bad – day #32

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Se non fosse che siamo tutti isterici per tutto questo stare in casa mi piacerebbe fare la paternale a quelli che fanno un uso dozzinale di band già di per sé strafamose. Il mio vicino di sotto dice di essere un fan dei Pink Floyd e mette spessissimo i Pink Floyd. I Pink Floyd, inutile che ve lo ricordi, li conoscono anche i sassi e, se devo dirvi la verità, se dovessi scegliere un solo disco che rappresenta la musica di tutti i tempi e dell’umanità intera probabilmente indicherei “The Dark Side Of The Moon”. I Pink Floyd, però, bisogna ascoltarli per intero, perché spessissimo le loro tracce confluiscono nelle successive e, infatti, i compact disc con album come “The Wall” hanno dimostrato tutto il loro limite. Non si possono skippare le tracce di un concept album, credo che sia anticostituzionale e si rischiano non so quanti anni di carcere. Il mio vicino di sotto, che dice di essere un fan dei Pink Floyd, mette sempre “Wish You Were Here” in una versione tratta da qualche raccolta perché priva della parte della trasmissione radio da cui parte il pezzo nell’album, seguita da “Another Brick in The Wall”. Oramai è chiaro: “Wish You Were Here” e “Another Brick in The Wall” sono i suoi due pezzi preferiti, però qualcuno dovrebbe fargli notare che fanno parte di due concept completamente diversi e che, ascoltati in sequenza, non significano nulla. L’idea che mi sono fatto è che il mio vicino di sotto non sia un fan dei Pink Floyd, piuttosto un sempliciotto a cui piacciono le canzoni più famose di un gruppo strafamoso. Mi piacerebbe vedere la sua reazione di fronte a “Meddle” o a “Ummagumma”. Costringerlo a un ascolto forzato di “Us and Them”, che forse lo indicherei se dovessi scegliere un solo brano da un solo disco a rappresentare la musica di tutti i tempi e dell’umanità intera, e compiacermi nell’osservare la sua espressione di voglia di tornare alle sue canzoni strafamose. Non so se mi state seguendo.

Una cosa simile mi capita con gli U2. Prima di diventare il carrozzone addetto al trasporto di tutta la cultura mainstream a cavallo tra i due secoli, gli U2 non erano affatto male. Pensate alla sequenza di “Boy” – “October” – “War” – “The Unforgettable Fire” e vi sfido a trovare quattro dischi di esordio, uno dopo l’altro, così. E un po’ mi spiace se poi alla fine c’è sempre qualche vicino di sotto che mette “With or Without You” o “One”, ma questo vorrà dire che ci sarà anche un vicino di sopra che risponderà con canzoni come “The Unforgettable Fire” o “Bad”.

Questa mattina ho preso la macchina – l’unica delle due rimasta funzionante, nell’altra mi si è scaricata la batteria per l’inutilizzo – e ho attraversato l’hinterland nord-ovest di Milano per recarmi a scuola. Abbiamo deciso di fornire i tablet che abbiamo in dotazione alle famiglie che non hanno strumenti per fruire della didattica a distanza, così ho iniziato a configurarli per consegnarli pronti. Ho guidato in una specie di film distopico in cui in giro non si vedevano che anziani con la mascherina. Ho acceso la radio ed è partita proprio “Bad” degli U2. La giornata prometteva grandi slanci ed emozioni forti ma il tempo non era quello più adatto. “Bad” degli U2 si è dimostrata però la colonna sonora perfetta per la scena, il collante tra il cielo e la terra, il motore e la strada, il prima e il dopo.

