere il palco con gruppi della portata degli Idles e dei Foals nei loro tour. I rispettivi leader, Joe Talbot e Yannis Philippakis, si sono dichiarati sostenitori entusiasti di questo quartetto originario di Colchester, poi cresciuto musicalmente a Brighton. Non a caso, se vogliamo dare delle coordinate, gli Egyptian Blue professano influenze indie-rock anni 2000 (che grazie a loro acquisisce lo status di classico a tutti gli effetti) piĆ¹ che dallā€™onnipresente famedio degli anni ’80.

Il nucleo fondante di questa nuova promessa del post-punk ĆØ capitanato dal ticket Andy Buss e Leith Ambrose, entrambi chitarristi e cantanti che si frequentano musicalmente dallā€™adolescenza, e completato dalla potente propulsione ritmica di Luke Phelps al basso e Isaac Ide alla batteria.

Il quartetto ĆØ artefice di un suono che rielabora gli standard specifici del genere con un inconfondibile piglio personale, caratterizzato da riff graffianti che sconfinano nel math-punk, spesso in tempi dispari, ripetuti in loop, e destinati a incastrarsi brutalmente in basi quadrate e martellanti, sulle quali si normalizzano straordinariamente in un andamento regolare e ipnotico. Nellā€™insieme, un suono elettrico e pulito basato sulle chitarre, veloce e a forte impatto, con tracce essenziali e compatte che concentrano, in tre minuti o poco piĆ¹, tutto quello che cā€™ĆØ da dire.

Il disco suona nervosissimo dal primo allā€™ultimo brano, sia nelle tracce in cui lā€™intransigenza post-punk non ammette compromessi, come ā€œMatadorā€, ā€œNylon Wireā€, ā€œTo Be Feltā€ e ā€œContain Itā€, sia nei brani in cui la voracitĆ  esecutiva lascia spazio allā€™introspezione e allā€™atmosfera, ĆØ il caso della titletrack, di ā€œApparent Causeā€ e di ā€œSuit Of Lightsā€, sia negli episodi piĆ¹ riusciti del disco, in cui la rabbiosa scrittura della band ĆØ mediata dalle incursioni in trovate ritmiche scomode ma gestite con grande perizia, grazie alla tecnica esecutivo dei quattro. ƈ infatti in canzoni come ā€œBelgrade Shadeā€, ā€œSkinā€, ā€œIn My Conditionā€, ā€œGeishaā€ che A Living Commodity risalta nella sua eccezionalitĆ , grazie a uno stile fuori dagli schemi che ci auguriamo che la band – sicuramente una delle piĆ¹ convincenti promesse della piĆ¹ recente scena anglosassone – abbia lā€™intenzione di approfondire.

Di certo, lā€™esordio degli Egyptian Blue, perfezionato lungo varie scritture e riscritture e pubblicato da YALA! Records, etichetta co-fondata dall’ex componente dei Maccabee Felix White, ĆØ uno dei piĆ¹ freschi debutti sulla piazza. Unā€™opera prima ambiziosa di una band destinata a lasciare il segno

giro giro tondo

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Da qualche tempo WordPress, la piattaforma su cui si basa questa specie di blog e che ĆØ leader di mercato per lo sviluppo e la gestione di siti web, mette a disposizione un sistema di Intelligenza Artificiale che analizza i contenuti prima di pubblicarli. Immagino siate a conoscenza del dibattito sull’AI in auge da qualche tempo. Uno degli ambiti in cui l’Intelligenza Artificiale rischia di provocare piĆ¹ danni all’umanitĆ  ĆØ proprio quello della creazione dei contenuti. L’articolo che sto scrivendo, inutile al cazzo ma questo ĆØ un altro discorso e che mi occupa per circa una mezz’oretta tra stesura e rilettura, potrebbe essere redatto perfettamente nel tempo in cui io digito una parola da ChatGPT. Ne consegue che questo pluripremiato riferimento per la letteratura web contemporanea potrebbe essere sostituito da un robot e io potrei essere mandato in pensione come blogger, pensione tra virgolette anche se non le ho messe ma avete capito il punto. Comunque, per farvi capire l’utilitĆ  di questo servizio, ecco l’analisi che questo presuntuoso sapientone ha fatto del mio pezzo di ieri:

Il contenuto del post sembra essere una riflessione personale sul medico di base e la sua collezione di fumetti. L’argomento ĆØ interessante, ma il testo potrebbe essere migliorato.
Ecco alcune azioni per migliorare il contenuto:
1. Concentrati sul tema principale: fai in modo che il testo ruoti attorno al medico di base e alla sua collezione di fumetti, evita di divagare su altri argomenti.
2. Organizza il testo: struttura il contenuto in modo piĆ¹ chiaro con paragrafi piĆ¹ brevi e una progressione logica delle idee.
3. Elimina dettagli non rilevanti: rimuovi le informazioni superflue che non aggiungono nulla alla storia o all’argomento principale.
4. Aggiungi dettagli ed esempi: arricchisci il testo con descrizioni vivide e esempi concreti per coinvolgere meglio i lettori.
5. Controlla la coerenza: verifica che ci siano collegamenti chiari tra le frasi e i paragrafi, in modo che il testo risulti scorrevole da leggere.
6. Rivisita la grammatica e la punteggiatura: correggi eventuali errori grammaticali o errori nella punteggiatura per rendere il testo piĆ¹ professionale.

