grazie a noi

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La cantante canadese di origini centrafricane Lavon Lake, nome d’arte di Juno Habibou, non ha certo un riscontro mondiale anche se, non sono solo io a dirlo, meriterebbe di più. Il suo album di debutto dello scorso anno ha avuto diverse recensioni positive sui magazine di musica alternativa specializzati e il nuovo lavoro, uscito da qualche settimana, la ha consacrata artista di nicchia, un po’ come tutti noi. Per farla breve, non sarei in grado di applicare la discussa formula segreta che si usa oggi per attribuirle il corretto indice di successo, quel complesso algoritmo che gli addetti ai lavori si tramandano di padre in figlio e che mette insieme le copie fisiche dei dischi venduti, le moltiplica per la costante di duplicabilità, eleva il risultato alla potenza di scaricamento e condivisione fratto la percentuale di click sui video di Youtube per la radice quadrata della presenza nelle playlist di Spotify diviso due più la media al minuto dei passaggi alla tv. I critici musicali di seconda categoria, compresa la redazione di questa testata, si limitano a tener conto dei fatti e a dare fiducia alle dichiarazioni dei protagonisti della scena musicale contemporanea. Quello che ci piace di Lavon Lake è che ha dichiarato di avere una database con tutti i cognomi e i nomi delle persone nel mondo che hanno in casa uno dei suoi dischi e che lei, a ragione, considera fan, oltreché gente speciale. Voglio dire, se io conoscessi te che in questo momento stai leggendo questa storia – inventata di sana pianta – mi verrebbe da stringerti la mano anzi no che c’è il coronavirus. Non potrei nemmeno abbracciarti ma vorrei tanto conoscerti, sapere chi sei, cosa vorresti di bello per la tua vita, cose così. Lavon Lake si preoccupa molto per i suoi ascoltatori – in un’intervista a un’emittente radiofonica di Austin ha confermato essere circa 4mila in tutto il mondo – e non si esime dal considerarli una grande famiglia allargata con cui ha condiviso cose molto intime della sua vita. Gli artisti hanno questa peculiarità di rendere pubblica la propria vita, resa attraverso modalità meno convenzionali rispetto ai canali standard che persone come me e voi utilizzano. Il fatto è che anch’io sono un estimatore di Lavon Lake, ho entrambi i suoi dischi su vinile, e so che alcuni miei dati sensibili sono contenuti nella sua lista di contatti. Se le faccio un complimento su Instagram mi risponde all’istante, per dire. Si interessa di quello che fanno tutti, di come va la loro, anzi, la nostra vita, se in questo momento claustrofobico riusciamo comunque a evadere dalla nostra scatola in qualche modo. Ascoltando la sua musica o quella di qualcun altro o raccontando storie come le sue.

la società delle decisioni

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La mamma di Marta lavora all’ufficio delle decisioni. Marta sa che quando i suoi amici o gli insegnanti le chiedono «Marta, che lavoro fa la tua mamma?» lei deve rispondere che lavorare all’ufficio delle decisioni non vuol dire prendere delle decisioni. La mamma di Marta fa l’impiegata e immette dei dati in un computer a seconda delle decisioni che prende chi dirige la società in cui lavora. Ma le decisioni che la società della mamma di Marta deve prendere, e che la mamma di Marta scrive nel computer, a volte sono decisioni anche importanti. «Cosa farò da grande?», chiedono i clienti di quella società. «Meglio comprare questo modello di lavatrice o quell’altro?» «Gianfilippo è l’uomo della mia vita?».

Di decisioni come queste, la mamma di Marta non sempre viene a sapere. Il responsabile dell’ufficio delle decisioni passa alla mamma di Marta un codice. La mamma di Marta digita il codice sul computer e poi immette la risposta che le viene trasmessa da chi, nella società, ha preso quella decisione. «Il ragioniere». «Il secondo modello ha un miglior rapporto qualità/prezzo ed è di classe energetica più efficiente». «Lascialo perdere, è un lazzarone».