intermezzo – day #31

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Il prof di storia e filosofia di mia figlia ha trovato un sistema per rendere le sue lezioni a distanza più efficaci. Quando la situazione si fa tesa e gli studenti, oltre all’essere davanti a un dispositivo, iniziano a patire anche la complessità delle spiegazioni, fa un intermezzo e mette un po’ di musica. A mia figlia piace molto questa cosa e si precipita da me per dirmi la selezione della giornata. “Papà, ha messo i Wu-Tang Clan!”. “Papà, ha messo i Rage Against The Machine”. Oppure mi chiama “Papà, corri! Chi sono questi?” e così devo dare fondo alla mia cultura reggae, ferratissima per la roba roots/Studio One e sul reggae inglese fine 70/primi 80, lacunosa dagli anni 90 in poi. Nella stessa classe ma agli antipodi per etica professionale, la prof di chimica ha aspettato quasi un mese prima di decidersi ad accendere il computer – sempre che sia capace a farlo – e a mandare qualche indicazione sul programma da seguire. Io l’ho conosciuta perché da settembre mia figlia non ha preso ancora una sufficienza. Mi ha incontrato all’ingresso della scuola durante il suo turno di sorveglianza nell’intervallo, l’unico giorno della settimana in cui il mio lavoro mi permette di gestire i colloqui con i docenti. Si è presentata senza nemmeno portare qualche materiale a supporto e dimostrarmi quello che so, e cioè che – proprio come suo padre – mia figlia nelle materie scientifiche proprio non è capace. Ma, credetemi, non biasimo la sua insegnante. Avrà sessant’anni, chissà da quanto lavora nella scuola, comprensibile che abbia tirato i remi in barca. Posso immaginarla, così, in una situazione di emergenza didattica e, a quanto ho capito, nella totale inadeguatezza con le nuove tecnologie. Nell’insieme, comunque, sta andando meglio del previsto, e parlo per l’esperienza di didattica a distanza di mia figlia, una sedicenne nel fiore della vita costretta 24×7 in casa con i genitori senza vedere nessuno. Oltre al prof dj ci sono quelli che suggeriscono film, libri, approfondimenti su Internet, e vedo in lei un diverso approccio alla scuola. Zero stress dovuto all’assenza di verifiche, più slancio nello studio, ora meno pressante e contingentato da tempi serrati, possibilità di riflettere più tempo sulle cose, anziché dover imparare tutto subito per poi dimenticarsene la settimana dopo con l’argomento successivo. Un sistema che fa acqua da tutte le parti. Spero che, tra le lezioni che impareremo dall’esperienza di reclusione da pandemia, ci sia anche questo. Una scuola più orientata al piacere della scoperta e dell’apprendimento, ai modi e al dialogo, alla crescita delle menti anziché alla loro coltivazione intensiva con nozioni usa e getta. E, perché no, a qualche intermezzo musicale tra una spiegazione e l’altra.

coda – day #30

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Ho notato la coda il primo weekend di pandemia. Era carnevale e davanti all’Esselunga c’era una fila di gente in maschera – quella anticontagio – che arrivava sino al Leroy Merlin, due megastore dopo. Ho ingranato la retro e sono scappato da quella scena da film distopico per non esserne comparsa, men che meno protagonista. Per fortuna la psicosi da mancanza di generi di prima necessità si è stabilizzata su valori accettabili, per un popolo di melodrammatici come gli italiani non si può prendere di più. Ho fatto la spesa ieri l’altro ma mi sono presentato all’ingresso della piccola Coop del comune in cui vivo – per non rischiare sanzioni da tentativo di fuga – con quaranta minuti di anticipo, una precauzione che mi ha permesso di avere solo sette persone davanti. Non sono mancati i battibecchi per il rispetto dell’ordine di entrata, d’altronde il nervosismo da arresti domiciliari lo si deve sfogare in qualche modo. Per questo non invidio chi se la passa male in casa, con il partner o con i figli. Da noi vige un sereno ménage con qualche battibecco standard e i classici conflitti generazionali tra adulti e adolescenti, ma poca roba. La cassiera si è complimentata per la mia spesa. Poco prima aveva ripreso la signora davanti a me per aver acquistato solo pane e latte. Ne ho approfittato per ostentare il mio carrello stracolmo, anche se mi spiace passare per uno di quelli che va nel panico da apocalisse. Solo che cerco di uscire il meno possibile e fare una scorta settimanale mi sembra il minimo.

