sacro

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Gli ospiti sorseggiano un ottimo caffè servito in un set di tazzine acquistato a Parigi dieci anni fa, un modello pensato per i francesi che rincorrono l’espresso con una pasta in mano acquistata a parte in una boulangerie di lusso fino nei bar della capitale gestiti dai più lungimiranti imprenditori della ristorazione italiana. Sono fatto così. Abbino le tazzine a piattini di un altro servizio perché usarle senza non è da tutti. Non sono un amante dei riti a tavola. Comunque sorseggiano il caffè poi si voltano verso il mobile del salotto che contiene l’impianto stereo circondato da una collezione di vinili invidiabile – ho la cucina a vista – ed è in quel momento che sentono di doverlo chiedere. «Che musica ascolti?».

Cala il silenzio. Il traffico fuori si ferma. La natura interrompe il suo ciclo. Mia moglie scambia qualche parola sottovoce con mia figlia, entrambe sanno che è una domanda sensibile alla quale non riesco mai a formulare una risposta convincente. Ogni volta si raccontano l’aneddoto dei genitori alla festa delle elementari che equivocarono i miei gusti indie per la musica degli indiani, quelli con gli zufoli che propongono riduzioni di pop stracciacoglioni su basi discutibili agli angoli delle strade delle città turistiche. Gli ospiti invece terminano l’ultimo goccio di caffè in piedi, osservano la mia collezione di vinili e chiedono «Che musica ascolti?».

Talvolta aggiungono particolari sul loro rapporto con i dischi. Quasi tutti gli ospiti posseggono ancora gli ellepì di quando facevano le superiori in scatole di cartone custodite in cantina. Quello, vorrei dirgli, non è collezionare vinili. Non è nemmeno amare la musica. Non è un cazzo, perché quella idea di musica è la stessa di un mobiletto che non serve più e che però non viene portato in discarica per pigrizia. Malgrado la digressione, la domanda resta ancora valida. «Che musica ascolti?».

Io non so mai da dove iniziare. Per semplificare comincio con i fondamentali: la new wave/post-punk, i Cure, i Joy Division, che comunque sono i nomi più alla portata di tutti. Mica posso citargli i Chemeleons, i The Sound o i Polyrock. Ma per non sembrare uno che si dà delle arie aggiungo nomi universalmente noti: David Bowie, i Talking Heads, per finire con i Genesis con Peter Gabriel. Una carrellata di nomi in grado di trasformare anche l’approccio più inclusivo di un interlocutore fino a poco prima sconosciuto che, bevuto il caffè, per scopi puramente commerciali cerca di condividere il suo mondo.

L’entusiasmo evapora dal suo volto perché è saltato totalmente il trait d’union. L’ospite, visibilmente deluso, risponde che no, lui ascolta funk e jazz, ed è per questo che ha chiuso i dischi in cantina, mi verrebbe da rispondergli. Non è musica che può averti preso perché non fa parte del tuo vissuto. Se fossi più giovane cercherei di salvare la situazione. Ora spero che l’ospite se ne vada, consapevole della mia superiorità.

nemiciamici

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Sempre più famiglie sperimentano la formula della convivenza domestica interspecie circondandosi di esemplari animali tradizionalmente ostili tra di loro, se non addirittura su gradi pericolosamente contigui della catena alimentare. Quello di cani e gatti è l’esempio più diffuso di ibridazione di contesto perché più a misura e alla portata dell’essere umano che popola le città e le sue zone limitrofe adibite a quartiere dormitorio, aree in cui si consumano le più estreme sperimentazioni di ripudio della collettività a vantaggio della riproduzione di ambienti ideali di abitabilità. Si tratta di un rapporto tradizionalmente conflittuale tanto da risultare oggetto di uno dei modi di dire più diffusi, declinabile a descrizione delle relazioni maggiormente soggette allo scontro. Il mondo è pieno di persone che sono come cane e gatto pronte a stanarsi, a inseguirsi, a fronteggiarsi, a intimidirsi attraverso i canali e gli atteggiamenti tipici della loro indole.

La compresenza tra cane e gatto nello stesso nucleo abitativo costituisce così una forzatura delle dinamiche del mondo animale volta a dimostrare quanto la mediazione umana sia in grado di controllare i regni concorrenti per stabilire il proprio dominio. L’intercessione dell’uomo tra due esemplari di specie così differenti costituisce una forma di pericoloso tentativo di innesto comportamentale nell’equilibrio naturale. Le conseguenze delle condotte promiscue poco convenzionali – vogliamo parlare di uomini e pipistrelli e no, Batman è inventato, il Covid-19 un po’ meno – sono la principale causa del diffuso sfoggio di pubblicazioni strappa-like sui social in cui cuccioli di cani e gatti giocano insieme, si fanno le coccole, dormono appiccicati, dividono il companatico, minano le convenzioni etologiche più standard, insinuano il dubbio che tutto sia possibile.