Spero che queste indicazioni ti aiutino a migliorare il contenuto del post!

Gne gne gne. Non vi nascondo che, grazie alla mia presunzione, questa sfilza di suggerimenti efficaci che non applicherĆ² mai mi ha riempito di orgoglio. Se le macchine la pensano cosƬ, significa che lo sto facendo giusto. Anzi, ecco anche l’analisi su questo che ho appena scritto:

Il contenuto del post sembra essere una riflessione sull’utilitĆ  dell’intelligenza artificiale nella creazione dei contenuti. L’argomento ĆØ interessante, ma il testo potrebbe essere migliorato. Alcune azioni per migliorare il contenuto potrebbero essere:
1. Organizza il testo in paragrafi piĆ¹ brevi per migliorare la leggibilitĆ .
2. Evita divagazioni su argomenti non correlati all’intelligenza artificiale nella creazione dei contenuti.
3. Controlla la coerenza delle frasi e dei paragrafi in modo che il testo risulti piĆ¹ scorrevole.
4. Verifica la grammatica e la punteggiatura per rendere il testo piĆ¹ professionale.
Spero che queste indicazioni ti aiutino a migliorare il contenuto del post!

Vedete? L’Intelligenza Artificiale sa di avere i giorni contati.

debite proporzioni

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Il mio medico di base ha lo studio che trabocca di albi di fumetti anni ottanta e quando qualcuno giustamente gli chiede, usando l’ineffabile formula della domanda retorica, se ĆØ un collezionista, lui glissa elegantemente sulla risposta e si concentra su qualche attivitĆ  propria del suo lavoro, come stampare una prescrizione, chiedere di sdraiarsi sul lettino, auscultare il battito cardiaco o misurare la pressione. Fino al momento in cui sto scrivendo so per certo che, proteggendosi cosƬ, ĆØ riuscito ad arginare il rischio della domanda piĆ¹ ovvia che qualunque paziente mediamente ficcanaso potrebbe rivolgergli. Ma perchĆ© non se li tiene a casa sua? O il dottore vive in un appartamento sottodimensionato, ma, con tutto quello che guadagnano i medici, a chi vuole darla a bere. Oppure sua moglie, o la sua compagna, mi ĆØ oscura la qualifica del suo stato civile, non ne vuole sapere di accumulatori seriali per la casa ed ĆØ per questo che ha scelto un mestiere da esercitare altrove e in grado di fornirgli l’alibi di fruire di una sorta di pied-Ć -terre dove coniugare lavoro e hobbistica senza dare adito a battibecchi o cause di divorzio. Ogni anno, verso Natale, pubblica la classifica dei suoi assistiti preferiti incrociando dati derivanti da patologie, livello di ipocondria, frequenza di richiesta appuntamenti (tra parentesi, ora ci ĆØ stata fornita un’app efficientissima per le prenotazioni che ci fa davvero sentire ipertesi del terzo millennio) e credo anche riservatezza nelle domande sulla sua vita privata e su quel cognome esotico che porta e che richiama inevitabilmente la questione palestinese. Un modo di fare statistica inutile la sua, considerato che da sempre la classifica ĆØ dominata dal signor Gerardo, ottantenne in pensione da quando ne aveva quarantanove, che gira il mondo e scrive racconti sui posti che visita. Iraq, Colombia, Nuova Zelanda, Namibia, Armenia e via dicendo. Invidio moltissimo il signor Gerardo non tanto per il premio che gli spetta – un esame di laboratorio comprensivo dell’Antigene Prostatico Specifico (PSA), che costa un botto – quanto perchĆ©, a differenza sua, io mi muovo pochissimo. Casa, tangenziale, scuola, Esselunga, teatro, cinema e poco piĆ¹. Non frequento piĆ¹ nemmeno lo studio del nostro dottore, da quando c’ĆØ la app, e scrivo solo di queste cose qui.

boxe

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Leonardo non ci ha pensato due volte e ha accettato la sfida. ƈ stata la preside a farsi avanti: “prova a lanciarlo”, gli ha detto. E lui, il banco, glielo ha tirato addosso. Per fortuna Leonardo fa la terza, il banco era quello che pesava piĆ¹ dei due, e con il lancio non ĆØ andato molto lontano.