Ho trovato la coda anche all’ufficio postale, un paio di giorni fa a metà mattinata. Ho ripetuto così con successo l’applicazione della strategia della spesa. Alle otto meno dieci ero già pronto all’ingresso, con una manciata di utenti davanti, e sono riuscito a ritirare un acquisto fatto su Amazon in tempi non sospetti. Fila anche per la farmacia, il panettiere e il fruttivendolo: fortunatamente non avevo bisogno di nulla ma sono stato colpito dagli assembramenti mentre attraversavo la via principale del paese recandomi in bici allo studio del mio dottore per la ricetta delle pillole per l’ipertensione.

Il punto è che non siamo abituati per nulla alla coda e a dover aspettare per essere serviti. Anzi, l’abbondanza di negozi e centri commerciali – parlo per l’hinterland milanese – ci permette, in condizioni normali, di andare a colpo sicuro quando abbiamo bisogno di qualcosa. Oggi, per la prima volta, dobbiamo fare qualche sacrificio per ottenere anche i beni essenziali. Mezz’ora per il pane, quaranta minuti per una medicina, ore per fare la spesa, nemmeno fossimo tra i padiglioni di Expo2015 nel mese di punta. La distanza di sicurezza non ci rassicura, ci guardiamo in cagnesco dietro i nostri burqa antisettici distinguendo i meno raccomandabili tra portatori sani e infetti. Poi tutti a casa a lavarci le mani secondo le istruzioni imposte da questo stato di pulizia, ignari del tempo che dovremo trascorrere ancora messi così.

help desk – day #29

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Sono un insegnante di scuola primaria che lavora almeno dieci ore al giorno. Non voglio passare per eroe, ma è dall’ultimo giorno che ho trascorso in classe – era il 21 febbraio, più di un mese fa – che sto seduto al computer dalle sette del mattino sino all’ora di cena e oltre, sino a tarda sera.

Il mio incarico è che la piattaforma di didattica digitale dell’istituto comprensivo in cui sono di ruolo funzioni per il meglio. Questo significa principalmente supportare i colleghi che non si sentono a proprio agio con la tecnologia e aiutare le famiglie che non hanno garantita la continuità didattica.

La realtà però è molto più terra-terra. Potrei snocciolare dei dati e dimostrare che almeno l’80% di chi non riesce ad accedere ai servizi di Google Suite – è il nome della piattaforma di didattica digitale – sono genitori (ma anche docenti, ogni tanto) che non si ricordano la password che hanno deciso loro. Il resto è un mare immenso di persone dotati di dispositivi che non userei nemmeno come supporti per fioriere, hanno impostato a loro insaputa Edge come browser, fanno errori di battitura quando scrivono gli indirizzi e-mail per fare log-in o per condividere materiali con docenti e alunni, o addirittura non hanno mai usato professionalmente un dispositivo digitale malgrado sia il 2020. Dal mattino a sera sono letteralmente sommerso da email, messaggi whatsapp e chiamate in cui mi vengono sottoposte rogne epocali ma che poi riesco sempre a risolvere perché, per mia fortuna, si rivelano problemi piuttosto elementari. Un vero e proprio servizio di help-desk, a tutti gli effetti. Ma non mi pesa affatto, giuro. La scuola pubblica è un servizio, e aiutare chi usufruisce di questo servizio e chi è tenuto a erogarlo è un piacere.

Oggi una collega della primaria mi ha chiesto se potessi chiamare una famiglia di recente immigrazione che ha due figlie a scuola da noi. La piccolina frequenta la seconda e la grande la quinta primaria. Al telefono ha risposto proprio lei, che è quella che in casa parla e capisce meglio l’italiano. Aveva il pc acceso davanti e le ho spiegato passo dopo passo tutto quello che doveva fare per accedere ai corsi di Google Classroom della sorellina. Ancora una volta il problema si è confermato facilmente risolvibile. C’era il solito impasse del conflitto tra più account Google attivi su Chrome, ora non ve lo sto a spiegare perché sarebbe noioso per i non addetti ai lavori. Le ho consigliato di operare sempre con un account Google per volta sul browser perché altrimenti il sistema fa pasticci. Clicchi su un invito a partecipare a una lezione che ti è arrivato sulla tua email e Chrome tenta di aprirlo con l’account di tua sorella attivo in un’altra pagina.