La mamma di Marta legge le risposte, clicca sul quadratino a fianco di quella che gli hanno detto esser quella corretta, e poi clicca su invio. Quindi passa alla pratica successiva: apre una nuova pagina del programma che usa, immette il codice, verifica la risposta da inserire, clicca invio e la pratica si chiude. Da qualche parte nel mondo, un altro cliente della società in cui lavora la mamma di Marta ha preso la decisione giusta.

La società delle decisioni in cui la mamma di Marta fa l’impiegata non fa dei favori ai suoi clienti. I clienti pagano perché qualcuno prenda per loro una decisione difficile. Un po’ come la banca che investe i risparmi dei correntisti che custodisce, o le assicurazioni che prendono le difese di chi fa un incidente in cambio di una quota. Il costo delle decisioni cambia a seconda delle conseguenze che una decisione può avere. «Metto la cannella o il cacao sulla panna?» è una decisione che costa pochissimo. In inverno, quando sono pochi a mangiare il gelato, è sempre in offerta speciale. Dopo le vacanze di Natale, quando tutti i negozi fanno i saldi, salgono alle stelle i prezzi di decisioni come «Vado al liceo classico o al liceo scientifico?» perché tutti i ragazzini che frequentano la terza secondaria di primo grado devono pre-iscriversi alla scuola del nuovo corso. Potete immaginare, in primavera, quanto costa una risposta alla domanda «Mare o montagna?», in vista delle vacanze.

Marta sa però che la sua mamma è molto brava nel suo lavoro. Ogni tanto le racconta di quando riesce a origliare dalle porte dell’ufficio dei responsabili delle decisioni e sente cose buffissime. Nelle pause caffè, la mamma di Marta e suoi colleghi si divertono a simulare come avrebbero risposto loro alle scelte più bizzarre di cui hanno sentito discutere. Scelte di persone importanti e gente qualunque, poveri e ricchi, adulti e bambini, di ogni posto del mondo, gravi o sciocche, nuove fiammanti o di seconda mano.

porta consiglio

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Quando la sera, intorno alle 21:30, il mento mi cade sul petto e i membri della mia famiglia mi coprono di improperi per la mia oramai conclamata incapacità di giungere sveglio fino alla fine del film o del programma scelto in tv, e non c’entra nulla purtroppo il tipo di programma in sé, ripenso a quando facevo le ore piccole studiando e spavaldamente tiravo fino alle tre o alle quattro del mattino per preparare gli esami all’università.

Ne ho parlato con mia figlia, a cui l’emergenza Covid sta offrendo oramai da mesi la possibilità di vivere la scuola superiore per certi aspetti alla pari di un corso da grandi. Il fatto è che, pur nella illimitata autonomia applicata alla gestione del tempo, molti ragazzini restano legati ai moduli organizzativi standard retaggio della scuola vissuta in condizioni normali. Si frequenta la mattina, si studia il pomeriggio, ci si corica alla sera. Il lockdown ha imposto la rivoluzione dei tempi. Non è detto che le videolezioni si svolgano la mattina, che coprano una fascia della giornata completa come prima, e che ne derivi il pomeriggio da dedicare alle attività.

Consiglio spesso a mia figlia di farsi un caffè e studiare dopo cena. Mettersi sui libri con il buio ti permette un punto di vista diverso sulle cose da apprendere. Di sera, si sa, siamo più indulgenti e più morbidi. È facile lasciarci persuadere, mettere da parte pregiudizi e convinzioni, scendere a compromessi, accettare confronti. I saperi, le informazioni, le formule, la storiografia, la critica, persino le date e la matematica si prestano al gioco e si inseguono intorno alla nostra testa come quelle abat-jour che avevamo da bambini, con i protagonisti delle favole che in un film in loop mimano ruotando un adattamento della loro storia per lampadina e ombra.