Leonardo ĆØ fatto cosƬ. Ha un interruttore, da qualche parte. Quando lo schiaccia si accende qualcosa e lui deve scappare. Da quando abbiamo scoperto questa funzionalitĆ  il cancello esterno della scuola dev’essere sempre chiuso – non che prima non lo fosse ma meglio controllare – perchĆ© con il portone con le maniglie antipanico c’ĆØ poco da fare. Leonardo preme l’interruttore, si accende e comincia a correre. Poi abbiamo scoperto anche un selettore, come quelli che hanno i giradischi per passare da 33 a 45 giri. La rabbia a trentatrĆ© giri, quella che si usa di piĆ¹, lo fa scappare fuori dalla scuola. Quella a 45, che si usa meno frequentemente ai tempi della musica in streaming, gli fa dare i pugni alla cieca o scagliare la prima cosa che gli passa per le mani contro gli adulti che ha intorno. Succede piĆ¹ di rado ma non risparmia nemmeno l’autoritĆ , come avete visto.

Non ĆØ un mio alunno – meno male – ma qualche giorno fa mi sono imbattuto per puro caso in una delle sue fughe. I miei bambini erano in mensa e sono salito in classe perchĆ© Jasmin aveva dimenticato le pastiglie effervescenti da prendere dopo mangiato. Mi ĆØ praticamente volato addosso scendendo lungo una rampa tra il primo e il secondo piano. Dopo l’impatto ha tentato un maldestro dietrofront ma quando ha visto arrivare di corsa la collega che lo stava inseguendo ha tentato di scavalcare il corrimano per buttarsi di sotto. Non c’ĆØ spazio tra le rampe quindi avrebbe fatto un salto di poco piĆ¹ di un metro. Ma il gesto mi ha fatto molta impressione, in un moccioso di otto anni. Lo abbiamo placcato ma ĆØ riuscito ad allentare la presa della collega che lo teneva per le spalle e ha ripresa la sua fuga, questa volta verso il piano di sopra.

Ci siamo precipitati dietro a Leonardo fino in biblioteca dove, oramai braccato e senza via di fuga proprio come un animale selvaggio, ha spalancato una finestra e ha compiuto persino il gesto di arrampicarsi per farci capire che, con i gesti estremi, non sarebbe sceso a compromessi, anche se prima avrebbe dovuto scardinare la tapparella a lamelle orientabili. Messo in sicurezza l’ambiente, Leonardo ha scelto di mettere tutto a soqquadro, facendo volare in aria libri e sedie e qualunque cosa si trovasse sui tavoli. Mi ha addirittura gettato addosso uno dei pouf colorati. Con un riflesso in cui non mi riconosco assolutamente, ho afferrato il pouf al volo. Mi sono avvicinato e, tenendolo tra me e lui, l’ho invitato a prenderlo a pugni. Dopo una raffica di colpi di boxe Leonardo ha esaurito la carica e, mosso da un inconsapevole impeto di autoconservazione, ha premuto il suo pulsante in posizione off. Gli occhiali gli si sono appannati ed ĆØ scoppiato in lacrime.

La mia collega si ĆØ fatta avanti con una proposta geniale. “PerchĆ© non scriviamo una mail alla preside per chiederle se ci compra un punching ball?”. Leonardo ha acconsentito, ma non perchĆ© non avesse nessun’altra risorsa da spendere per trovare una soluzione alternativa. Ha capito.

Ci siamo cosƬ seduti uno a fianco all’altro, la mia collega, Leonardo ed io, in una delle postazioni del laboratorio di informatica, adiacente alla biblioteca. Ho fatto log in con il mio account Google Workspace, ho cliccato su nuova mail, ho inserito l’indirizzo della dirigente, ed ĆØ andata cosƬ:

buon giorno preside,
sono leonardo di terza b
ogni tanto sono arrabiato
e vorei un pungiball
grazi presid arivederci

Ho indicato a Leonardo il tasto per l’invio ma sapeva giĆ  fare tutto. Abbiamo spento il pc e, senza che gli dicessimo nulla, si ĆØ allontanato lentamente dalla postazione, ha raggiunto la biblioteca, lƬ a fianco, e, partendo proprio dal pouf, ha cominciato a rimettere tutto in ordine.

Colapesce Dimartino – Lux Eterna Beach

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La copertina non lascia dubbi. Colapesce e Dimartino che si allontanano dallā€™installazione della meridiana del Parco Astronomico GAL Hassin di Isnello, nellā€™entroterra di una di quelle localitĆ  rivierasche della Sicilia (CefalĆ¹) dove gli inglesi in vacanza pisciano nel mare senza tante remore. Nella foto si vedono i due prendere strade diverse (considera che tutto puĆ² finire, cosƬ ci hanno ammonito sornioni per tutta lā€™estate), ma per andare dove, viene da chiedersi. A Singapore? Ce lā€™hanno insegnato loro che paese che vai, stronzi che trovi. Non si puĆ² fare il conto, sono davvero a milioni.

