aldo dice quattro per cinque – day #58

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La cosa che mi fa più riflettere sul senso del tempo è un episodio che mi è accaduto da bambino. Era l’aprile del 1975 e la Rai, a ridosso dell’anniversario della Liberazione, trasmise un documentario intitolato “Trent’anni dopo” che, attraverso immagini d’epoca e interviste, raccontava con una di quelle voci sobrie degli speaker dell’epoca i fatti e com’era andata. Mi fa riflettere perché, oggi che è il 2020 e sono settantacinque anni dalla fine della guerra, se conto a ritroso di trent’anni (come faccio nelle videolezioni con i miei bambini quando ci esercitiamo sul gioco dell’oca per orientarci in entrambi i sensi sulla linea dei numeri) ottengo il 1990 che è un anno davvero dietro l’angolo. Del novanta ricordo benissimo l’università, la cartolina per il servizio militare perché non avevo seguito una procedura corretta per quello civile, persino i mondiali con i tifosi della Svezia che indossavano le corna da vichinghi sui lungomare delle cittadine rivierasche della Liguria. Nel 1975 avevo otto anni e per mia mamma e mio papà, che seguivano insieme a me quella trasmissione sul divano davanti alla tv, i trent’anni prima dovevano essere altrettanto vividi nei loro ricordi. Probabilmente sarebbe stato sufficiente spalancare una finestra per cogliere ancora, per strada, gli odori della polvere da sparo, le macerie dei bombardamenti, i cadaveri degli antifascisti vilipesi, gli alleati in parata nella piazza principale della città, la povera gente – comparsa perfetta per il neorealismo – darsi da fare per ricostruire. Ma, e non vorrei sopravvalutarmi, probabilmente già allora la retorica non faceva per me. Mi bastava e mi bastano tutt’ora i fatti.

Così in questo venticinque aprile a porte chiuse mettere “Bella ciao” a volume alto, per farmi sentire dalle villette a schiera di fronte, non mi ha dato nessuna soddisfazione. Quando è passato il surrogato di corteo composto da un’auto che metteva i canti della Resistenza seguita da due compagni in bicicletta con mascherina e bandiera rossa li ho salutati con il pugno chiuso dal balcone ma, come al solito, ho sbagliato braccio. Poi ho fatto la spola tra un canale e l’altro per vedere, per l’ennesima volta, gli estratti dai combat film, la scena esaltante dei fascisti traditori appesi al contrario, gli automezzi stracolmi di patrioti per le strade, gli ultra ottuagenari – che chissà di tutti quelli quanti sono ancora in vita – ricordare la storia in programmi di qualche tempo fa. Lo sapete, vero, come si fa a riconoscere un’intervista fatta prima del lockdown da una in diretta? Oggi si interviene ai programmi tramite fotocamera del proprio dispositivo e in streaming, e della qualità dobbiamo accontentarci. Ma, per una volta, festeggiare la liberazione così ci sta.

Giunta la sera, abbiamo provato a vedere un film consigliato da Netflix, un adattamento de “Una questione privata” di Fenoglio con attori italiani ma non abbiamo resistito oltre il primo dialogo. L’abbiamo già detto mille volte ed è inutile ripeterlo: se hai una dizione discutibile e in più ti registrano in presa diretta perché il doppiaggio non è previsto con l’aggravante dell’inflessione dialettale, chi ha una certa età come me non capisce una parola di quello che dici. Nella prima scena si vede quell’attore che ha interpretato anche De André rivolgere una domanda a una donna al cospetto della casa che è poi la location centrale della storia del libro. Mi piacerebbe dirvi che domanda ma non sono riuscito a decifrare. Così abbiamo visto “Clockers” di Spike Lee che non c’entra niente ma, per lo meno, non è un film italiano. Siamo però tutti d’accordo che la nostra resistenza sta per terminare che il giorno dell’insurrezione – pianificata per il prossimo 4 maggio – oramai è a un tiro di schioppo. La nostra piccola guerra sta per finire. Possiamo cominciare a scavare tra le macerie.

