vai a giocare fuori che è una bella giornata – day #41

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Se avessi una figlia piccola la situazione sarebbe ancora più drammatica perché il rischio è quello di parcheggiare i bambini davanti alla tv o al computer per ore ed ore. Non sempre i genitori hanno le risorse fisiche e mentali per inventarsi continuamente qualcosa di nuovo e il momento storico non induce alla sufficiente serenità per gestire lucidamente una famiglia. La vera ricchezza oggi sono i metri quadri all’aperto. La mia alunna Alissa si è collegata alla consueta videoconferenza di saluti domenicali con alle spalle un immenso giardino e ci ha mostrato persino i suoi cani. Altri invece lasciano intravedere spazi angusti e arredamenti ordinari. Casa mia si apre su un balcone piuttosto ampio, meglio che niente, ma anche se le giornate si sono riscaldate non mi è ancora venuta voglia di trasferire la scrivania fuori per lavorare all’aria aperta. Le vie di mezzo non mi piacciono, e a un surrogato di libertà preferisco una detenzione consapevole, come se dovessi approfittare dei sensi di colpa di chi ha causato tutto questo. Ho trascorso le ultime giornate a configurare decine di tablet per gli studenti meno abbienti della scuola in cui insegno, un incarico che mi ha alienato e mi ha abbattuto il morale, come è normale per le attività routinarie composte da cicli medio-lunghi. Sembra che alla scuola finiscano gli scarti di magazzino di ogni settore industriale. L’aggravante è che ha perso la vita un collega di mia moglie, appena andato in pensione. Meglio non pensarci. Continuo a svegliarmi appena fa chiaro e, dopo cena, ci vuole davvero poco per farmi addormentare sul divano. Basta una ripresa di città vuota con il drone o il commento di un speaker baritonale e accomodante. alla tv. La mia famiglia si burla dei miei goffi tentativi di minimizzare la testa che cade sul petto all’indietro e il mio far finta di nulla. L’unico contatto con la natura resta la mia gatta rimasta priva del fratello deceduto la scorsa estate. Trascorre le giornate in braccio a me e non le sembra vero di aver a disposizione qualcuno su cui gioire senza soluzione di continuità nel modo caratteristico della sua specie, quella vibrazione del corpo che noi umani invidiamo tantissimo.

avventure nel mondo – day #41

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Ho amici viaggiatori seriali, di quelli che investono sino all’ultimo centesimo per visitare ogni angolo del mondo. Gitaioli che non perdono un minuto di tempo libero per trascorrerlo all’aperto, anche solo per compiere lo stesso sorprendente tragitto verso gli scorci più belli della città. Locatari che vivono gli ambienti domestici il minimo indispensabile per dormire, trovare ristoro, lavarsi e vestirsi, consumare i pasti, condurre una versione basic di ménage famigliare. Il resto sempre fuori, in primavera ma anche sotto zero, con la pioggia, il vento, la (rara) neve e il solleone. Costretti e ristretti dalla clausura forzata hanno però reagito in modo esemplare. Vagare con la mente è la condizione di base per spostarsi con il corpo. Ripercorrere le mappe con il pensiero o la conversazione è una fedele riproduzione di un itinerario, soprattutto quando il turista professionista ha fatto propria la topografia dei luoghi e la sua brillante memoria, al servizio dell’esperienza intima, registra i nomi di strade e monumenti, quartieri e mercati, sentieri e spiagge e basta una vaga suggestione per riabilitare i collegamenti con le sensazioni provate. E una volta riprodotta una vacanza a parole e sguardi in tempo reale, ecco il gran finale. Terabyte di foto scattate in ogni parte del mondo visitato si succedono sullo schermo a cinquantadue pollici, attivando un tentacolare varco verso una dimensione spazio-temporale di momenti e cellule e respiri catturati e fermati. Un film in stop-motion a maglie più o meno larghe in grado di mettere in stand-by la vita dalla parte dello spettatore per accenderne una temporaneamente sopita ma sempre carica e pronta all’uso per ravvivare una brama di evasione che nemmeno i cancelli di una chiusura forzata sono in grado di contenere.