Ecco. Potremmo liquidare il sofisti-pop dā€™autore di Colapesce e Dimartino (a tratti rock con evidenti ammiccamenti alla piĆ¹ moderna psichedelia) con qualche supposizione complottista, qualche citazione sottile o qualche distratto elogio sulla sua sorprendente orecchiabilitĆ . Un tratto con cui indubbiamente occorre fare i conti se consideriamo lā€™incommensurabilitĆ  degli ascolti dei loro successi sanremesi sulle piattaforme di streaming, i dischi di oro e platino, i premi della critica, per non parlare dellā€™onnipresenza radiofonica del loro recente tormentone estivo.

Potremmo farlo, ma ci perderemmo unā€™occasione straordinaria per comprendere a fondo e celebrare, di conseguenza, uno dei progetti piĆ¹ sagaci e dissacranti del nuovo scenario cantautorale italiano. Lā€™unico (gli tiene botta solo Calcutta) in grado di sobbarcarsi con autorevolezza lā€™onere di far fruttare la rendita (con tanto di interessi) dellā€™ereditĆ  culturale degli ingombranti padri fondatori del genere.

Uno stile rielaborato, al contempo, secondo il cinismo senza speranza e la schiavitĆ¹ della riduzione di qualunque cosa a meme, vero must dei giovani adulti di questo incontrovertibile decorso storico tutto social. Un modello compositivo riconoscibilissimo grazie a certi timbri ormai marchi di fabbrica dellā€™indie radicale e colto. Unā€™estetica musicale che va per la maggiore, di cui si odono gli echi provenire dalle camerette delle generazioni protagoniste del piĆ¹ grande ritiro sociale della storia dellā€™umanitĆ , dagli appartamenti full-Ikea dagli affitti alle stelle, domicili mantenuti dal lavoro dei genitori di universitari fuori sede e di stagisti freschi di migrazione dal sud sfruttati con il pretesto di ricoprire i ruoli dai nomi piĆ¹ altisonanti negli open space delle filiali locali delle multinazionali dellā€™industria del virtuale.

Un ascolto attento dellā€™opera frutto del sodalizio tra i due cantautori siciliani (uno di Siracusa, lā€™altro di Palermo, due mondi a sĆ©) ci esporrebbe alla profonditĆ  della loro poetica, al detto e al non detto dei loro versi, alla familiaritĆ  che scopriremmo di avere con le tematiche e le storie raccontate nelle loro canzoni. Per questo ĆØ un vero peccato che, a quanto sembra, la partnership tra Colapesce e Dimartino sembra essere giunta ai titoli di coda, la chiusura di una parentesi fruttuosa nelle rispettive carriere ai margini dellā€™underground nostrano, in quel non-luogo dove si raccolgono consensi da una nicchia squattrinata, schiava degli apericena e mutevole alla sovraesposizione di proposte, un mercato in cui lā€™offerta supera di gran lunga la domanda.

Dā€™altronde Colapesce e Dimartino sono lā€™esempio piĆ¹ riuscito di come si favoriscono le economie di scala. Una joint venture, piĆ¹ che unā€™acquisizione. Tra i due ĆØ difficile individuare quale fosse il meno popolare prima del febbraio 2021. In un festival a porte chiuse, uno dei piĆ¹ eclatanti ossimori dellā€™industria dello spettacolo televisivo, forti di un carisma tutto meridionale, facendo leva sulla formula della coppia di personalitĆ  singole a dividersi la scena senza sottrarsela reciprocamente, Colapesce e Dimartino sono riusciti a elevare a potenza due talenti e a sprigionare in onda (e in Eurovisione) un messaggio che ha pienamente colto nel segno. Un progetto curato meticolosamente fino al dettaglio, dal distorsore compattissimo (e trendissimo) dei soli di chitarra, poche note ma sempre quelle giuste, alle parole perfettamente cesellate nei solchi delle canzoni, fino alla dimensione dei colletti delle casacche anni Settanta.

Ora, dopo aver sbancato due volte Sanremo e aver prodotto e interpretato un film (uno spasso, fidatevi), hanno dato alle stampe una vera e propria raccolta di hit. PerchĆ© mentre ā€œI mortaliā€ conservava quella componente di repertorio secondario, inevitabile in un disco come quello, data la presenza di pezzi da novanta del calibro di ā€œMusica leggerissimaā€, ā€œLuna arabaā€, ā€œCicaleā€ e “Majorana”, in Lux Eterna Beach siamo al cospetto di un upgrade. Dalla prima allā€™ultima traccia i due non scendono di una tacca in perfezione, un primato in cui si puĆ² leggere tra le righe il senso di mollare il colpo proprio adesso, sulla scia dei fasti di un disco cosƬ difficile da eguagliare, figuriamoci da superare.

Un tripudio di intelligenza, a tratti estremizzata in adorabile spocchia, in grado di soddisfare tanto i fan di Propaganda Live quanto il popolo di ignavi rapiti dalle rime catchy delle assegnazioni di XFactor. Differenti piani di lettura riconducibili al merito dellā€™abilitĆ  compositiva e allā€™intuito commerciale di un connubio artistico mai visto, da queste parti.