abbiamo perso tutti, abbiamo vinto tutti – day #57

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Avremmo potuto dimenticarci della sveglia, che non bisogna mangiare troppa carne, che è bene asciugarsi i capelli dopo averli lavati. Che stare troppo seduti non fa bene e anche che, davanti al pc, è meglio prendersi una pausa per gli occhi ogni mezz’ora di lavoro. Potevamo scordarci delle stagioni e che anche in primavera, la mattina, è difficile capire dove ci troviamo. Come si guida un’automobile, come si sorrideva prima di indossare la mascherina, le cose che ci fanno rimanere male, dire buongiorno e buonasera. Le voci delle persone in strada che, con le finestre chiuse per le polveri sottili, non arrivano nemmeno al secondo piano, il sapore dei noodles con le verdure miste del ristorante cinese preferito, quello in cui i piatti si distinguono eccome l’uno dall’altro, e ancora che le persone non sempre hanno voglia di essere cortesi quando si rivolgono a te. Avremmo potuto dimenticarci che si fa turno e ci si dà il cambio, che insieme si finisce prima, che accettare consigli è un modo per imparare, che le cose complicate non le cambi nemmeno se segui un tutorial su Youtube, che è facile prendere peso, che a un certo punto quello che sei dentro e quello che sei fuori vanno fuori sincro come le presentazioni di Fuori Orario su Raitre quando avevamo la tempra per fare le ore piccole. Potevamo anche scordarci qualcosa acceso, di chiudere una porta, dove abbiamo messo gli auricolari dello smartphone, di salutarci prima di uscire, anche se uscire non si può. Se questa è l’università della vita, la scuola della strada, ci meritiamo tutti un sei politico e possono andare a cagare quelli che dicono che è una non-valutazione. Passateci voi, di qui. Passateci voi dentro a questo eterno presente, e provate a premere il pulsante play, per vedere se succede qualcosa.

viventi e non viventi – day #56

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La cosa che mi piace meno della scuola è la rigidità o, meglio, la mancanza di flessibilità. Il programma dice che nel tempo x devi arrivare da A a B e raggiungere gli obiettivi C e D che a leggerlo così sembra proprio il testo di un compito di matematica o di fisica, e quindi ci sta. Poi tuo fratello ti fa un dispetto e ti rovescia a colazione il latte con l’Ovomaltina sul quaderno sul quale hai risolto quel problema lì e che devi consegnare alla prof alla prima ora. Nella metafora, tu sei la scuola e tutto il resto l’imprevisto che, di questi tempi, ha le fattezze di un virus. Che fare?

L’insegnante di italiano di mia figlia – se non ci fosse la pandemia saremmo dalle parti del momento più caldo e decisivo del secondo quadrimestre di una terza liceo – ha dato da leggere “Il decamerone” nella versione di Aldo Busi (non trovo l’emoticon della faccina con il vomito, perdonatemi) e il “Principe” di Machiavelli. Il fatto è che, non so se l’avete notato, ma la situazione che stiamo attraversando non è proprio delle più accomodanti. Io, per dire, ne avrei approfittato per far riflettere i miei alunni adolescenti con il supporto di letture in grado di farli sentire a loro agio con il presente. Si legge e se ne parla, si legge e se ne parla, e il programma di fine terza – che, detto tra noi, è una bella rottura di coglioni – può anche andare a farsi fottere in terapia intensiva. E lo so che le novelle del Boccaccio e la peste e il Machiavelli e il servitore dello stato, però non si può rimandare tutto questo in quarta a coronavirus debellato? Va bene ma – direte voi –  e poi il programma di quarta?