mondrian – day #40

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I quadri di Mondrian sono anche dei rettangoli, nonostante ciò costituiscono una vetta dal punto di vista dell’ordine estetico, almeno secondo i miei gusti. Nutro una smodata attrazione per la geometria e, fosse per me, a scuola insegnerei solo quello. Altro che quei barbosi calcoli che tanto si sa sempre quanto fa, alla fine, per non parlare del fatto che – computer alla mano – trovare il risultato è poco più che un questione di dattilografia seguita dal tasto invio. Peccato che la quarantena, nel quarantesimo giorno del lockdown, se la metti sotto una radice quadrata e ti viene fuori una fila di numeri decimali da record. Dividere a quadretti è una pratica che perseguo da quando ero ragazzino tanto che, tutte le volte in cui mi viene chiesto di preparare un template di qualunque cosa, la prima cosa che faccio è armarmi di matita e strumenti per squadrare il foglio per poi suddividerlo in tanti quadrilateri. Il massimo è poter poi colorare i settori, proprio come faceva Mondrian, ma non sempre è possibile. Di questi tempi vanno molto di moda le videoconferenze. Il sistema che utilizzo io, Google Meet, unito a un’estensione di Chrome, ti permette di visualizzare tutti i partecipanti nello schermo del pc in una griglia di tanti rettangoli, ciascuno delle proporzioni di 16:9, tanto che la regolarità di layout è sufficiente a compensare i limiti della comunicazione sincrona tramite Internet. Dietro ai partecipanti vedi armadi con le ante a battente, librerie Ikea, stampe dozzinali, persino frigoriferi coperti da magneti di tutte le città del mondo. Ogni tanto fanno capolino consorti, figli e persino gatti a movimentare il monoscopio della faccia altrui trasmessa con inquadrature che nessuno si premura di far rientrare nei canoni della sezione aurea. Al momento, comunque, è fondamentale accontentarsi e abbassare le aspettative delle relazioni all’interno del genere umano. I più audaci sono però riusciti a ricondurci all’archetipo, ovvero la prima volta in cui qualcuno ha trasmesso tutte le facce insieme in una comunicazione collettiva in tempo reale.

discesa – day #39

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Non dobbiamo abbassare la guardia ma non è l’unica cosa in caduta libera. Sta calando l’attenzione ed è un guaio perché la distrazione rende più vulnerabili. Non seguiamo più i telegiornali e non siamo più in grado di snocciolare i numeri. Chiedi quanti sono gli infetti, i guariti e i morti al primo che passa, anzi, al primo che becchi in videoconferenza e quello inizia a tirare a indovinare nemmeno ci fosse Enrica Bonaccorti con i suoi vasi pieni di fagioli, e se era Raffaella Carrà poco importa. Nei gruppi Whatsapp scende la voglia di confronto, i messaggi si diradano, l’umorismo cala di livello, il tentativo – encomiabile – di ridurre la distanza con il trasporto di una comunicazione costante va snaturando il significato iniziale e si adatta a convenzione sociale. Le video-ricette dei masterchef per non far sentire alla gente la mancanza dei ristoranti si fanno sempre più dozzinali. Presto ci saranno tutorial sul petto di pollo alla piastra o il panino al prosciutto. Dio che voglia di un panino al prosciutto. I cantanti sono stufi di lagnarsi in streaming e così mandano in avanscoperta Nick Cave per capire se i fan sono d’accordo se se ne stanno un po’ tranquilli, con la scusa del ritiro di riflessione. Anche gli insegnanti sono riusciti a rendere routinaria la didattica a distanza. Chi si faceva la barba tutte le mattine, prima delle videolezioni, ora si rade a giorni alterni. Iniziamo, per la seconda volta, a perdere di vista i contatti su Facebook che avevamo già perso di vista una prima volta e che erano riemersi grazie a un colpo di coda dell’algoritmo che, probabilmente, ammorbidito dall’emergenza globale aveva tentato di mettere un po’ di pepe ai rapporti virtuali ristabilendo contatti interrotti dalla scarsa frequentazione dal duemila e sette per lasciarci stupiti e farci pensare che, comunque, un momento di pausa non era poi così male. C’è anche meno rigore nelle foto da giovani e i meno attenti alla propria reputazione social stanno raschiando il fondo del barile con istantanee passate allo scanner di periodi privi di rilevanza della storia recente. Tutto sta rientrando nella norma e questo significa che ci stiamo abituando. Ci stiamo abituando a stare al chiuso tutto il tempo, a metter la mascherina per scendere nel box, a sentire i nostri parenti lontani senza lasciarsi con un ci vediamo presto. All’adattamento di qualunque mansione a un surrogato digitale dalla scrivania in salotto, al cucinare sia a pranzo che a cena, alla lavastoviglie che va a ciclo continuo. Ad affacciarci al balcone e a non sentire nemmeno il rumore della tangenziale, al furgone della protezione civile che sgrida gli anziani con il cane, ai vicini numerosi che, sempre tutti insieme, fanno festa senza soluzione di continuità. Alla primavera indoor e all’esistenza light da pandemia. Ci siamo evoluti a un nuovo stadio. Siamo stati bravi. Nulla sarà più come prima e noi siamo già pronti.