Studiare di notte permette poi di fare qualche pausa con la musica in cuffia con i programmi di Stereonotte (anche se credo non esista più da tempo), una sigaretta alla finestra anche se è meglio non fumare, uno spuntino di mezzanotte. Il mio record? Sfruttare la notte precedente all’esame per un ripasso finale di tutto il programma, spegnere la luce della scrivania alle 6.30, doccia, colazione, treno (facendo attenzione a non crollare in extremis) e poi in pasto alla commissione, con ottimi risultati. A prova terminata ricordo l’effetto psichedelico da crollo della tensione e il trascinarsi fino a casa per dormire, senza sosta, sino al giorno successivo.

le avventure del signor Gioacchino: il signor Gioacchino e l’auto più grande che c’è

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Il signor Gioacchino vuole comprare un’automobile grandissima e partire per una bella vacanza. Così un sabato mattina si mette un bel completo blu e va al negozio di automobili del centro.
«Buongiorno», lo accoglie il concessionario, «in che cosa posso servirla?»
«Voglio cambiare l’automobile», risponde il signor Gioacchino, «mi mostri l’automobile più grande che ha».

Il proprietario del negozio di automobili apre una porta e lo conduce in una sala gigantesca. «Che enorme garage!», esclama il signor Gioacchino. «Questo non è un garage», lo incalza il concessionario, «questo è il nostro show-room». Dietro a modelli di tutti i colori e le forme, il Gioacchino vede un’automobile color canna di fucile, grande tre volte tutte le altre.
«Ecco l’automobile più grande del nostro catalogo», dice l’addetto alle vendite. «Può provarla, se crede».

Il signor Gioacchino si arrampica sulla scala di acciaio, apre lo sportello e si mette al volante. Poi si guarda intorno e ammira l’abitacolo. Lì dentro ci potrebbero giocare una partita di calcio, tanto è ampio lo spazio a disposizione. Armeggia un po’ con i comandi, fa una smorfia nello specchietto retrovisore, e poi scende.
«Mi piace», dice il signor Gioacchino appena rimessi i piedi sul pavimento del garage che poi è uno show-room, «ma vorrei qualcosa di più grande». Così, sotto gli occhi sorpresi del concessionario e dell’addetto alle vendite, prende e se ne va.

Il secondo negozio di automobili è alle porte della città, e per raggiungerlo decide di prendere il tram. «In periferia i negozi sono più grandi», pensa il signor Gioacchino, «e sicuramente vendono automobili più grandi». E le premesse non tradiscono le sue aspettative: nel negozio di automobili di periferia non c’è lo show-room ma una maxi-esposizione.

Il pezzo forte della maxi-esposizione è un’automobile che, vista da fuori, sembra la fabbrica delle automobili che vede sempre alla tv. «Cominciamo a ragionare», dice il signor Gioacchino alla Responsabile Clienti mentre chiama il montacarichi che conduce allo sportello dell’automobile grande quanto uno stabilimento. Da lì, per raggiungere il posto di guida deve prendere uno scooter e, nel tragitto, il signor Gioacchino osserva con interesse quell’area sconfinata che, a occhio, potrebbe racchiudere un’intera città. Il cruscotto sembra quello di un’astronave di un film di fantascienza e il clacson fa tremare il suolo fino al paese vicino.

Terminato il sopralluogo, la Responsabile Clienti, sicura del fatto suo, chiede al signor Gioacchino se voglia concludere l’acquisto. Il signor Gioacchino dà un’ultima occhiata all’automobile grande come una fabbrica di automobili ma tanto ha già deciso. «Mi spiace ma non è ancora abbastanza grande come la vorrei».

L’ultima speranza per il signor Gioacchino è trovare un’automobile grande come la vuole lui nella gigantesca città mercato che si estende oltre la periferia. Il signor Gioacchino prende il treno e poi, con un taxi, raggiunge la città mercato. Nella città mercato si affida al servizio di navette interne gratuite e, dopo quasi un’ora, finalmente fa l’ingresso nel dipartimento delle automobili. «Mi faccia vedere l’automobile più grande che ha», si rivolge al receptionist che, in un lampo, gli affianca uno steward a bordo di una specie di macchina volante e insieme raggiungono un hangar che contiene un’auto dalle dimensioni inimmaginabili. «Questo modello è appena stato immesso sul mercato e sono convinto che la soddisferà».