Non deludetemi. Avete mai sentito di qualche essere umano deceduto per colpa di una parte pallosissima della letteratura italiana svolta in meno tempo rispetto a quanto tradizionalmente ci viene chiesto di dedicare in classe? Poi, lo sapete, se fosse per me nel triennio delle superiori si studierebbe solo l’ottocento e il novecento in ogni disciplina e con un’ampia occhiata a quello che succede anche fuori dal Regno d’Italia. Comunque, considerata l’emergenza globale, cari colleghi delle superiori potevate approfittarne per mescolare un po’ le carte in tavola. Avete la fortuna di trovarvi al cospetto di un’intera generazioni di studenti costretta a usare Internet per trovare le informazioni, cercate di approfittarne un po’.

Io, che sono un neofita della didattica e anche un po’ cialtrone, mi sono sentito in colpa perché tutte le mie colleghe della prima hanno spiegato ai bambini le differenze tra esseri viventi ed esseri non viventi, d’altronde il programma lo prevede. Io credo che un bambino di sei anni ci arrivi da solo, a distinguere un essere vivente da un non vivente. Certo, ci sono casi limite in cui uno ci deve pensare un po’, ma si tratta di dettagli che andranno affrontati più avanti con lo studio delle scienze. Così, per non essere da meno, ho fatto il mio video con la versione da poracci di Powtoon e l’ho condiviso alla classe, chiedendo in cambio di mandarmi una foto di un vivente e un non vivente che hanno in casa. Uno tra i svariati Leonardi che ho in classe mi ha mandato, come esempio di essere vivente, la foto di suo fratello. Ciao maestro, mi ha scritto, come essere vivente ho scelto mio fratello. Non c’è niente di male e, come saprete, l’esempio è corretto, ma mi ha fatto ridere. Ecco, forse la prof di italiano di mia figlia avrebbe voluto dare da leggere “Guerra e pace” o “Furore” di Steinbeck o “Pastorale americana” ma poi si è arresa e ha scelto come i suoi colleghi i non viventi (passatemi anche questa metafora) e lo so che non è letteratura italiana ma la letteratura è comunque letteratura e anche quella straniera, tradotta in italiano, non fa tutta ‘sta gran differenza. A meno che non siate rigidi anche voi come questa scuola. Spero di no, perché, credetemi, fa scappare tutta la voglia.

la pagina bianca – day#55

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Qualche giorno prima del lockdown ho ritirato una decina di romanzi in biblioteca. Quando poi ha chiuso tutto mi sono sentito un naufrago condotto dalla corrente all’approdo su un’isola deserta rigogliosa di risorse: vedevo all’orizzonte la possibilità di sfondarmi di tempo libero e avevo con me tutto il necessario per farlo. Ho pensato che tra quel bottino e qualche volume rimasto in casa, quei libri che ho sempre considerato di seconda scelta e che diventano, in tempi di carestia culturale, grasso che cola, mi spettavano almeno un paio di mesi di autonomia garantiti.

Trascorsi i primi giorni di ambientamento nella nuova dimensione della clausura per assicurarmi la più confortevole delle permanenze, ho afferrato il più ambito dei libri e ho allestito la mia postazione da lettura preferita, una comoda poltroncina anni cinquanta con spalle rivolte alla luce del balcone, piedi sull’antistante divano e gatta rigorosamente in braccio.

La gatta faceva le fusa e io, nemmeno alla seconda pagina, già russavo con altrettanta enfasi. Ho riprovato la sera stessa, sotto le coperte e con la abat jour accesa. Il risultato è stato ancora più deludente e svegliarmi con il libro sul petto altrettanto frustrante. Da allora ho tentato tutte le combinazioni possibili. Sul balcone, seduto alla scrivania, con la musica in cuffia, appena sveglio, prima e dopo pranzo. Tutte i tentativi si sono rivelati fallimentari.