In quello che, statene certi, verrĆ  incensato ai primi posti delle classifiche dei dischi italiani piĆ¹ belli dellā€™anno, ci sono intanto unā€™intro e unā€™outro da manuale. La prima cantata e dal titolo che, come la luce che sfiora di taglio la spiaggia, mette tutti d’accordo. La seconda, la title-track, uno struggente strumentale post-rock impreziosito da un tema di piano scarno e minimal, la perfetta colonna sonora per lenire il dolore dellā€™addio a questa esperienza artistica.

Ci sono ovviamente i singoli da primato che hanno preceduto il disco, ā€œSplashā€, ā€œCose da pazziā€ e ā€œConsideraā€, e quelli che probabilmente verranno, pienamente allā€™altezza del successo dei precedenti, e mi riferisco a ā€œNeanche con Dioā€ e ā€œ30.000 euroā€. Cā€™ĆØ anche il colpo di genio, ā€œRagazzo di destraā€, la bestia nera (anzi, rossa) degli opinion leader piĆ¹ permalosi tra le squadrette dei fratellisti dā€™Italia e dei fasciomeloniani, feriti nellā€™orgoglio dallā€™invito a mangiarsi il gelato con qualcuno, in un giorno di festa.

Non potrebbero mancare quindi le immancabili citazioni anni ottanta, a partire dal Battiato de ā€œLa voce del padroneā€ protagonista in ā€œSesso e architetturaā€ o il soft-pop dei Tears For Fears di ā€œEverybody Wants to Rule the Worldā€ che riecheggia, almeno nel ritmo, in ā€œForse domaniā€, brano che annovera la riuscita partecipazione di Joan Thiele. Cā€™ĆØ persino il featuring impossibile di Ivan Graziani (Francesca Michielin ne sa qualcosa) nella traccia ā€œI marinaiā€, presente con uno stralcio di inedito recuperato dai nastri del rocker abruzzese che, con la sua stessa voce, ci riporta a quel modo di fare i lenti nel torbido periodo del pop di quegli anni, con una melodia che invita allā€™armonizzazione del tema di ā€œSoleadoā€ dei Daniel Sentacruz Ensemble.

Anche se apparentemente riconducibile alle canzonette del momento, la musica di Colapesce e Dimartino si conferma un riuscito esperimento di trasposizione in chiave metafisica dellā€™ordinarietĆ , il frutto di una naturale intelligenza artificiale in grado di raccontare, con poesia e ironia, la contemporaneitĆ . Ed ĆØ in questo aspetto, piĆ¹ di ogni altro, che sublima la sicilianitĆ  piĆ¹ psichedelica delle tracce che compongono Lux Eterna Beach, lā€™opera conclusiva di unā€™esperienza che difficilmente dimenticheremo. Meno male, stanno giĆ  cantando, coperti dalla musica in crescendo, Colapesce e Dimartino, con quel vezzo di indietreggiare dal microfono per restare protetti dagli strappi di chitarra, questa volta allontanandosi per sempre e senza bis. Meno male, stanno giĆ  cantando, non si vede la fine.

ma da sempre tu sei quella che paga di piĆ¹

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La cultura della prevaricazione violenta ĆØ propria del maschio, questo possiamo sostenerlo senza dati alla mano ma in natura, a parte qualche eccezione, mi pare che da sempre funzioni cosƬ. Serve per la caccia, per allontanare gli altri prevaricatori violenti che si vogliono impossessare delle prede cacciate e cose di questo tipo. Il maschio umano, mettendo l’intelligenza al servizio della prevaricazione violenta, ha cominciato poi a lavorare sulle tecniche di prevaricazione violenta, allenando la propria forza fisica, mettendo l’astuzia al servizio della prevaricazione violenta e inventando strategie e armi di ogni tipo per ottenere i risultati prefissati in modo piĆ¹ efficace.

La cultura della prevaricazione maschile umana violenta regola il mondo dai tempi delle ossa lanciate in aria di 2001 Odissea nelle spazio. Poi sono successe una serie di cose importanti, alcune delle quali hanno messo a serio rischio la permanenza della specie umana su questo pianeta, fino ad oggi, un momento in cui in sette miliardi e mezzo ci contendiamo risorse e altre cose per tirare avanti. Sarebbe meglio se, anzichĆ© fare le gare per vincerle, come le scimmie evolute di Kubrik, scendessimo a compromessi e ce le dividessimo, ma la cosa piĆ¹ difficile ĆØ sempre la stessa, ovvero intercettare l’istinto con la ragione. Prima di dare una testata a qualcuno per una pozza d’acqua, o anche perchĆ© un prevaricatore maschio umano violento vuole fare altrettanto con la pozza d’acqua in cui ti abbeveri tu e la tua famiglia, quindi diciamo per difesa legittima, tutti i prodigi evolutivi che ci hanno fatto arrivare a fatica sino a qui, con Internet, i razzi che vanno sulla luna, la neurochirurgia, i pannelli solari, Beethoven e Shakespeare, tutte queste migliorie in teoria avrebbero dovuto potenziare quella prontezza illuminata che ci ferma prima di prendere a testate un nostro simile, o prima di commettere qualcosa che ci renderebbe meritevoli di ricevere una testata da un nostro simile.