sì con virus ma senza lattosio – day #38

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La tele ai tempi del coronavirus ha smarrito completamente la sua essenza di veicolo di evasione. Intanto perché il 90% delle trasmissioni si occupa – giustamente – di informazione e l’informazione è al 100% monopolizzata da coronavirus e argomenti collaterali. Quindi, se cercate un po’ di svago, molto meglio un libro o un disco. Il fatto è che nemmeno più le pubblicità ci mollano. Ci avete fatto caso? Tutti gli spot sono stati rivisitati secondo il tema del momento, riconducibile alle headline io resto a casa e andrà tutto bene. I soggetti sono sempre gli stessi e vanno dall’Italia che ce la farà a tutte le attività che possono essere svolte dentro le mura domestiche, evitando il rischio di contagiare il prossimo o prenderci il virus e poi contagiare il prossimo la volta successiva. Per certi prodotti è facile. Per altri un po’ meno. I brand di automobili, per esempio, le fanno vedere scintillanti nei garage a motore spento. La ripresa delle scorribande in città o di quelle corse pazzesche lungo le strade che costeggiano faraglioni a strapiombo sul mare è stata posticipata più volte. Al momento si parla del 15 di aprile o, più realisticamente, meglio scollegare la batteria per evitare che si scarichi come è successo al sottoscritto perché, vedrete, non metteremo il naso fuori di casa prima di settembre. Il virus sarà finalmente scomparso e saremo tutti al sicuro. Non ho ancora visto, però, la versione quarantena dello spot-tormentone del sì con riso… ma senza lattosio. E pensare che un sequel in formato lockdown sarebbe molto semplice. Immaginate un contest in cui famiglie intere ballano su quell’azzeccatissimo jingle e poi pubblicano il video su una pagina Facebook dedicata. Questa sì che è una campagna social contestualizzata. Al momento, però, mancano lampi di genio creativi. Vedo soltanto soggetti seriosissimi che trasmettono messaggi di speranza e solidarietà ai consumatori. Uniche eccezioni, due attività di marketing digitale per rispettive iniziative di consegne a domicilio: “Io Risto a casa” e “Andrà tutto bere“, quest’ultima dedicata alla birra artigianale. Sembra quindi che, nell’insieme, l’economia si sia fermata ma le agenzie di comunicazione siano le uniche a generare profitti, con tutti i limiti dei brainstorming in telelavoro.