Mi sono confrontato così con qualche amico. Perché è così difficile leggere quando fuori c’è una pandemia, diventa primario portare a casa la pelle, l’economia globale va a rotoli, non si può nemmeno uscire il cane per pisciarlo e tutto non tornerà mai più come prima? Nei miei buoni propositi, era la settimana di carnevale e già i più realisti decretavano l’anno scolastico bello che finito, addirittura auspicavo nel rimettere mano a tutta la ricerca proustiana, ché ormai sono passati almeno dieci anni dall’ultima ripassata. Ho una bellissima edizione vintage con la costa bordò anni 50 che mi invidiano tutti. Macché.

Il fatto è che tutto questo alimenta un cul-de-sac: vorrei leggere ma non ci riesco, mi vengono i sensi di colpa perché non riesco a leggere, mi impongo di leggere ma mi addormento dopo poche righe e torno da capo.

Quindi niente. È giusto essere severi con noi stessi perché non riusciamo a fare quello che dovremmo dimostrare di fare? Che cos’è che ci blocca, che ci rende la lettura che è l’esperienza che più di ogni altra permette di evadere dalle brutture del mondo (magari per tuffarci in quelle di un mondo inventato ma comunque è bello così) un gravoso calvario da compiere con la zavorra di una situazione che accomuna gli svariati miliardi di esseri umani nella stessa angoscia? Le pagine restano fitte di segni incomprensibili, gli occhi provano a districarsi, la mente attiva le sue difese, il respiro si fa affannoso, il lettore si fa piccolo piccolo, il libro gli cade addosso, l’impatto della copertina rigida è letale.

Noi del comitato dei lettori forti così promettiamo che dal 4 maggio, quando riaprirà tutto (le librerie pare lo siano già) torneremo a macinare storie con quel ritmo che fa di noi dei maratoneti della narrativa. Dal 4 maggio, eh. Siete testimoni che l’ho detto.

scuola con la q – day #54

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Ieri, nel corso di una delle numerose videoconferenze di programmazione del lunedì che mettono in contatto noi insegnanti in diverse combinazioni (riunione di team, riunione di interclasse, riunione di interclasse con l’altro plesso, riunione di materia), dovendo affrontare l’annoso problema della valutazione, mi sono trattenuto dal condividere con i colleghi il mio giudizio sull’esperienza che stiamo vivendo e che mi è apparso davanti come uno di quei titoli di film o episodi di serie di tv inseriti nel montaggio dopo un po’ che la trasmissione è iniziata e che, se non stai del tutto concentrato, corri il rischio di chiederti se quello che guardi sta iniziando oppure sta già finendo. Si tratta di una tecnica molto in voga e che trovo peraltro efficace. Crea uno stacco nella narrazione tra una sorta di preambolo e il racconto vero e proprio, aumentando la curiosità dello spettatore, un po’ come fa Mentana che con il suo pippotto iniziale prima della sigla del suo telegiornale e dell’ulteriore riassunto ma si sa, per contenere l’ego del direttore del tg7 ci vorrebbe almeno il doppio schermo come hanno i grafici e chi si occupa di video editing.

Io invece sono una persona umile e ho preferito non esser frainteso per quello che fa il sofisticato dicendo ai colleghi che questa esperienza di didattica a distanza a cui il lockdown ci ha costretto per me è un surrogato di scuola, un museo delle cere dell’insegnamento, un modellino di lezione da assemblare venduto a dispense in edicola, pezzo dopo pezzo, come gli aerei della prima guerra mondiale o gli Ape Piaggio.

Temevo che sganciare una bomba – di aria fritta, perché secondo me sotto sotto ne siamo consapevoli tutti e poi, detto da me che sono l’animatore digitale – sarebbe stato disorientante. Quelli che usiamo sono straordinari e potenti strumenti di collaborazione e comunicazione. Ma una lezione in videoconferenza è poco più della televisione dal punto di vista dell’interazione con lo spettatore, con l’aggravante che si perde la sfida con la qualità di riproduzione degli apparecchi a millemila pollici che accendiamo per guardare quei film e quelle serie tv di cui parlavo prima. Entriamo nelle case delle famiglie con la nostra inadeguatezza al contesto ma non ne voglio fare una colpa. Nessuno ce lo ha mai insegnato, siamo i pionieri della scuola da pandemia e non possiamo far altro che procedere per tentativi.