E trovo che il fatto che malgrado i prodigi evolutivi di cui sopra continuiamo a impegnarci sulle tecniche di prevaricazione violenta, continuando imperterriti a migliorare la nostra forza fisica e a inventare le strategie e le armi piĆ¹ sofisticate per ottenere i risultati prefissati in modo piĆ¹ efficace, favorisca il rischio che il conflitto continui a essere preferito al dialogo perchĆ© piĆ¹ sbrigativo. Due ceffoni, poche parole e la cosa finisce lƬ. Il confronto ĆØ impegnativo e richiede un’intelligenza che facciamo finta di non avere, malgrado ancora i prodigi evolutivi di cui sopra.

E se ancora i maschi umani ricorrono alla cultura della prevaricazione violenta per occupare territori e per difendere e rivendicare i territori occupati, il tutto con quel popĆ² di informazione e conoscenza della storia e le esperienze che coprono un periodo che va dalle ossa lanciate in aria di 2001 Odissea nello spazio ad oggi, figuriamoci con cose individuali che riguardano la sfera dei presunti possessi personali. Il presunto proprio paese, la presunta propria cittĆ , il presunto proprio quartiere, la presunta propria casa, la presunta propria donna.

puntini puntini

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Ho sostituito le lenti che uso per leggere e per stare al computer la scorsa primavera e, per il rotto della cuffia, ho evitato l’upgrade alle progressive. Da lontano vedo ancora bene ma, da vicino, ĆØ sempre piĆ¹ un disastro. Il fatto ĆØ che gli occhiali sul naso mi danno fastidio e cerco di rimandare il piĆ¹ possibile il momento in cui dovrĆ² portarli costantemente, anzichĆ© indossarli solo per la presbiopia. Ma negli ultimi mesi la situazione ĆØ peggiorata e temo di non avere scampo. La mattina, appena sveglio, faccio una fatica enorme a mettere a fuoco le cose in prossimitĆ  e sono esposto a rischi grossolani. Per esempio, stamane ho ricevuto sullo smartphone il messaggio dall’app della banca dell’accredito dell’assegno famigliare di 13.00 euro ma, non vedendo il puntino tra unitĆ  e decimali, ho letto 1.300 e, messi gli occhiali, ci sono rimasto molto male. E pensare che la questione della separazione tra le classi – la societĆ  contemporanea non c’entra, mi riferisco al valore posizionale delle cifre nei numeri, quindi miliardi, milioni, migliaia e unitĆ  semplici – ĆØ all’ordine del giorno. La mia collega veterana e opinion leader in matematica sostiene di aver vissuto in prima persona il dibattito, tempo fa, sulla necessitĆ  di individuare un’alternativa ai puntini, considerando che le calcolatrici ne utilizzano il simbolo al posto della virgola. Lei ĆØ una sostenitrice radicale e accanita dello spazio tra le classi. A me non piace in prima battuta perchĆ© non sono classista ma, soprattutto, perchĆ© poi crea confusione ai bambini quando si tratta di risolvere le operazioni in colonna. Il testo che ho adottato, poi, sostiene che, oltre allo spazietto, si puĆ² usare il puntino sotto ma anche quello sopra. Non solo: le calcolatrici moderne, per non parlare delle app, la virgola la sanno scrivere eccome. Mi scoccia, perĆ², avviare discussioni inutili con la mia collega decana, che poi ha solo un paio di anni piĆ¹ di me ma insegna da quando ne aveva diciotto mentre io, a diciotto, mi conciavo come Robert Smith. Faccio finta di nulla, annuisco nelle discussioni quando insiste sul fatto che il mondo della pedagogia si era espresso senza lasciare alcun dubbio sul problema dello spazio rispetto al puntino, ma poi, alla LIM, quando lavoriamo in classe sulle operazioni con i numeri grandissimi, dico ai bambini che possono fare quello che vogliono. Puntino sopra, puntino sotto, spazietto, lascio scegliere cosa preferiscono, basta che facciano attenzione. Anche perchĆ©, a fare attenzione, il primo devo essere io. La scrittura alla LIM ĆØ l’unica attivitĆ  ravvicinata in cui ĆØ meglio che mi tolga gli occhiali. SarĆ  la penna, sarĆ  la luce, sarĆ  la vecchiaia, fatto sta che anche per le operazioni piĆ¹ sempliciĀ  – contare otto quadretti, fare i puntini tra le classi dei numeri – devo allontanarmi e controllare due volte. ChissĆ  se con le lenti progressive cambierebbe qualcosa. E comunque, quando leggo “lenti progressive”, la prima cosa che mi viene in mente ĆØ “After The Ordeal”.