Sentivo lei che ripeteva quello che dicevo e il papà – aveva attivato il viva voce – che le rimarcava i passi del processo e la sollecitava a scriversi a penna le password commentando con il suo italiano ancora acerbo. Mi sembrava di assistere alla scena: la famiglia in cucina, il computer sul tavolo, e le cose che piano piano si risolvono.

Alla fine ce l’abbiamo fatta. Ora anche la sorellina potrà ricevere i compiti e seguire le lezioni a distanza della maestra. Non ricordo di essermi mai sentito così utile, anche se è una cosa molto piccola. Sono un sentimentale, che vi devo dire. Ho raccomandato alla ragazzina di memorizzare il mio numero e di chiamarmi nel caso si palesasse qualche altra difficoltà. Al momento di congedarmi, il papà ha preso la scena. Si è avvicinato al telefono e mi ha ringraziato più volte, forse fin troppo per quello che la situazione richiedesse. Mi ha detto grazie nella mia e nella sua lingua mentre fuori c’era il silenzio, la scuola era lontana, il tempo si faceva immobile, l’aria soffiava fresca, la vita scorreva imprevedibile.

ai margini – day #28

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Se avessi il potere di imporre una riforma della scuola imporrei due materie obbligatorie in ogni ordine e indirizzo di studi: un’ora di dattilografia a settimana e un’ora di pratica su Microsoft Office. A partire dalla primaria e fino all’università: ogni corso di laurea deve chiedere ai propri iscritti di saper scrivere su una tastiera di un pc, di importare dati da un .csv in un foglio di calcolo, di imparare a formattare un testo in Word e cose così. Mettere una firma usando i margini anziché riempire la riga di spazi, tanto per cominciare. Trovo pratiche di questo tipo in molti documenti che mi forniscono i miei colleghi insegnanti. Spesso c’è da mettersi le mani nei capelli e quando si tratta di documenti nei quali devo aggiungere qualcosa e poi consegnarli a qualcuno – la dirigente, i genitori – non resisto e li rifaccio da capo. Per ristabilire l’equilibrio dopo questa eroica rivelazione mi autodenuncio per una errore molto grave che ho commesso ai danni della comunità. Ho acquistato un disco su Amazon prima che iniziasse il delirio da Coronavirus. Ho l’abitudine di farmi consegnare quello che compro all’ufficio postale perché per me è comodissimo e poi, a casa, capita spesso che non ci siamo. Il fatto è che per i ritardi dovuti all’emergenza il pacco arriverà questo mercoledì. Ho letto però che è importante utilizzare i servizi delle poste solo in caso di estrema necessità. Come se non bastasse, dal prossimo mercoledì distribuiranno le pensioni. Così non so davvero che pesci prendere. Come devo comportarmi? Ho provato a intercettare la spedizione per cambiare l’indirizzo ma l’ho fatto troppo tardi. Ho deciso che mercoledì chiamerò l’ufficio postale e vedrò cosa posso fare, ma un po’ mi vergogno e spero che non se la prendano troppo. Alla peggio non lo ritirerò, aspetterò che lo rispediscano al mittente e poi vedremo cosa succederà. Chiedo scusa al mondo. Non era davvero mia intenzione gravare sulla situazione già complessa di per sé, ci mancava giusto un cretino che compra dischi durante una pandemia.