Un animalismo così estremo da fare il giro per portarsi all’altro capo del benessere delle bestie che ci sono più care, una manifestazione del nostro egoismo nell’abbinare coppie difficili da assortire se non svilite della loro essenza stessa di individui, se non addirittura della dignità. Quindi sappiate che no, ho già un gatto, e nessuno – tantomeno mia moglie e mia figlia – riuscirà mai a convincermi a prendere anche un cane.

sono uscito ma non mi è piaciuto

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Un giovane d’oggi a bordo di un monopattino elettrico senza manubrio con vistose scarpe da tennis multicolori e un paio di pantaloni dalla foggia di tuta da ginnastica/pigiama – quelli stretti in fondo con l’elastico sopra la caviglia – per poco non mi ha investito. Ero in coda fuori da un negozio Apple perché, per qualche ora, ho vagheggiato di acquistare un Macbook Pro 13” usufruendo dello sconto per gli insegnanti del 7% e dell’offerta di finanziamento in venti rate a tasso zero. C’era una grafica che portava in riparazione un computer fisso di quelli che hanno tutto dentro al monitor da centinaia di pollici, mai visto un monitor così grosso, e lo teneva in un borsone di plastica di un supermercato. Un signore era in coda con il padre anziano per riparare l’iPhone ma poi, quando ha capito che si poteva entrare uno per volta, hanno desistito. Quando è stato il mio turno l’inserviente ha imposto la stessa regola a me. Mia moglie è rimasta fuori e sono stato accompagnato dall’ingresso al bancone. Era una ragazza molto giovane, con gli occhi che risaltavano per il trucco sopra la mascherina e le unghie pittate e rostrate come si usano adesso. Tra la mascherina e la protezione in plexiglas non capivo nulla delle risposte che mi dava, così mi sono messo di lato per cercare di cogliere meglio quello che diceva. Probabilmente la vendita al dettaglio non ha ancora preso le misure con le nuove convenzioni per gestire la clientela, un equivoco che mi ha lasciato fraintendere la sua inesperienza per il commercio in tempi di pandemia con un approccio sbrigativo e di scarsa professionalità. Mi ha rifilato una sfilza di ostacoli all’acquisto, a partire dalla carta di identità di nuova generazione con il chip che non contiene le informazioni adatte a dimostrare la veridicità della professione dichiarata. Il fatto è che il modello di Macbook Pro, appena messo in commercio, non era ancora disponibile in negozio. Ho dovuto insistere per farmi dire che l’arrivo era solo una questione di giorni. Voglio dire, se fossi un addetto alle vendite è la prima cosa che direi a un potenziale cliente per convincerlo sulla tempistica irrisoria. Rientrando in auto sono passato davanti al mio ristorante cinese preferito con l’idea di dare un nuovo senso alla giornata, ma le serrande sono ancora completamente abbassate. Niente computer, niente noodles, niente felicità al di fuori delle mura di casa. Così ho stappato una birra, mi sono seduto sul balcone, e ho fatto altre tre o quattro cose tratte dalla routine consolidata di questa quarantena. Ho provato a uscire ma, davvero, non mi è piaciuto per niente.

la differenza

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A sei o sette anni la differenza è una cosa difficile. Preparo una scheda con un disegno di una fila di sette pennarelli, nella fila sotto ne disegno quindici ma ben allineati, in modo che quelli sopra coincidano perfettamente con quelli sotto e la differenza salti all’occhio. Facile scoprire dove ce ne sono più. Facile scoprire dove ce ne sono di meno. Ma quanti di più? E quanti di meno? Vedo i bambini cercare il punto in cui trovare la soluzione. La combinazione per spalancare il passaggio segreto. Sento le connessioni nelle loro teste ramificarsi anche se l’audio della videoconferenza gracchia per interferenze che sembrano mostri che stanno venendo a prenderci. Vedo la lucentezza negli occhi, la smorfia nel viso, il corpo che cresce proporzionalmente come se le cose da imparare fossero prede e i bambini le divorassero. Ma la risposta non esce ancora, è tutto troppo acerbo, non è la stagione adatta. Tenetela lì, mi verrebbe da dire. Tenetela lì questa cosa nuova. La useremo quando il tempo lo permetterà.