Gioacchino si fa trasportare fino alla portiera del guidatore e, una volta dentro, rimane strabiliato. Quell’auto è davvero enorme, è il mezzo di trasporto più grande che abbia mai visto in vita sua. Prova ad esplorarlo e, passo dopo passo, chilometro dopo chilometro, si accorge che quell’automobile è grande come il mondo. Raggiunge i sedili posteriori, si affaccia dal finestrino e vede una prateria africana. Si sporte dall’altro ma lo chiude subito perché fuori c’è il Polo Sud e fa molto freddo. Il portellone sul retro dà su Central Park mentre il tettuccio apribile offre uno scorcio di un atollo nell’Oceano Pacifico. Quella è l’automobile che fa per lui.

Così, per tornare in fretta dallo steward e concludere l’affare, prende un volo di linea e atterra proprio nell’ufficio commerciale. «Sono contento che la nostra automobile sia di suo gradimento», dice lo steward porgendogli il contratto da firmare. «Devo dire che ho trovato quello che fa per me», risponde il signor Gioacchino stringendogli la mano. «Finalmente ho un’automobile grande abbastanza per partire per una bella vacanza».

fase e controfase

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Finito il conteggio dei giorni della fase uno siamo tutti molto meno rigorosi nella definizione del momento in cui ci getteremo tutto alle spalle, per non parlare dell’uso dei dispositivi di sicurezza al di fuori della nostra bolla. Con i miei contatti di Facebook, se devo essere sincero, non ho mai indossato né mascherina né guanti perché sono sicuro che nessuno di loro rilascerebbe dichiarazioni come quelle che girano sulla liberazione di Silvia Romano. Mi muovo sul mio profilo con la massima disinvoltura, consapevole che il rischio di contagio R(0) con le brutture del mondo esterno è ridotto ai minimi termini. C’è qualcuno che rilancia le sparate di qualche miserabile che sputazza chissà dove la sua deprivazione culturale senza nemmeno mettersi l’incavo del gomito davanti all’orifizio, e ogni volta mi chiedo che bisogno ci sia di tenere nel proprio giro di contatti gente con cui non si ha nulla da spartire. Gli assembramenti, peraltro, sono vietati, quindi dovreste venire via dalla folla e condividere le vostre opinioni il meno possibile. Io ho più di 700 amici, su Facebook, ma nessuno che scriva mai assurdità come quelle contro le quali vi accanite. Quindi grazie a tutti per essere come me, metallari a parte.

di senso compiuto

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In 53 anni ho dato solo una festa per il mio compleanno. Anzi, sarebbe più giusto dire ho partecipato a una sola festa in cui il festeggiato ero io, una festa nel senso di vero e proprio appuntamento con tante persone convenute per quello, le bibite e la torta con le candeline. Compievo (o compivo?) 11 anni, frequentavo la quinta elementare, c’era la classe intera invitata e l’organizzazione fu tutto merito di mia mamma. Le conseguenze furono disastrose. Vicini di casa sul piede di guerra, tornei di gioco della bottiglia a gironi all’italiana ospitati nei diversi ambienti della casa, con grave disappunto a posteriori dei genitori dei miei compagni. Senza contare che, a parte qualche amarissima limonata con Luisa e altre smancerie di cui non capivo ancora il senso, ricordo che non mi divertii per nulla e probabilmente è per quello che non mi sono mai più lanciato in un’esperienza di quel tipo in cui trovarmi al centro di una massa di coetanei per giunta sempre più grandi e pericolosi. Quest’anno pensavo però di ritentare l’esperienza in videoconferenza. Magari con gli stessi invitati di allora e una torta con 53 candeline.