le cose del cuore – day #37

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Quando il futuro è un’incognita e il presente lo trascorriamo come dei reclusi ci aggrappiamo al passato, unica certezza. Il mio amico Guido riconduce questo fenomeno alle cose del cuore, che potrebbe essere il titolo di una rubrica di “Cioè” ma rende l’idea. Le cose del cuore vanno dalle foto di noi da ragazzi degli anni 80 su Facebook alla riconciliazione con il vicino pensionato che avevamo mandato a quel paese quando si era messo a falciare l’erba del giardino la domenica pomeriggio d’estate, in casa con le finestre aperte. Nelle cose del cuore abbiamo messo tutte le canzoni che abbiamo composto, compreso quel plagio di “Non succederà più” di Claudia Mori con la scusante che, ai tempi, non era facile cercare su Internet i ritornelli per paragonarli, sostanzialmente perché Internet è venuta un paio di decenni dopo. E in questo vivere alla giornata, questo carpe diem per il quale mi prenderei la licenza di renderlo, in italiano, vivi alla settimana se non al mese, in un periodo come questo in cui il senso del tempo lo abbiamo chiuso nell’armadio insieme ai vestiti di stagione che tanto, quest’anno, non useremo, facciamo l’elenco delle cose che abbiamo notato della nostra vita e delle vite degli altri e che, in situazioni normali, non avremmo mai scoperto. Per esempio, io ho ascoltato di nascosto mia figlia sostenere una specie di interrogazione improvvisata in videoconferenza con la sua prof, esperienza che la vita nella sua impostazione tradizionale non mi avrebbe mai permesso. Ho sostato senza farmi sentire dietro la porta della sua cameretta come un ladro e ho rubato un pezzo di vita a mia figlia alla quale altrimenti sarei stato precluso e, manco a dirlo, mi ha emozionato. Mia figlia incalzata alla risposta da qualcuno che non è uno dei suoi genitori e che dimostra che c’è una dimensione delle persone del cuore che non siamo in grado di controllare, uno spin-off della nostra esistenza in cui noi non saremo non solo co-protagonisti ma nemmeno delle comparse e che, anzi, andrà in onda su un’emittente a cui non ci sarà consentito di sottoscrivere l’abbonamento e che, se troveremo su qualche sito di streaming, si vedrà in bassa qualità tanto da farci perdere la voglia e di lasciarci accontentare da racconti di singoli colpi di scena, dagli spoiler o, al massimo, qualche gag particolarmente esilarante.

non (ne) usciremo – day #36

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Io, per carità, dar delle direttive non è il mio mestiere anche se, in quanto insegnante, dovrei intendermene di trasmettere sequenze e algoritmi. Io però non ci ho capito un cazzo. Se si può andare a correre o portare a spasso i figli e, nel caso, quali sono i parametri di nei pressi di casa propria. Cosa ci vuole a dire le cose chiare. Per adeguarmi al trend dell’incomprensione, ho assegnato ai miei bambini un’attività che me la sono pensata una notte intera ma poi, quando l’ho messa in pratica con tanto di video di spiegazioni, alla fine genitori e figli mi hanno bombardato – giustamente – di domande. Ho fatto un passo indietro perché, questo dovreste saperlo, riconoscere di aver fatto una cazzata è un aspetto molto appealing nella gente. Io poi ci metto la scusante che mica siamo nati con la didattica a distanza in tasca, noi maestri, e quindi ci muoviamo per tentativi e navighiamo a vista. Questa cosa piace molto, quindi non mi faccio problemi a sperimentare con la tecnica del lanciare il sasso per poi nascondere la mano ma per poi tirarla fuori appena qualcuno alza il dito e muove un dubbio. E, in questo dubbio, io continuo a non uscire. Non vado a correre. Non porto mia figlia a spasso per l’isolato, soprattutto perché lei sarebbe la prima a vergognarsi, a sedici anni a passeggiare con il papà intorno al palazzo. Se uno ci vedesse da fuori, per esempio un marziano, penserebbe che non siamo andati lontano. Invece, malgrado le apparenze, ne abbiamo fatta di strada. Ho pensato proprio questo poco fa, quando ho visto “Il primo re” in lingua originale – dovrebbe essere latino arcaico – con i sottotitoli in latino medievale. Scherzo eh. L’ho visto su un sito di streaming e la prima cosa che ho pensato è stata che inizia allo stesso modo di “Hereafter”. Non so dirvi però dove vadano a parare sia Romolo che Remo, anche se la storia – anche se è probabilmente una leggenda – la conosciamo tutti: a un certo punto il sito di streaming si è bloccato ma, comunque, nell’insieme meglio così.