the final countdown

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Ed è un peccato perché gli ultimi giorni sono i più belli. Un po’ perché i ragazzi vedono le vacanze dietro l’angolo. Poi c’è quell’atmosfera da smobilitazione che non ha eguali. Se hai lavorato bene nel corso dell’anno puoi tirare i remi in barca perché i veri protagonisti sono quelli che devono recuperare per evitare il debito, ogni giorno qualcuno vive un dramma ma quella di chi ci mette troppo a carburare è una favola di insetti vecchia quanto l’uomo. Occhio però ai colpi di coda: la scuola è cinica e basta una distrazione per piombare nell’inferno dei voti rossi sul registro elettronico. Dalle finestre spalancate si sentono così tanti suoni e profumi che anche in periferia di Milano sembra di essere in Provenza. Le compagne di classe scoprono centimetri quadrati di epidermide in abbondanza e anche gli zaini si fanno sempre più leggeri. All’uscita il dubbio è se fermarsi al caldo con gli amici o cercare ristoro al fresco delle mura domestiche. Nelle località di mare si esce la mattina con il costume sotto e l’asciugamano in borsa ché non si sa mai. I ricchi raccontano i viaggi che faranno ai poveri che resteranno a casa sino a ferragosto. Ogni ordine, poi, ha i suoi riti e le sue scommesse da vincere e vede obiettivi diversi dopo l’ultima campanella a seconda dell’età dei frequentanti. Tutto è già passato: la gita, l’occupazione, la foto di classe, i buoni propositi già declassificati in obsolescenza a ottobre e gli attacchi di panico con gli insegnanti meno accomodanti. La pizzetta all’intervallo, il sudore negli spogliatoi, le risposte suggerite e le lacrime di chi non ce l’ha fatta. Gli ultimi giorni di scuola sono la diaspora di un popolo intero da una dimensione sociale verso una privata. Il tradimento al gruppo dei pari per il ritorno sotto l’egida famigliare, spalle voltate al tempo vissuto insieme per una stagione di cui tutti resteranno reciprocamente all’oscuro. Qualcuno in classe spiega, una voce risponde in modo corretto, fuori il cielo promette la libertà, si sente profumo di gigli, un altro anno è volato ed è sembrato infinito, allo stesso tempo.

contactless

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La pubblicità progresso sui rischi di una fase 3 all’insegna del ritorno della pandemia e che gira in tele in questi giorni di fase 2 è sufficientemente efficace. Il ricorso allo stesso alone viola dell’omologo spot sull’HIV risulta evocativo per lo spettatore perché trasmette il messaggio di eguale pericolosità ed è in grado di riportare l’attenzione ai medesimi livelli di necessità di prevenzione del rischio di allora. Nello spot il contagio parte dalla digitazione senza guanti di un codice a uno sportello automatico, un’operazione che ai tempi della tecnologia contactless potrebbe essere superflua. La riduzione dei canali attraverso i quali un virus può essere trasmesso passa anche da un cambio di paradigma nei termini degli strumenti adottati. Superare la necessità di pigiare tasti meccanici per immettere dati d’accesso, ai tempi delle carte dotate di banda magnetica per le transazioni via RFID e NFC, è il minimo, per non parlare delle numerose possibilità offerte dall’Internet delle cose: se posso aprire un cancello con un’app non dovrei avere problemi nell’inviare a un bancomat una richiesta di emissione di denaro. Che poi il virus possa avvinghiarsi a una banconota da 50 euro è un altro discorso ancora. Nel 2020 c’è ancora bisogno di cartamoneta? C’è davvero bisogno di contanti?

cosa resterà di questo covid 19

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In questi mesi di didattica a distanza abbiamo assistito e, probabilmente, partecipato in prima persona a numerosi dibattiti sulla scuola. Costretti a farne senza o per lo meno a viverla in un modo senza precedenti, orfani di quello che è un paradigma strutturale della nostra organizzazione sociale, ci è stata data l’opportunità di sperimentare quanto ci risulti insopportabile la sua mancanza. Per la prima volta abbiamo osservato l’ecosistema scolastico da una posizione opposta rispetto al solito e, per certi versi, privilegiata. Non potendovi entrare, per ovvi motivi di sicurezza, l’abbiamo studiato dal di fuori, da sopra, da sotto e da tutte le angolazioni possibili.

Ci siamo chiesti intanto se ci sia effettivamente bisogno di un’edilizia scolastica e se non risulti più consona un’architettura per grandi spazi e destination center adattata alle esigenze dell’istruzione. Luoghi in cui coltivare le relazioni tra studenti e studenti e docenti e relative attitudini anziché cattedrali adibite a cerimonie di investitura di saperi, palestre per il training preparatorio alla competizione sociale, teatri di ostentazione di disturbi della personalità, ammortizzatori sociali (sacrosanti) per professionalità a cui nessuna azienda conferirebbe alcun tipo di responsabilità, arene in cui esercitare poteri, indirizzare destini, marchiare a fuoco tramite giudizi soggettivi.

Abbiamo riflettuto sull’efficacia di un bombardamento a tappeto di cose da imparare senza nemmeno una tabella di marcia comprensiva di una fase in cui metterle in pratica per acquisirle davvero, prima di passare all’argomento successivo. I tempi dilatati hanno infatti imposto differenti priorità e chi ha applicato la propria routine metodologica agli strumenti della didattica a distanza ha dovuto riconoscerne i limiti (e chi non se n’è accorto probabilmente dovrebbe cambiare mestiere).