famiglia allargata

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Ho scritto a fianco dei voti – che poi sono tutti 10 – che mi sembrava un modo per premiare l’aver tenuto botta in una situazione in cui qualcuno sarebbe potuto tranquillamente uscire di testa. Un voto che, da un punto di vista meramente semiologico, è un segno di sintesi di quello che ogni famiglia è riuscita ad allestire per mantenere il figlio in equilibrio, sui binari giusti. Manca ancora un mese ma il più è stato portato a termine e ogni mamma che si è seduta accanto allo studente per aprire la pagina del libro con un numero che non abbiamo ancora fatto, ogni papà che ha puntato il dito nello spazio giusto in cui scrivere il risultato, ogni sorella maggiore che ha suggerito la risposta giusta, ogni fratello più grande che non ha fatto dispetti al fratello più piccolo mentre cercava la matita rossa nell’astuccio, merita il massimo. A me non interessa se i miei alunni abbiano imparato da me, abbiano imparato da un parente, non abbiano ancora imparato. Il fatto è che ci siamo riusciti. Siamo arrivati al traguardo e, in famiglia, quest’estate si guarderà a Google come un gigante buono che – magari prendendosi qualche informazione sul modo in cui passiamo il tempo – ha costruito ponti virtuali per stare insieme, raccontarci qualche esperienza, ripassare qualcosina di quanto svolto in classe, assegnare dei compiti, inventarci attività da fare a casa. Ecco, non ho scritto tutta questa roba, a fianco dei voti. Ma il senso è questo. Ci siamo impegnati a confondere tutti gli stakeholder della scuola in modo che nessuno andasse nel panico per una situazione poco meno che paradossale. Grazie alle famiglie per averci lasciato credere di esserci riusciti.

ecco perché si dice per il rotto della cuffia

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Probabilmente è un problema mio perché, quando corro, sudo come un maiale. Però mi risulta difficile capire il motivo per cui gli auricolari che indosso per gli allenamenti – molti dei quali pubblicizzati come articoli fabbricati ad hoc per lo sport e quindi resistenti all’acqua e al sudore – mi durano così poco.

Sapendo di infrangere la privacy degli ordini effettuati su Amazon, e non potendo tracciare altri prodotti acquistati dal vivo in negozio nel corso degli ultimi dieci anni, ecco qui sotto una lista non completa di tutte le cuffie che mi sono durate pochissimo e che, di conseguenza, sconsiglio a tutti i runner cialtroni come il sottoscritto.

Invito il mio pubblico a suggerirmi valide alternative perché, dopo il più recente degli insuccessi consumatosi nei 10km di stamattina, mi accingo a comprare l’ennesimo paio di cuffie, preferibilmente bluetooth, preferibilmente che non costino un occhio della testa considerando il ciclo di vita risibile, preferibilmente in grado di garantire un’esperienza di ascolto piacevole (quindi con i bassi e tutto il resto), preferibilmente che durino almeno un paio di anni. Corro un paio di volte a settimana in inverno, 4/5 volte in primavera ed estate. Valuto, ovviamente, articoli in prova che poi non restituirò mai. Grazie.

Bagotte Cuffie Bluetooth ORDINE EFFETTUATO IL: 15 luglio 2019 – TOTALE EUR 19,99

Mpow Auricolari Wireless IPX7 Bluetooth 4.1 Stereo ORDINE EFFETTUATO IL: 28 settembre 2018 – TOTALE EUR 18,99

Adorer Auricolari Sport RX6 Stereo In-ear Auricolari con Microfono ORDINE EFFETTUATO IL: 16 aprile 2018 – TOTALE EUR 11,90

Sony MDRAS210 Cuffie Intrauricolari Sportive, Resistenti a Umidità e Spruzzi ORDINE EFFETTUATO IL: 15 luglio 2017 – TOTALE EUR 9,00

Soul Flex Cuffie Over-Ear ad Alte Prestazioni ORDINE EFFETTUATO IL: 24 febbraio 2017 – TOTALE EUR 22,94

AUKEY® Auricolare In-Ear Stereo Universale, Cuffie Moving-coil Headset con Microfono, Design avanzato per Enhanced Bass (Bassi Rafforzati) ORDINE EFFETTUATO IL: 29 marzo 2016 – TOTALE EUR 10,98