mobilità – day #27

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Sandy ha interpretato perfettamente l’essenza della videoconferenza su un dispositivo mobile. Ha strappato lo smartphone dalla postazione fissa in cui l’aveva costretta la mamma e ha iniziato prima a ballare come una derviscia rotante, poi ha messo il telefono per terra e si è sdraiata a pancia sotto come se fosse su uno di quei prati da sfondo di Windows di una volta, quindi si è lanciata di corsa in giardino dove si è messa a fare le smorfie da selfie, ricordando i primi spot dei sistemi di vidoeconferenza con le modelle in tenuta acqua e sapone che si mettevano in posa facendo finta di connettersi con gente dall’altra parte del mondo per mostrare lo sfondo delle capitali europee. Roberta invece si è iscritta a Facebook per la prima volta annoiata dalla clausura forzata e ha cominciato a tempestare gli amici con foto anni ottanta passate allo scanner. Ne pubblica una marea e temo che, prima o poi, ne capiterà qualcuna in cui ci sarò anch’io ripreso da qualche parte, con la mia faccia tutt’altro che fotogenica. Ma la sorpresa è un’altra. Sedute su un pedalò sulla spiaggia c’è lei in posa con tre amiche, una delle quali è  Susanna ed è una vecchissima storia vorrei raccontare, prima o poi, perché davvero non so proprio che fine abbia fatto.

manuale di corsa sul posto – day #26

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Ho uno scaffale pieno a metà di libri da iniziare. Alcuni li ho presi in biblioteca, altri li ho racimolati da mercatini e scarti. Potrei anche mettermi a studiare italiano, latino e storia per il concorso per le superiori senza contare che il web, di questi tempi, è ricchissimo di offerta culturale. Sono uscito fuori (sul balcone, che cosa credete) e l’aria di Milano è straordinariamente pulita e cristallina. Sembra di essere in montagna, ma è meglio tenere le camminate come desiderio nel cassetto. Le scarpe da running, invece, restano appese momentaneamente al chiodo. Non ho capito se posso permettermi una sgambata nel quartiere ma, nel dubbio, resto a casa anch’io. Faccio degli skip sul posto durante la mia scheda di allenamento a giorni alterni, se i vicini di sotto si lamentano pazienza. Ho persino riesumato il Microkorg, l’unico synth che non ho venduto quando ho deciso di smettere di suonare. L’avevo inscatolato in cantina con un’etichetta con su scritto da usare solo in caso di emergenza. Mi sono messo in poltrona e l’ho poggiato sulle gambe come faccio con il gatto o, più verosimilmente, con il portatile. Il Microkorg è un mini-sintetizzatore dotato di tasti piccoli che permette un’estensione impossibile sulle tastiere normali e quindi consente un approccio esecutivo del tutto diverso. Mi vengono composizioni che non potrei creare in nessun altro modo. Provo un suono e si concretizza un brano nuovo che, fortunatamente, come avviene quando improvvisi, dopo pochi secondi me lo sono già dimenticato. Sopraggiunge il silenzio, una condizione che non capisco e che mi fa riflettere su una cosa che non so esprimere e il cui senso ritrovo nelle parole di Scurati in questa intervista: “La mia generazione è giunta del tutto immatura a questo dramma collettivo, priva di quel sentimento tragico della vita che ha accompagnato per millenni le generazioni precedenti”

tutti i modi per dire buongiorno – day #25

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Abbiamo deciso che i genitori degli alunni possono restituire le attività, una volta terminate, utilizzando il canale che preferiscono. La didattica a distanza si scontra con il limite della dimestichezza delle persone con gli strumenti, della velocità di connessione e della rete stessa e delle prestazioni dei dispositivi a disposizione. Che poi, diciamocelo, con Instagram son tutti degli influencer ma quando gli chiedi di condividere un video da Whatsapp direttamente su Google Classroom son pronti a far le vittime del digital divide. In giro si dice che il rischio è quello di lasciare indietro i bambini con le famiglie meno attente e presenti e i più poveri, e detto tra i denti non ho un’opinione su questo. Tutti barricati in casa, smarrito il senso del tempo, come si fa a non accorgersi di un figlio vittima di un sistema educativo che non ha mai contemplato un’emergenza del genere? Qualcuno mi avvisa scrivendomi via mail di aver messo i compiti fatti nel posto giusto di Google Drive, ed è naturale che si scambi qualche battuta con i genitori, qualche considerazione o anche solo un saluto. La mamma di Anna mi ha chiesto come stiamo e non ha perso l’occasione di ringraziarci per quello che stiamo facendo, del modo in cui ci stiamo re-inventando, anche se credo sia il nostro dovere e il nostro lavoro. Le ho risposto che di certo non c’è mai da annoiarsi e che, comunque, nessun dispositivo potrà mai sostituire l’emozione di veder entrare Anna e i suoi compagni ogni mattina, in classe, e tutti i modi che ci siamo inventati per dirci che oggi sarà ancora una giornata speciale.