I genitori, spiando di nascosto o partecipando a fianco dei figli alle lezioni in videoconferenza, hanno avuto molte risposte sul mondo parallelo in cui i ragazzi trascorrono la maggior parte del loro tempo. Gli insegnanti, spiando i genitori mentre spiavano o partecipavano al fianco degli studenti, pure. Da genitori ci siamo chiesti se c’è bisogno che i nostri figli si sveglino alle sei e mezza per andare all’altro capo della città ogni mattina perché la vita – come facevano al tempo degli alberi degli zoccoli – inizia quando fa ancora buio e se davvero un tutorial su Youtube possa essere altrettanto efficace di un buon insegnante. Da insegnanti, ci siamo chiesti se c’è bisogno che i vostri figli debbano essere educati ad associare la formazione al sacrificio. Nel 2020 la vita è ancora un’esperienza di privazioni? Il mondo retto dall’economia impone che la vita sia solo sofferenza? E poi quando arriva il primo virus che ci impone di non mettere il naso fuori di casa, di non andare al ristorante, di non fare shopping, di non spendere il becco di un quattrino, come la mettiamo?

Ve lo concedo: è tutto vero, è tutto falso, è tutto il contrario di tutto. Continueremo a insegnare la letteratura in una lingua morta di duemila anni fa a ragazzi che avranno il tempo di leggere Paul Auster solo da vecchi. Gli studenti continueranno a riunirsi alle otto del mattino in un ambiente che, finita la scuola, non abiteranno mai più a meno che, a loro volta, non faranno i prof, da grandi, e troveranno gli stessi banchi con le scritte d’amore sotto e le LIM di prima generazione, quelle che se hai un notebook con l’uscita HDMI le puoi usare solo per appiccicarci i post-it di carta o come bersaglio per le freccette. Continueremo infatti a confondere la didattica con la tecnologia, anziché far confluire l’una nell’altra. Ci saranno le solite tre/quattro verifiche e interrogazioni alla settimana perché i ragazzi devono abituarsi a studiare sempre comunque tutti i giorni tutte le materie, e quell’idea di dedicare qualche giorno a fine di ogni mese in cui concentrare tutti i test resterà solo una puntata di uno di quei telefilm sui ragazzi americani.

Di questa esperienza così tragica, della bellezza dell’imparare senza stress, del fatto che la vita è uno stress solo quando arriva una pandemia che ti sottrae la gioia della vita in sé, dell’avere il tempo di cercare, riflettere, parlarne, discutere, divertirsi a imparare, resterà poco. Quasi nulla. Qualche videolezione inefficace registrata per errore e salvata nel cloud perché, ancora una volta, qualcuno ha confuso la didattica con la tecnologia.

facciamo con la nostra non presenza qualcosa di utile come la nostra presenza ci avrebbe permesso di fare

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La rivista GQ ha pubblicato qui un’intervista piuttosto interessante allo scrittore Richard Powers che, oltre ad aver vinto il Pulitzer 2019 della narrativa con “Il sussurro del mondo” che, se non l’avete mai letto, dovreste farlo subito, anzi, subito dopo aver letto questo post, è anche uno dei miei autori preferiti. Ho pensato di pubblicare qui la mia traduzione in italiano, spero che GQ non si arrabbi (ma se vi arrabbiate la cancello subito.)

Richard Powers: ecco come il virus ci ricorda che gli esseri umani non hanno il controllo di un bel niente.

Il romanziere vincitore del Premio Pulitzer racconta a Brett Martin di GQ la sua vita solitaria ai piedi delle Great Smoky Mountains, dove scrive (a proposito di un virus) e riflette sul momento che stiamo vivendo, inteso sia come una resa dei conti che come un’opportunità.

Lo scrittore Richard Powers si occupa di temi di stringente attualità come natura, tecnologia, isolamento, comunità e distanziamento sociale da tempi non sospetti. Ne “Il sussurro del mondo”, il suo romanzo vincitore del Premio Pulitzer 2019, un uomo cade vittima di un ictus e piomba in una realtà ridotta al pezzo di cortile che vede attraverso la finestra della sua camera da letto. Lentamente, lui e sua moglie si adattano a una conoscenza distorta, completamente incentrata sulla loro piccola porzione di mondo naturale. Imparano, come dice Powers, a vivere “con i tempi di un albero”. Ora che gran parte dell’umanità si ritrova rallentata e guarda fuori dalla finestra, quell’immagine, come gran parte del lavoro di Powers compreso in 12 libri, ci sembra più attuale e forte che mai. Richard Powers, 62 anni, vive da solo nelle Great Smoky Mountains in Tennessee, a pochi passi da alcune delle ultime foreste incontaminate negli Stati Uniti orientali. L’origine de “Il sussurro del mondo”, ha detto, è stata la sua “conversione religiosa” in presenza di una sequoia gigante, e c’è davvero qualcosa di mistico quando definisce il momento che stiamo attraversando come una resa dei conti, oltre che un’opportunità.

Che impatto ha avuto l’attuale crisi sul suo lavoro?