Soprattutto per noi delle classi più basse della primaria. Ci manca quella visione dall’alto mentre passiamo per i banchi, le dita sui quaderni a indicare dove la coloritura è da migliorare, sedersi sui talloni per offrire conforto alle lacrime, poter girare intorno ai bambini seduti come si fa con quegli effetti speciali in cui si blocca la ripresa e la telecamera ruota intorno al protagonista.

Ieri Carmen, che mi piace perché è anticipataria e dice tutto quello che le passa per la testa, appena ha acceso il microfono ha detto che stava giocando e che l’avevo disturbata interrompendo il suo passatempo preferito. Un esordio che ha fatto imbarazzare moltissimo la mamma al suo fianco – perché in prima poi bisogna tener conto anche del fatto che i bambini non sempre sono indipendenti con i dispositivi – tanto che, terminata l’ora, mi ha scritto immediatamente per scusarsi del comportamento della figlia. Io ho minimizzato perché avrei fatto lo stesso. Mi sarei comportato proprio così, se fossi provvisto del coraggio che ha Carmen. Ho immagino Carmen che, al posto mio, dice ai colleghi che questo è un surrogato di scuola e che non è affatto vero che è meglio che niente. Meglio lasciarli giocare, i bambini, e non disturbarli più.

il telelavoro non è bello se non è litigherello – day #53

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Il telelavoro è bello ma dipende da che telelavoro fa il tuo partner. Se vivi con uno o una che riceve di continuo telefonate, per esempio, è fondamentale adottare alcune precauzioni. Lo smartphone sul silenzioso, tanto per cominciare, o per lo meno l’accortezza di impostare una suoneria neutra e non una delle vostre canzoni preferite perché poi chi la subisce finirà per odiarla.

In condizioni normali uno non si immagina come sia il proprio partner sul posto di lavoro, alle prese con i clienti, con i superiori, con i suoi alunni, con i suoi pazienti. Ci arriva solo l’onda lunga delle promozioni, degli scazzi, delle trattenute, dei pettegolezzi e dei dissapori frutto della competizione professionale. Ai nostri occhi i nostri partner, appena svestiti delle divisa reale o immaginaria del mestiere che fanno, appaiono come eroi di ritorno da una missione, qualunque essa sia, e noi siamo pronti ad accoglierli a sera con un vodka martini agitato non shakerato e un massaggio ai piedi, previa doccia ristoratrice.

Averli in casa invece nelle otto o più ore canoniche di telelavoro è un fattore in grado di mettere alla prova la tenuta anche delle coppie più affiatate. Perché in tempi normali già chi si porta il lavoro a casa si rende reo di alto tradimento dell’armonia familiare. In momenti di quarantena o cinquantena, non ricordo nemmeno dove siamo, la convivenza professionale ci è persino imposta a colpi di DPCM. Ma non tutto si può declinare in telelavoro. Pensate a un vigile del fuoco, un parrucchiere, il macellaio, il fabbro, l’astronauta, il dog sitter, chi si occupa di edilizia acrobatica, i giardinieri, i direttori d’orchestra.

Possiamo immaginare la reazione dei partner di telelavoratori di questo tipo? A casa mia ci dividiamo le stanze: mia moglie alla scrivania in sala, io su un tavolino da esterni montato in camera da letto, mia figlia in camera sua a seguire lezioni cinque ore al giorno. Se capitiamo per caso nello stesso locale, assistere a una versione sconosciuta dei nostri cari alle prese con le rotture di maroni quotidiane del loro ruolo è piuttosto imbarazzante. Sono degli estranei nella veste di quello che fanno. Questa clausura forzata sbatte così in faccia a mogli e mariti persino la reciproca dimensione privata. Nessuno avrà più segreti, d’ora in poi, e chissà se si rivelerà essere un bene o un male.