a questo punto se ne riparla a settembre – day #24

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Trascorro così tante ore al computer che la gatta ha inventato un modo per stare in braccio e appoggiarsi con le zampe anteriori al mio polso sinistro, come se fosse affacciata a un davanzale, lasciando le zampe posteriori sulle mie cosce, mentre scrivo sulla tastiera. Quando facevo il copywriter, prima della mia nuova vita da insegnante, ero arrivato al limite della sopportazione delle otto ore in ufficio, seduto davanti al PC. Verso le tre del pomeriggio la pressione mi saliva alle stelle, malgrado la pastiglia contro l’ipertensione che assumo da anni ogni mattina. Avevo ricondotto la causa all’immobilità, alla frustrazione di un dispositivo lentissimo, al dover dimostrarmi creativo nonostante la piattezza della routine professionale, al fatto di essere in sei persone con otto computer accesi in una stanza, alla vicina di scrivania che si scaccolava e faceva le call in viva voce senza nemmeno porsi il problema di spostare se stessa e il suo portatile e di sfruttare gli spazi per le riunioni di cui l’agenzia era provvista. Non a caso, da quando faccio l’insegnante, che invece è il lavoro più vario del mondo, non ho mai più avuto problemi di questo tipo. Nelle ultime settimane, però, il mio ruolo di super amministratore della piattaforma didattica della scuola (Google Suite for Education, la piattaforma che come la Settimana Enigmistica vanta innumerevoli tentativi di imitazione!) mi impone di non staccarmi da qui. In più, il computer mi permette di preparare le lezioni, scrivo sul mio blog, faccio qualche lavoretto extra di redazione testi, tengo i contatti con gli amici sui social. Insomma, per farla breve, l’altra sera – dopo giorni e giorni di lavoro – mi sono sentito provato e fiacco come allora.

Senza contare che non posso nemmeno più uscire per correre: anche se attraverso aree poco frequentate, sarei comunque di cattivo esempio. Faccio attività fisica in casa. Il mio coach di circuit training manda le schede e i video-tutorial sul gruppo Whatsapp e, a giorni alterni, stendo il tappetino in sala e mi ci dedico. Devo far attenzione allo skip sul posto, non credo che il mio vicino di sotto sia contento. Mia figlia, come tutti gli studenti delle superiori, si sente invece ormai smarrita. Priva delle relazioni con gli amici, degli impegni scolastici tradizionali e della scansione del tempo propria dei ragazzi, sembra un astronauta che vaga con il suo scafandro anti-contagio nello spazio della sospensione della vita. Mi chiedo, da un punto di vista psicologico, quali conseguenze questa catastrofe comporterà ai più giovani. Stamattina però ho tolto le tende dalle finestre per metterle in lavatrice, una botta di vita che mi ha entusiasmato. Ho persino pensato di rispolverare l’unico sintetizzatore che mi è rimasto, il mio piccolo caro Microkorg. Lo avevo messo in cantina, inscatolato e fasciato, con un biglietto: da aprire solo in caso di emergenza.

sotto la via lattea – day #23

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Se siete consumatori di serie tv per ragazzini su Netflix avrete notato che è curioso che degli adulti siano in grado di divorare, nel più famelico dei binge watching, proprio delle serie tv per ragazzini, questo anche prima della clausura da pandemia. Per farmi capire, è come se mia mamma e mio papà, nel 77, si fossero precipitati a casa ogni giorno in fretta e furia dal lavoro, per non perdersi alle 19:20 una puntata di Orzowei.