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La tipa denutrita della pubblicitĆ  Borghetti che gioca a calcio balilla dice una battuta, anzi una sola parola, che poi ĆØ il brand, e la pronuncia malissimo. E se hanno scelto quel take, chissĆ  quanti ne hanno scartati tra quelli registrati prima e, soprattutto, com’erano. Ci ho pensato all’uscita dal cinema dopo aver assistito a “Anatomia di una caduta”, uno dei migliori film di tutti i tempi per numerosi aspetti, a partire dalla bravura degli interpreti. Persino il cane recita in modo straordinario – non voglio spoilerare nulla ma la scena finale ĆØ straordinaria – ed ĆØ molto piĆ¹ convincente di qualunque attore italiano, anche i migliori, quelli del cinema, quelli della tv, per non parlare di quelli delle pubblicitĆ . Per recitare cosƬ male nei consigli sugli acquisti, anche se gli unici che non cambiano canale quando trasmettono gli spot siamo solo noi studiosi di comunicazione, ci vuole davvero del talento. E quello che colpisce di lei non ĆØ solo la dizione, ma il fatto che ha il girovita largo quanto il mio polpaccio. La grassofobia, in Italia, ĆØ una delle peggiori attitudini che poi, con tutto quello che mangiamo e beviamo, fa sorridere. Anzi, il corto circuito ĆØ frustrante. Non riusciamo a resistere al cospetto di una porzione romanesca di cacio e pepe e poi trascorriamo giorni dilaniati dal senso di colpa, fino alla carbonara del fine settimana successivo. La dieta mediterranea ĆØ una disdetta. Ho un’alunna di origini senegalesi, ampiamente oltre il suo peso forma, che non ha mai usufruito della mensa scolastica prima di quest’anno. Riconducevamo la scelta dei genitori a motivi religiosi – la carne di maiale eccetera eccetera – ma ad assistere alla voracitĆ  con cui chiede i bis di tutto abbiamo compreso che, tenerla a casa a pranzo, era una forma di controllo e tutela della sua salute. Se sostenete che a scuola non si mangi bene siete in malafede. Al limite, posso darvi ragione solo per il distributore automatico dedicato a insegnanti e ATA. Costa tutto molto poco, ma la qualitĆ  ĆØ vergognosa. Dicono che in certi licei privati del centro ci siano addirittura i cesti di frutta e le macchinette per prepararsi centrifughe e spremute come nelle filiali delle multinazionali che frequentavo prima di immolarmi alla scuola. Da noi ĆØ sotto soglia anche il caffĆØ, una brodaglia seconda solo alla bevanda al sapore di the (o di te, come biasciava Young Signorino) ma dopo il pasto della mensa ĆØ un appuntamento a cui non so resistere. Il distributore si trova al secondo piano, uno sopra la mia classe, e prima di scendere in giardino ĆØ un tappa obbligata. Alcuni dei miei alunni si mettono davanti ai dolciumi come quelle storie di una volta in cui i bambini poveri, durante i giorni di festa, trascorrevano il tempo sospirando di fronte alle vetrine delle pasticcerie. Sanno che, oltre al caffĆØ, talvolta mi concedo anche il dessert. Quando succede, insistono perchĆ© sperano che il Kinder Bueno o gli Oreo o il Kit Kat al caramello salato, dopo la selezione, restino incastrati negli ingranaggi. Quando succede, infatti, scuoto con forza il distributore per far cadere lo snack e, siccome il costo del prodotto non viene accreditato nella chiavetta in caso di mancata erogazione, ne prendo un secondo. Avrete capito che, a botte di junk food, la larghezza dei miei fianchi ĆØ di almeno tre volte la tipa del Borghetti, ma chi se ne importa, ho quasi sessant’anni. Metto i bambini in fila, soffio sul caffĆØ, scarto la prima delle due merendine con cui concluderĆ² il pranzo, e come se vivessi in una pubblicitĆ  televisiva, quelle con i maestri fighi e magri, mi avvio in giardino con il codazzo di discepoli, orgoglioso del pessimo esempio mostrato.

Vagabon – Sorry I Havenā€™t Called

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In “Sorry I Havenā€™t Called” ci si prende e ci si lascia e poi si balla tutta la notte per dimenticare, lungo storie di attrazione e di addii raccontate in forme diverse ma suonate con uno stile unico. Nel disco della maturitĆ , Vagabon fa brillare finalmente tutta la sua personalitĆ  artistica.

Spero che qualcuno escogiti al piĆ¹ presto un nome per lo stile che sovrappone il moderno r&b allā€™indie pop di matrice cantautorale. DovrĆ  essere un concept talmente evocativo da ricondurre ai principi costitutivi (fortemente antitetici) di questa entitĆ  ibrida. Una sfida non semplice, se consideriamo il calore dellā€™elettronica di base e delle radici black da un lato contro il rigore delle strutture guitar-based dallā€™altro. Io me ne guardo bene dal provarci, mi ĆØ venuto mal di testa solo a sforzarmi di descriverlo, ma ci tenevo a introdurvi alla musica di Laetitia Tamko, in arte Vagabon che, per darvi delle coordinate, si colloca a metĆ  tra Arlo Parks e Sudan Archives.