aziendalista – day #52

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Lavorare per almeno vent’anni in ufficio più una predisposizione alla tecnica narrativa e una discreta attenzione a forma e grammatica fa diventare la scrittura di e-mail un vero e proprio genere letterario a sé. In azienda c’è molta attenzione alla comunicazione via posta elettronica perché è lì che ancora si giocano opportunità, profitti, scelte e fallimenti. Le relazioni asincrone in cui si fanno domande e si aspettano risposte e viceversa, da parte del destinatario, sono in grado di consolidare e fidelizzare clienti a fornitori e, allo stesso tempo, mandare in vacca vantaggiosi contratti, per questo è decisivo saper scrivere bene sia per farsi comprendere al meglio e non dare adito a equivoci ma anche perché esiste la possibilità che, dall’altra parte, ti legga uno come me che bada a come scrivi, oltre a cosa scrivi. Doppi spazi, è accentata e non con l’apostrofo, caps lock solo dove serve, spazio dopo la virgola e tutte le consuetudini adottate nella pratica della composizione tipografica che ormai sono regole piuttosto rigide. Senza contare l’uso della lingua italiana entry-level, ma questo, tra adulti, possiamo darlo per scontato (questa è una provocazione, ça va sans dire). Il fatto è che fuori dal proprio ambiente professionale c’è una giungla di mittenti di email – autodidatti o analfabeti di ritorno – che non si pongono minimamente il problema. A scuola, per dire, c’è da mettersi le mani nei capelli. Per fortuna c’è chi non ha intenzione di scendere a compromessi e scrive a colleghi e genitori con lo stesso tono con cui si rivolgeva ai CEO delle aziende del lavoro che svolgeva precedentemente. Gentile tizio o caio, consecutio e maiuscole dove serve, a capo e con una riga di spazio quando è necessario separare concetti, per qualsiasi chiarimento non esiti a contattarmi, grazie e a presto e tanti saluti (nel senso ironico, tanti saluti non bisogna mica scriverlo). Un formalismo da cui è fondamentale non allontanarsi nemmeno quando la controparte non coglie la superiorità sintattica e risponde con puntini di sospensione, perché con l’accento sbagliato e nefandezze di questo livello. Le email sono lo specchio dell’anima, la carta d’identità nel mondo delle carriere, la chiave in grado di aprire le porte del successo. Prima di premere invia, leggi bene quello che hai scritto. Se ti serve un correttore di bozze per la posta elettronica, sai dove trovarlo.

da stasera non arrivo in ritardo – day #51

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Come saranno i tormentoni dell’estate 2020? I più scaltri coreografi stanno mettendo a punto passi di reggaeton pensati per il social distancing che, per la gente del calibro di Enrique Iglesias, si chiamerà distanciamiento social. Niente più strusciamenti di corpi ma body language da videoconferenza. Mi sentite tutti? Mi vedete tutti? Non dovete però sentirvi soli, gli unici esseri umani a disagio reclusi nella manciata di metri quadrati che vi siete potuti permettere. E allora gli ergastolani? Certo, noi non abbiamo commesso nessun delitto. Le principali testate di vita all’aperto stanno rimettendo mano alla loro ragione sociale. Viaggi e vacanze lasciano il posto a poltrone e divani. L’importante è stare bene. Non uscire, non ancora. Stay hungry, stay a casa. La risposta a “Dove e quando” di Benji e Fede non la sappiamo ancora dare.