Ci sono diverse chiavi di lettura di questo fenomeno. Non abbiamo risolto del tutto i nostri problemi con l’adolescenza? Siamo stati ragazzi felici in un momento storico bellissimo e proviamo una inappagabile nostalgia? Direi tutte queste cose insieme, con l’aggravante del fatto che certe serie per ragazzini trattano contenuti che permettono ai grandi di riconoscersi in modelli genitoriali alle prese con le complessità di essere madri e padri nella contemporaneità. Storie che consentono anche di saperne di più dei propri figli, o anche di conoscere meglio noi stessi quando eravamo adolescenti, a partire dalla sensazione di sentirsi diversi dal resto del mondo, che è poi lo stato d’animo più comune in cui si sente ogni individuo adolescente in quel complicato periodo della vita. Un tema che, sempre più, è reso attraverso la tecnica narrativa del superpotere come arma di emancipazione, valvola di sfogo per la rabbia verso la propria debolezza e difesa nei casi di bullismo, il tema del momento.

Non so dirvi se questo piano interpretativo sia colto dai telespettatori più giovani. Avvezzi alla narrazione marveliana e di quella roba lì a stelle e strisce grondante di effetti speciali, di gente che fa cose pazzesche ne avranno fin sopra i capelli. Nei protagonisti delle serie tv, invece, sono le fragilità a costituire la forza con cui, alla fine della storia, vincono su tutto e tutti, il che è un bel messaggio. Nell’ultima che ho visto, “I Am Not Okay with This”, si parla di confusione sessuale, resa come capacità di far esplodere teste o devastare biblioteche o foreste con la sola forza del pensiero.

Serie peraltro che mi ha lasciato un po’ così, a parte la divertente citazione del film “The Breakfast Club” con i ragazzi costretti a stare assieme a scu0la in punizione. Il fatto è che oramai la fiction è satura di stereotipi, non solo nei personaggi. La formula vincente delle serie per ragazzini su Netflix – pensate per essere viste soprattutto dai loro genitori – è l’ambientazione negli anni 80, traslata intelligentemente ai giorni nostri.

Mia figlia riconduce il motivo al fatto che gli anni 80 costituiscano un vero culto per la loro generazione, anche se si tratta di un decennio già di culto a metà anni novanta. Io invece sostengo che produttori e sceneggiatori vogliano fare il possibile per far sentire a proprio agio i ragazzi degli anni 80, e cioè me e quelli come me, in quanto loro stessi ragazzi degli anni 80. Ci avrete fatto caso. Sedicenni che giocano con il cubo di Rubik e guardano tv a tubo catodico ma usano smartphone per comunicare tra di loro. La moda di allora attualizzata secondo i canoni del nuovo secolo. Auto vintage dotate di mangiacassette per ascoltare le compilation su nastro delle canzoni preferite mentre ci si reca al ballo della scuola.

Un minestrone spazio-temporale in cui la musica facilita le cose: gli artisti di oggi pagano un pesante tributo agli anni 80, e nelle serie tv di questo tipo vi sfido a distinguere un brano d’epoca da uno registrato oggi. La colonna sonora di “I Am Not Okay with This” attinge a piene mani da quella dell’archetipo di questo genere cinematografico, il film “Donnie Darko”, a partire da “The Killing Moon” degli Echo & the Bunnymen. Peccato che manchi la splendida “Under the Milky Way” dei The Church. Dovete fare attenzione, però. “Under the Milky Way” è uscita nell’88, quando gli anni 80 non ne potevano già più degli anni 80 ed eravamo già tutti proiettati verso il decennio a venire, un errore fatale di cui ci pentiamo ancora oggi, mentre guardiamo serie tv ambientate negli anni ottanta. A proposito, vi siete mai chiesti perché in “Under the Milky Way” ci sia un assolo di cornamusa?