Almeno cosƬ lā€™avevamo lasciata quattro anni fa allā€™uscita del suo ellepi omonimo, un secondo album complesso e introspettivo, a tratti cupo, che aveva a sua volta marcato radicalmente le distanze dallā€™acerbo indie-rock del precedente poco-piĆ¹-di-un-EP di esordio. Tra Infinite Worlds e il s/t ci sono almeno due tacche di distorsore di differenza.

Sorry I Havenā€™t Called testimonia unā€™ulteriore crescita (proporzionale alla stessa che ha interessato i capelli di Vagabon) in cui lā€™estro compositivo dellā€™artista non fa compromessi in complessitĆ  ma, forte di una produzione al passo con i tempi (cā€™ĆØ di mezzo Rostam Batmangli, giĆ  dietro ai suoni di Vampire Weekend, Haim e Clairo), trasmette un approccio piĆ¹ sereno alla musica e una maggiore e riuscita leggerezza artistica.

Laetitia Tamko, in dodici tracce, spazia con disinvoltura lungo tutta quella che ĆØ la sua poliedrica personalitĆ  dimostrando di aver conseguito una maturitĆ  stilistica e di essere in grado di suonare e cantare qualunque cosa. Un album che nasce con lā€™urgenza di dare forma a un evento drammatico e che riesce, brano dopo brano, a neutralizzare il dolore e a sublimare in energia in grado di superare, o per lo meno arginare, le difficoltĆ .

Nella produzione di Vagabon non ci sono mai state fondamenta cosƬ elettroniche come in Sorry I Havenā€™t Called, in tutte le sue varietĆ . Dai richiami trap di ā€œCan I Talk To My Shitā€ alla sofisticata techno di ā€œCarpenterā€ e ā€œYou Know Howā€, sino alla drumā€™nā€™bass di ā€œDo Your Worstā€, cose che succedono se si trascura la chitarra per comporre principalmente al pc, strumento sicuramente piĆ¹ versatile. Unā€™eternitĆ  dal precedente lavoro, un periodo durante il quale la cantante newyorchese ha vissuto confinata in un paesino della Germania settentrionale, un ritiro volontario imposto dalla necessitĆ  di elaborare un lutto. Le frequentazioni di club mitteleuropei, votati principalmente allā€™oblio da cassa in quattro, hanno avuto una solida influenza su alcune soluzioni dance che ĆØ poi il ritmo della redenzione per eccellenza e che suona come la conferma che Vagabon ha fatto pace con il mondo.

Non a caso, il prodotto di questa ricerca di sĆ© trasmette il desiderio di parlare in modo piĆ¹ diretto e di presentarsi con maggiore disincanto, un tratto che si percepisce perfettamente dalle liriche della traccia introduttiva e dal timbro della voce, qui meno sofferto, graffiante e posizionato sulle note acute rispetto agli altri lavori. ā€œLexiconā€, addirittura, ĆØ un invito al ballo – a partire dal suo ritmo funk – pensato come deterrente ai cattivi pensieri che ci sorprendono vulnerabili dopo le tempeste sentimentali.

Ci sono infine i due estremi della dicotomia di questo genere che non sappiamo ancora definire ma, a proposito del quale, un giorno ricondurremo Vagabon nel novero delle madri fondatrici. Brani come ā€œMade Out With Your Best Friendā€, ā€œNothing To Loseā€ e ā€œPassing Me Byā€, smaccatamente neo-soul, contro “Anti-Fuck”, la traccia conclusiva. Qui Vagabon ritrova le tensioni indie rock degli albori: voce su chitarra (una pennata inconfondibile) a dare forza alla ricerca delle ragioni di una relazione di coppia e, allo stesso tempo, dichiarando la volontĆ  di liberarsi con coraggio dagli stereotipi dellā€™immaginario r&b, a tutto a vantaggio delle contaminazioni che scaturiscono da unā€™indole artistica multiforme.

Sorry I Havenā€™t Called ĆØ il disco perfetto se ve la sentite di fare un passo indietro rispetto agli eccessi di certa musica black che cā€™ĆØ in giro, se amate la sobrietĆ  e le vie di mezzo, se non siete a vostro agio con lā€™estetica e le tematiche del pop contemporaneo, se ne avete le orecchie piene dei cosplayer della trasgressione, dei toni forti, della sessualizzazione spinta, dei vestiti striminziti e dei versi piĆ¹ che espliciti. Dal primo allā€™ultimo brano, in una tracklist popolata per metĆ  da potenziali singoli, il nuovo album di Vagabon ĆØ un efficace percorso di riabilitazione verso il buon gusto.