scala mobile – day #35

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Se provate a spostarvi all’interno dell’hinterland milanese, una delle zone a maggior densità abitativa europea (almeno credo), saprete che spesso è difficile capire in quale comune state transitando. Il fatto è che l’area metropolitana è un’immensa distesa di quartieri, uno appiccicato all’altro. Sei a Bresso, attraversi la strada e ti ritrovi a Cormano, fai centro metri e torni nei confini del territorio da cui sei partito.

Questo puzzle di municipalità, passatemi il termine, non costituisce certo lo scenario ideale per l’applicazione e l’osservanza di una delle disposizioni che regolano i movimenti consentiti ai tempi del lockdown. L’ordinanza ammette infatti gli spostamenti per l’approvvigionamento alimentare nel caso in cui il punto vendita più vicino e/o accessibile alla propria abitazione sia ubicato nel territorio di un altro comune. I grandi ipermercati, che poi sono quelli più comodi e convenienti per le spesone settimanali o in periodi di pandemia in cui meno si esce e meglio è, si trovano in vere e proprie terre di nessuno, a metà tra uno svincolo e una provinciale, e non è sempre facile associare la loro ubicazione al paesello di appartenenza.

Non tutti i comuni, però, possono contare sul proprio territorio di uno di questi megastore. Su questa tematica si trovano fior di leggende metropolitane che narrano di forze dell’ordine impegnate a rilevare le generalità delle persone in coda all’Esselunga del tal paese per verificarne l’effettiva residenza, sanzionando e allontanando i non coperti da tale diritto naturale. Nel dubbio – non sono certo uno che ama il rischio – mi servo di una piccola Coop a meno di un minuto di auto da casa mia in quanto, appunto, privo dello ius soli per avvalermi dell’Esselunga di Baranzate.

In realtà c’è un’Ipercoop sul territorio comunale, che però si trova all’interno di un grosso centro commerciale che, fino a stamattina, ho cercato di evitare. Nulla è infatti più deprimente di un centro commerciale gremito di consumatori che un centro commerciale con tutti i negozi chiusi, il nastro segnaletico intorno ai giochi per i bambini e una fila di persone in mascherina, ciascuna appoggiata al proprio carrello e a un metro di distanza l’una dall’altra.

Per limitare l’esposizione a questo scenario da film post-apocalittico americano mi sono presentato all’ingresso del supermercato alle 7:30 del mattino, riuscendo così a entrare all’apertura. Sono riuscito a fare lo spesone settimanale in tranquillità e come si deve, cioè riempiendo il carrello all’inverosimile e pagando uno sproposito in cassa. Quando sono uscito, un’ora dopo circa, la coda era consistente e ho capito di aver fatto la cosa giusta.

Ho inforcato così la scala mobile per salire al piano dei parcheggi ed ero completamente solo con i miei duecento euro di spesa. Si sentiva della musica, come sempre succede nei centri commerciali. La musica non riconosce l’umore delle persone perché, al contrario, è la canzone in sé a imporlo. Ci vorrebbe un sistema di domotica avanzata, applicato agli ambienti pubblici, in cui non è necessario dare le istruzioni vocali come “Alexa metti questo” o “Alexa fammi sentire quest’altro”. Una tecnologia raffinata che capisce che l’umanità si trova in un momento critico che riguarda tutti, ti legge nel pensiero, controlla la tua data di nascita, capisce con quali band e artisti sei cresciuto, e compone una playlist incrociando questi dati. Un impianto hi-fi universale in cui solo il programmatore di tutto questo, grazie al suo ruolo di super-amministratore, è in grado di spegnere l’impianto di diffusione, con uno di quei gesti da telefilm di streghe e fate, arricciando il naso o strizzando entrambi gli occhi.

weekend lungo – day #34

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Concetti a cui è urgente dare una nuova accezione (elenco in continuo aggiornamento):