I romanzieri sono esperti di distanziamento sociale. Il nostro lavoro dipende da una buona dose di auto-isolamento. Ciò che è interessante ora è pensare alle persone che, al contrario, i vincoli li hanno subiti. Ho scritto “Il sussurro del mondo” come una specie di riflessione sulla tensione tra il modo di vivere guidato da ciò di cui abbiamo bisogno, ciò che siamo nella maggior parte del tempo – la vita dettata dalla smania di avere – e il modo di essere in sé, una comunità ben più grande che si estende oltre la vita mediata dalle merci. Ed è sorprendente vedere la rapidità con cui siamo stati costretti a passare dalla prima modalità alla seconda. È una immensa azione collettiva che stiamo intraprendendo. Pensiamo a tutte quelle persone che ora devono restare a casa, che devono trascorrere il tempo in un modo più tranquillo, che devono cucinare per se stessi e che si trovano in una realtà fatta di processi piccoli e ridotti, dopo aver trascorso la vita imbevuti da una cultura che dice: “Puoi diventare chi vuoi. Puoi andare ovunque. Tutto è a tua disposizione!”. Il fatto che tutto ciò sia stato spazzato via e che ci siamo trovati catapultati in questo altro modo di essere è, di per sé, un’opera d’arte.

Questo è di gran lunga il modo più generoso e ottimista in cui ho sentito descrivere la situazione attuale. La sfida tra questi due modelli si vede chiaramente nel dibattito sulla riapertura e ai livelli più alti del nostro governo.

Ovviamente. Voglio dire, si trovano in questa situazione a dare calci e a urlare. In ogni istante si vede l’ansia di Trump per cercare di invertire questo isolamento e tornare al modello di produrre e consumare. Nessuna minaccia al sistema è mai arrivata a questo punto.

Sembra che tu abbia tenuto d’occhio proprio questo tipo di situazione.

Ho trascorso sei anni a scrivere un libro per approfondire come una mentalità basata sulle merci sminuisca il significato e il prezzo che paghiamo per isolarci dal resto del pianeta vivente. Ma tratta anche della peronospora dei castagni, della grafiosi dell’olmo olandese, del minatore smeraldino del frassino, dei coleotteri della corteccia dei pini, tutte devastazioni che abbiamo inflitto ad altre specie, a volte con tassi di mortalità del 100%. Fortunatamente il nostro tasso di mortalità [in questa pandemia] è stato molto più basso. Abbiamo evitato per poco una catastrofe ma in pochi se ne sono resi conto.

Hai detto che, con “Il sussurro del mondo”, volevi creare un’opera in cui gli alberi stessi fossero i protagonisti. Riesci a vedere questo virus come un personaggio della storia in cui ci troviamo adesso?

C’è qualcuno che mette in dubbio il fatto che i virus siano addirittura esseri viventi. Ma in quanto agenti all’interno dei sistemi viventi, in quanto elementi attivi nelle relazioni ecologiche lo sono, eccome. Il virus, i vettori del virus e gli habitat da cui quei vettori sono stati guidati, fanno tutti parte di una grande storia che in genere non si fa strada nella letteratura. Siamo stati ipnotizzati dall’idea secondo cui abbiamo vinto la battaglia contro la natura, che l’unica storia moderna rimasta – l’unica storia drammatica e interessante – sia la nostra battaglia con noi stessi, gli uni con gli altri e con i nostri demoni interiori. Questo è ciò che la letteratura è diventata. Il coronavirus ha ribaltato rapidamente questa idea secondo cui viviamo in un mondo completamente a misura d’uomo, dominato dall’uomo, controllato dall’uomo e che tutte le storie debbano riguardare fondamentalmente noi stessi. Non abbiamo nemmeno iniziato a considerare i modi in cui questo concetto può andare in pezzi negli anni a venire. Ne abbiamo avuto un buon assaggio ma il problema è che quando questo virus sarà finito ce ne sarà un altro. Affinché la letteratura capisca chi siamo, come siamo arrivati ​​qui e dove stiamo andando, come sopravvivere intrappolati qui sarà la parte più piccola del problema. La parte più grande sarà come incorporare la realtà di questa situazione nella storia che stiamo raccontando di noi stessi e del nostro ruolo qui.

A fronte di ciò, è moralmente lecito scrivere un libro che non riguardi questa emergenza? Un dramma domestico? Una commedia? Un libro sul baseball?

Non pretendo che ogni opera che verrà fuori da questo momento debba fare riferimento esplicitamente all’emergenza che stiamo vivendo, ma penso che questa situazione metterà alla prova in qualche modo tutto il processo creativo. La domanda sarà: questa espressione artistica fa parte del nostro isolamento? O in qualche modo si collega a un più ampio progetto di riabilitazione? A chi chiede: “Che tipo di storie possiamo raccontarci per farci ricondurre a un senso di comunità?” rispondo che uno spettacolo comico lo fa certamente, perché la commedia e la satira sono i grandi modi che abbiamo a disposizione per dirci che abbiamo dato un significato a una cosa che non ne aveva, abbiamo preso una cantonata, abbiamo pensato a noi stessi in un modo ridicolo e insostenibile.

Qual è la tua routine quando scrivi?