effetto presenza – day #50

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C’è gente che pratica il social distancing da sempre ma non ce ne eravamo mai accorti. Ci sono le persone sole che stanno riempendo il web di video-tutorial spiegandoci come si fa a tirare avanti senza relazioni interpersonali con la gente in carne e ossa: farsi la barba ogni mattina, vestirsi decorosamente anche se non ci vedrà nessuno, evitare libri e film deprimenti, limitare il consumo di alcolici al fine settimana, rispettare i requisiti standard per le attività conviviali consumate in autonomia (mi riferisco a non pranzare e cenare solo con panini davanti alla tv, sul divano o nel letto che si riempie di briciole, variare i piatti, apparecchiare tavola, evitare i cibi industriali, cercare di non mangiare troppo in fretta, sparecchiare al termine). Le persone che non avevano provato mai prima d’ora l’ebbrezza del remote working si dicono soddisfatti dell’esperienza e sperano che la pratica possa essere mantenuta anche in tempo di pace, ops scusate il lapsus, non siamo in guerra con nessuno, intendevo in situazioni di normalità. Sempre che tutto torni come prima. I ragazzi come diventeranno? Come sarà per loro riprendere ad alzarsi malvolentieri alle sei del mattino per fare colazione, prendere i mezzi, trovarsi con i compagni davanti al liceo, annoiarsi in classe? Poco fa in radio hanno passato “Another brick in the wall” dei Pink Floyd e per un attimo ho pensato che quando dice “Hey! Teachers! Leave them kids alone!” si potesse tradurre con “lasciate i ragazzi da soli” ma poi il solito Google mi ha smentito. “Lasciate stare i ragazzi!”, questo è il giusto monito. Anche volendo, non c’è pericolo. In cameretta al computer ascoltano i loro docenti pontificare scambiandosi impressioni sottobanco al telefono con i compagni. Le giornate sono reti fitte di collegamenti che non si vedono, pagate con canoni mensili, che se potessimo rappresentare graficamente le disegneremmo come impalcature a strapiombo su un vuoto sociale, attraverso le quali arrampicarsi rischiando la propria stabilità e mettendo alla prova l’equilibrio per raggiungere la postazione del nostro migliore amico o della compagna di classe che ci fa trascorrere notti insonni, ognuno accampato su un’isola deserta, una specie di palcoscenico con dietro le quinte in cui ciascuno ha accatastato alla bell’e meglio la sua vita.

qualcosa da imparare – day #49

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Il mantra di questo eterno weekend è approfittare dei tempi mortissimi per imparare qualcosa che non si ha mai avuto l’opportunità di fare. La mamma di Matteo mi ha scritto per chiedermi di suggerirgli un tutorial base di flauto dolce per il figlio, dal momento che non hanno fatto in tempo a portare a casa il pianoforte che è dai nonni e il flauto è l’unico strumento che hanno a disposizione. Dalla mia posizione non posso certo rispondergli per dirgli che il flauto dolce è in grado di far odiare la musica anche al più sensibile degli animi, un ampio spettro di persone che sicuramente comprende anche il loro Matteo. Piuttosto è decisamente meglio ascoltare canzoni, imparare a cantarle, ballare. La pratica del flauto dolce trasmette la convinzione errata che la musica sia una successione di note traballanti, incostanti, sempre in bilico e che fanno accapponare la pelle. I più dotati di orecchio vedranno normalizzata la loro selettiva percezione della precisione delle frequenze e si adatteranno a un riconoscimento più sommario delle note generate da uno strumento giocattolo maneggiato con una tecnica meno che entry-level. Nel loro temperamento prenderà corpo la convinzione che il suono sia una componente forzata, artificiale e sgradevole della natura, e che soffiando l’aria in un tubo succede sempre qualcosa che genera fastidio. Ma, a parte questo, invidio moltissimo chi riesce a sfruttare questa stasi istituzionalizzata per aggiungere valore a sé con nuove competenze per superare il prossimo. Io non riesco a combinare un cazzo e non riesco proprio a metterci la testa. E mi è capitato di nuovo di seguire “Passato e presente”, la trasmissione di storia condotta da Paolo Mieli. I ragazzi che tengono testa ad Alessandro Barbero mi sorprendono ogni volta. Come mi sarebbe piaciuto diventare così. Io alla loro età bevevo birra nei locali nell’attesa che mettessero “Should I stay or should I go”.