Philips SHS 3200 Auricolare ORDINE EFFETTUATO IL: 18 giugno 2013 TOTALE EUR 12,55

bella senz’anima – day #70

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Provate a farvi una birra solo con il boccale, senza niente dentro. Oppure a salire in macchina e stare fermi perché manca il motore. Fumare una sigaretta spenta, che sicuramente è più salutare di una sigaretta accesa ma questo è un altro discorso. Correre sul posto. Seguire una serie su Netflix con la smart tv scollegata da Internet. Ho sentito colleghi insegnanti lamentarsi della stanchezza di fine anno, che è un classico del nostro lavoro, che questa volta però ha cause diverse dal solito. Passiamo ore e ore al computer, dicono in molti, e il nostro sembra esser diventato un lavoro come tutti gli altri, quelli degli impiegati che stanno seduti intere giornate a inserire dati su fogli elettronici o a compilare testi in Word. Ecco, il lavoro che svolgevo prima di fare il maestro era più o meno così. Molto creativo, certo, ma che imponeva i ritmi tipici dell’ufficio. Quando sono entrato in classe la prima volta ho capito che la mia vita era cambiata. Il mestiere del docente si svolge per un buon 70% tra i banchi e il resto in back-end a organizzare lezioni, correggere compiti, cercare attività interessanti per variare l’esperienza didattica degli alunni, aggiornarsi, provare cose nuove, programmare, confrontarsi con i colleghi, sbrigare scartoffie burocratiche con la segreteria, la direzione, l’ufficio scolastico. Scevro di quella corposa componente fatta di facce, voci, corpi, odori, emozioni, tragedie, successi, discussioni, soddisfazioni, gioie, tensioni e relazioni che resteranno per sempre, che è poi più o meno quello che è successo quest’anno, la scuola perde il bello della scuola e diventa un lavoro come tutti gli altri, uno dei tanti che dopo un po’ ti rompi i maroni e ti pesa farlo. Stare al computer a fare lezione e a prepararle c’entra poco con la scuola e, dopo un po’, diventa davvero una professione ordinaria, piatta, monotona, standard e fredda. A me, così, non piace. Non so a voi.

i robot – day #69

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L’annuario degli artisti morti ha una nuova figurina, da oggi, quella di Florian Schneider dei Kraftwerk. La musica del quartetto di Düsseldorf è da sempre nelle mie corde, almeno da quando assistetti alla loro performance a un programma RAI. Ero poco più che bambino – “The Man Machine” è del 1978 – e i Kraftwerk si presentarono alla trasmissione mettendo dei loro replicanti seduti in platea – con una meravigliosa cravatta corredata da led luminosi – a contemplare i veri Kraftwerk che si esibivano in un playback da manuale sul palco. Avevo già il disco, che fa parte da allora della mia collezione, e il messaggio mi arrivò forte e chiaro: il mio destino sarebbe stato l’elettronica. Che poi non è stato proprio così, ma è bello raccontarlo facendo finta che sia vero, tanto non ci conosciamo di persona.

Se scartabellate su Youtube comunque potete rintracciare la prova che c’è stato un tempo in cui Schneider e soci non erano per niente dei robot ma ci davano dentro con strumenti tradizionali, pur facendo musica avanti anni luce. Il punto è che il loro modo di usare i synth e gli strumenti per la composizione automatica di ritmi non è mai stato in linea con il resto delle band ascrivibili alla musica elettronica. Anzi, mi verrebbe da dire che i Kraftwerk sono tra i pochi a suonare musica elettronica mentre tutti gli altri applicano l’uso di strumenti elettronici a generi tradizionali come il rock. Prendete i Depeche Mode, tanto per fare un nome.

I Kraftwerk li ho visti dal vivo a Villa Arconati, nel 2005. L’impressione è stata quella di assistere a quattro ingegneri sul palco che, con il loro notebook, controllavano la posta elettronica mentre da tutto il resto dello spazio che ospitava lo show si propagavano le sequenze dei loro brani. E, attenzione, non si tratta di un giudizio riduttivo: questo è come dev’essere un concerto di musica elettronica. Diffidate dai suonatori di sintetizzatore che interpretano quello che eseguono come un chitarrista qualsiasi. Vuol dire che non hanno capito nulla o semplicemente fanno finta, per comprensibili motivi commerciali. I suoni di quel capolavoro di modernismo che è “The Man Machine” non sono altro che le emissioni di entità artificiali. Nessuna corda che vibra, nessuna pelle che risuona, soltanto circuiti, silicio, chip, bit, linguaggio macchina e una spruzzatina di radioattività.