Per la maggior parte della mia vita il rituale è stato di cominciare alle sette o alle otto del mattino e lavorare per cinque o sei ore, fino a quando non avessi avuto mille parole di cui andare orgoglioso. Poi dedicavo il pomeriggio a leggere, a modificare quanto scritto o uscire. È cambiato un po’ da quando mi sono trasferito nelle Smokies. Ora la mia routine dipende da cosa sta facendo il mondo: che tempo fa, la stagione, quanto sono alti i fiumi, cosa sta fiorendo. Quando vivi così, il tuo lavoro diventa più convincente ed efficiente. Se comincio a camminare nei boschi, di solito vengo sopraffatto dalle idee. Devo sedermi sul sentiero, con un quaderno. Non ho più provato la sensazione di far fatica a svolgere il mio lavoro. Prima dicevo che senza aver ottenuto le mie mille parole mi veniva ansia. Ora dico che mi viene se non riesco a farmi una lunga camminata.

E tutto questo è un cambiamento delle ultime settimane?

I miei giorni adesso sono simili, l’eccezione è quando non riesco a fare un’escursione di 15 miglia. Il virus ha colpito all’inizio della primavera negli Appalachi, quando spuntano i fiori effimeri di stagione: centinaia di specie che germogliano e germogliano e fioriscono in un paio di settimane. Esauriscono il loro intero ciclo di riproduzione prima che gli alberi inizino a mettere le foglie, ed è assolutamente sorprendente. Percorrere quei sentieri è stata la mia salvezza nelle prime settimane, un promemoria della vitalità della vita, così diversa dal panico e dalla disperazione che si stava diffondendo nel mondo degli esseri umani. Quindi il National Park Service ha deciso per la chiusura del parco: tutti sarebbero venuti qui per mettersi in salvo e avremmo avuto Times Square a Cades Cove. La mia reazione iniziale è stata di disperazione, persino di rabbia. Avevo perso ciò che mi faceva stare in salute. Ma poi ho iniziato a pensare che ci sarebbe stato mezzo milione di acri liberi dalla presenza umana per la prima volta in secoli. E ho pensato che fosse fantastico. Questo è bello. Facciamo con la nostra non presenza qualcosa di utile come la nostra presenza ci avrebbe permesso di fare.

Sei ancora in grado di raggiungere quegli stati di apertura creativa che hai appena descritto?

Posso uscire di casa. Posso guardare fuori dalla finestra. Più di ogni altra cosa, posso visualizzare e ricordare. Mi viene in mente una citazione di John Muir: “Sono uscito solo per una passeggiata e alla fine ho deciso di stare fuori fino al tramonto, perché uscire, ho scoperto, era come entrare da qualche parte.” Ora dobbiamo tutti scoprire la reciproca qualità di quell’aforisma: dobbiamo scoprire come rientrare può essere un modo per uscire.

Per tornare a cose concrete, riesci a scrivere le tue mille parole?

Ci vado molto vicino. Anche la lettura forzata è stata un grande vantaggio. Penso che molti di noi abbiano pensato: non sarebbe meraviglioso essere costretti a casa per un po’, a leggere quella pila di libri? Sto ristabilendo anche i contatti con vecchi amici. È una cosa che sento da molte persone. Siamo tutti abbastanza scossi da dire all’improvviso: “Voglio riallacciare i rapporti che si sono interrotti”. Siamo tutti un po’ sconcertati, che è una bella parola perché significa che siamo stati resi di nuovo selvaggi.

Come si riesce a lavorare con la paura e l’ansia?

Questa è una questione di vita o di morte per gran parte del paese e non può essere trascurata. Non ne usciremo con lo stesso grado di disinvoltura o di indifferenza volontaria sulla grande percentuale del nostro Paese le cui vite sono così vulnerabili. Ma c’è anche uno strano senso di vitalità a cui ho assistito: ho visto persone attingere a bacini creativi.

Credi che sopravviverà una volta finito questo momento?

L’umanità non esce mai dalle calamità nel modo in cui vi entra. Penso che questa sia la fine del capitalismo? No. Penso che le industrie petrolifere pagheranno un prezzo eccezionale e che tutto ciò lascerà spazio alla conversione in energia rinnovabile? Si. Ci sono molti modi in cui questa improvvisa cessazione dei cicli di consumo produrrà risposte diverse al modo in cui noi, come si dice, riavvieremo il Paese. E se pensi alla pandemia come una specie di versione accelerata di questa enorme crisi del cambiamento climatico, le tesi che sostenevano che “non possiamo fermarci, è troppo costoso” saranno spazzate via. Penso che questo momento darà forza a coloro che hanno sostenuto che tutto ciò di cui abbiamo bisogno è la volontà di vivere in modo diverso per realizzare un vero cambiamento sociale, economico e politico.