– weekend lungo
– casalingo
– malinconia della domenica sera
– concerto del Primo Maggio
– home studio
– il cielo in una stanza
– casa dolce casa
– Don’t Stand So Close To Me
– home page
– evasione
– marzo pazzerello
– follower
– sotto a chi tocca
– gettare la maschera
– bello fuori, bello dentro
– famiglia allargata
– il ponte
– i saldi
– domani è un altro giorno
– pulizie di primavera
– scappatella
– il testo di “Friday I’m Love” dei Cure
– monolocale
– uscire di testa
– Pasqua con chi vuoi
– il pogo
– camera con vista
– il cambio degli armadi
– avere un figlio/figlia che fa il parrucchiere
– animale domestico
– i reality in cui si sta chiusi da qualche parte
– due passi
– domenica aperto
– farsi mandare a quel paese
– restiamo in contatto
– ce l’hai
– la foto di classe a fine anno scolastico
– la PNL
– aggiungi un posto a tavola
– l’Ikea
– il video di “Close to me”, ancora dei Cure
– questa casa non è un albergo

amici animali – day #33

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L’aria così pulita che sembra di vivere in Alto Adige non è l’unica stranezza di questo momento così controverso. Le notizie di cigni e delfini avvistati nel Canal Grande sarebbero delle bufale – a proposito di fauna – da tanto al mucchio, ma nel mio piccolo ho assistito anch’io a qualche fenomeno a supporto della tesi che la natura si stia riprendendo gli spazi lasciati liberi dagli uomini. Qualche giorno fa sono stato a scuola e nel giardino scorrazzavano indisturbati numerosi scoiattoli che, ricordiamolo, ci sono sempre, ma probabilmente con il frastuono del traffico e l’eco dei bambini in mensa se ne stanno al sicuro in cima agli alberi. Il mio balcone è visitato da vespe e bombi alla ricerca di chissà cosa più di prima. Ieri due merli con un vistoso becco giallo e decisamente sproporzionato rispetto al resto del corpo vi hanno sostato a lungo, scegliendo indisturbati le migliori briciole che avevo lasciato ai pennuti della zona. La scorsa notte, infine, mia figlia ed io siamo stati svegliati dal verso una civetta, tanto che a colazione non siamo nemmeno riusciti a risalire al verbo da utilizzare per descrivere l’azione. I cani abbaiano, le mucche muggiscono, e le civette? No, non civettano, se è questo a cui state pensando.

Rimanendo in tema di animali, in tre giorni ho visto due volte un film che ritengo a dir poco delizioso, dal titolo “JoJo Rabbit”, in cui il coniglio – che comunque compare in un paio di scene e, scusate lo spoiler, in una non fa certo una fine dignitosa – è più da legare alla metafora di un tipico temperamento – a torto inteso come disdicevole – del genere umano. Un film leggero, per carità, ma in grado di far riflettere su un tema impegnativo come il nazismo e la persecuzione contro gli ebrei in modo diverso. Su tutto, la sigla iniziale con le immagini in bianco e nero della folla tedesca in delirio per Hitler sulle note di “I Want to Hold Your Hand” dei Beatles, che ci ricorda i fan in attesa dei Fab Four agli aeroporti e per le strade dei loro tour, e il finale, con l’immancabile “Helden” di Bowie, una canzone che sta bene su tutto ma, quando si parla di eroismo di ogni tipo, oggettivamente non c’è colonna sonora più adeguata.

L’ultimo animale di questa rassegna è la mia gatta Doremi, che non sta più nella pelle per averci a disposizione 24×7 e chissà per quanto tempo. Non mi molla un attimo e, dalla gioia, sembra non capire più niente. L’importante è che, tra le mura domestiche, le cose filino lisce nella massima armonia. Ogni tanto mi fermo a seguire la trasmissione “Vado a vivere… Minicase”, che racconta di gente che spende fior di quattrini per acquistare abitazioni grandi quanto un confessionale. Mi chiedo, ai tempi del Covid-19, quale sia stato il loro destino e, soprattutto, se tale trasmissione sia tutt’ora in produzione.