Il mio libro continua a tornare a questo passaggio dai diari di Thoreau: “Vivi in ​​ogni stagione come essa trascorre; respira l’aria, bevi quello che c’è da bere, assapora la frutta e arrenditi alle influenze di ognuna di esse”. Per quanto tempo durerà, ci siamo rassegnati alla realtà dei sistemi viventi e alla vendetta del nostro pianeta. E forse stiamo anche raccogliendo i benefici di quel modo più riflessivo di essere a cui l’auto-isolamento induce.

Possiamo parlare davvero di vendetta della natura o, semplicemente, le siamo indifferenti?

Dobbiamo chiamarla vendetta. Il punto è che la nostra salute dipende dalla salute del mondo in cui viviamo. Separare la gestione della salute umana e la gestione della salute dell’ambiente è il picco della follia.

Nelle pagine finali de “Il sussurro degli alberi” si fa cenno più volte a una crisi imminente attraverso la quale la terra verrà rifatta da capo. Ti senti un po’ soddisfatto che la tua profezia si sia avverata così presto?

Nessuno vorrebbe mai aver ragione su una catastrofe. Sì, se guardi quelle pagine, c’è il concetto per cui i nostri sistemi alimentari, le nostre città, le nostre reti di trasporto, il nostro intero stile di vita costituiscono un insieme di sistemi fragili che non potrebbe sopravvivere alla rottura dei sistemi viventi da cui dipende. Questo non fa di me una Cassandra: guarda, alla fine della SARS-1, nel 2003, sono stati fatti molti sforzi e ricerche su ciò che era accaduto, e le conclusioni erano molto precise sul fatto che il vettore fossero pipistrelli il cui habitat era stato distrutto, motivo per cui i loro comportamenti erano cambiati. Sappiamo da molto tempo di non essere in grado di continuare la festa e di pagare il conto, alla fine. Non è una profezia. È qualcosa che è già accaduto.

A cosa stai lavorando?

Credo di essere a metà della bozza di un libro che indaga su cosa occorra per riportare gli esseri umani nella comunità degli ecosistemi. Dopo aver scritto un libro che esplora il nostro isolamento, voglio condividere ciò che comporta cambiare questa idea riguardo a cosa sia una vita piena di significato. E questo libro, come l’avevo pensato, raggiunge il suo climax con una catastrofe naturale causata da un agente virale. E quindi la conseguenza più grande del mio lavoro in questo momento è di dover tornare indietro e ripensare tutta la mia storia, ora che so cosa significhi realmente vivere dal vero qualcosa del genere.

Quanto avevi ragione su come sarebbero andate le cose?

Ciò che ho sbagliato a immaginare è stata la rapidità e la completezza della risposta umana. Ho pensato che la società nel suo insieme sarebbe stata molto più restia e molto più incapace di ammettere la realtà. È notevole. Considerando tutta la faziosità, l’offuscamento, le accuse di fake news e la negazione della scienza su cui si è basata così tanta parte della narrazione americana degli ultimi anni, sono contento che ci siamo svegliati quando si è trattato di una questione di vita o di morte. Sono sollevato di poter fare un passo indietro e dire: “Va bene, quando le cose si fanno serie siamo disposti a fidarci della scienza”.

E così vedo il mio libro cambiare profondamente. C’è un aneddoto su Proust alla fine della sua vita. Sai, Proust ha dettato tutto il suo lavoro alla sua domestica. E sul suo letto di morte ha convocato la sua cameriera e ha detto: “Puoi andare a prendere il manoscritto di “Alla ricerca del tempo perduto”? Voglio riscrivere la scena della morte di Bergotte, ora che so di cosa sto parlando.” Mi sento come se tutti noi che abbiamo scritto delle calamità a cui stiamo soccombendo adesso dovessimo evocare il manoscritto e dire: “Mi piacerebbe rifarlo, adesso che conosco un po’ di più ciò di cui sto scrivendo”.

alcune idee per personalizzare e-Wall

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“Questo soffitto viola non esiste più”, cantava Gino Paoli quando, in preda all’estasi amorosa, vedeva le pareti della sua camera – presumibilmente da letto – assumere le sembianze del desktop di Windows XP. Ma, citazioni pop a parte, i muri di casa propria non costituiscono solo una barriera metaforica. La tinteggiatura si scrosta e poi vincola sulla scelta dei mobili, la tappezzeria dopo un po’ annoia, quadri e stampe sono difficili da scegliere e allineare, per non parlare dei buchi e dello sbattimento di coprirli ogni volta con lo stucco. Per questo, quando la Tint-o-matic mi ha inviato una fornitura omaggio di E-Wall per la camera da letto, sono rimasto letteralmente a bocca aperta. Ma andiamo con ordine.

Che cos’è E-Wall
E-Wall è l’innovativa carta da parati intelligente che trasforma le pareti delle vostre stanze in superfici interconnesse totalmente gestibili tramite una comoda App dedicata. E-Wall si applica facilmente ed è perfetta per ogni metratura perché, fornita in rotoli di larghezza da un metro, non genera giunte tra le strisce incollate ai muri o, per lo meno, non si notano perché, una volta ricoperte completamente pareti e soffitto, si manifesta la magia.

Come funziona E-Wall
E-Wall è un dispositivo alimentato grazie alla luce proveniente dall’esterno, quindi è ecologico, a zero consumi (e quindi costi) e totalmente sostenibile. Una volta attivato, dall’App è possibile impostare su E-Wall tutto quello che vogliamo. Un colore, più colori, inserire un quadro o una foto virtuale, proiettare un video, suddividere l’intera superficie della stanza in più settori – corrispondenti o meno con la singola parete – e attribuire a ognuno di essi un comportamento diverso. La gamma dei colori è pressoché infinita, come le combinazioni di allestimento delle pareti. Oggi volete la stanza blu carta da zucchero e domani petrolio? Basta un click sulla palette della App e il gioco è fatto. Vi piace un quadro di Hopper? Con l’App di E-Wall potrete scaricare la foto dal web, incorniciarla virtualmente e visualizzarla dove vorrete senza nemmeno piantare una puntina da disegno. E se domani vi sarete stufati di Hopper, potrete cambiarlo con quello che preferite.

Il mondo a 360 gradi
L’esperienza immersiva consentita da E-Wall è assolutamente straordinaria. Immaginate di essere a letto e seguire sul soffitto il vostro film preferito, oppure impostare come tema sulle pareti un’isola caraibica o la meta delle vostre prossime vacanze. In momenti di reclusione forzata come questi, poi, le potenzialità di evasione permesse da E-Wall sono senza limiti.

Nessuna sovraesposizione al digitale
Ma la vera differenza tra E-Wall e qualunque altro schermo di ultima generazione è che E-Wall non è, appunto, uno schermo. La luminosità di E-Wall è regolata tramite un algoritmo che intercetta la luce naturale. Più un ambiente è luminoso, meglio vediamo le cose. Così i colori delle pareti rivestite con E-Wall risponderanno ai parametri di impostazione in pieno giorno mentre tenderanno alle tonalità scure al calar della sera. Di notte sarà tutto buio, e vi assicuro che l’effetto realistico è sorprendente.

Nessun cavo, nessuna presa, nessuna manutenzione
Il materiale di cui è composto E-Wall non si danneggia mai. La superficie è davvero intelligente: se una parete è parzialmente coperta da un armadio di grandi dimensioni, la parte di rivestimento non si attiva, limitando così l’assorbimento dei raggi di luce e concentrando l’energia solare sulle parti esposte. E-Wall e la sua App comunicano tramite Internet, ma una volta salvate le impostazioni non si verificherà più nessuno scambio di dati fino al ricollegamento successivo, quindi in caso di indisponibilità della rete E-Wall continuerà a funzionare. Ma il vantaggio vero è che potrete dire basta alle spese e alla fatica di tinteggiare le pareti. E-Wall sembra davvero essere eterno. Ringrazio Barbara Gersi, Responsabile marketing di Tint-o-matic Italia, per avermi fatto omaggio di una fornitura campione sufficiente per la camera da letto e per aver messo fine alle discussioni periodiche tra me e mia moglie su quale colore scegliere per le pareti, meglio tinteggiare o mettere la tappezzeria, perché non lo fai tu così risparmiamo sull’imbianchino e cose di questo genere.

non c’è gara

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Non solo partite di calcio a porte chiuse. L’Eurovision Song Contest si è tenuto in videoconferenza, allo stesso modo in cui mia figlia si sottopone alle interrogazioni di scienze magari senza l’equivalente del post-it con le formule appiccicato sullo schermo così la prof non nota nemmeno l’effetto lettura. Il fatto è che un anagramma di Eurovision è “Ivi suonerò”, per questo la delusione dell’evento targato quarantena è stata epica. Senza contare il fatto che davvero non ho ancora capito chi sia Diodato perché ero convinto si trattasse del noto musicista brasiliano autore del remake kitschissimo di “Così parlò Zarathustra” che è secondo solo alla Quinta di Beethoven in versione dance anni settanta. Poi però ho fatto due calcoli e, tenendo conto che siamo nel 2020, ho capito tutto. Analogo destino per l’appuntamento internazionale con “La parola più difficile”, quella baracconata da primi della classe in cui gente da tutto il mondo si riunisce per decidere chi la spara più grossa. Quest’anno il concorso è stato sospeso per ovvi motivi di veridicità: con il computer acceso – e noi insegnanti lo sappiamo bene – son tutti Einstein. Peccato perché l’Internet, oltre a far prendere dieci a tutti, è utile anche per togliersi le curiosità più bizzarre. Ero convinto che l’edizione del 78 de “La parola più difficile” l’avesse vinta un concorrente italiano con il termine medico-scientifico “interlocutaneo”. Ma mentre lo scrivevo per riportarlo in questo futile flusso di coscienza, il programma che uso per comporre gli articoli me lo ha sottolineato in rosso. Così ho googlato interlocutaneo (anche googlato me lo indica come errore, ma questo è un altro discorso) e ho scoperto che è una parola che non esiste. Forse me la sono sognata. O forse sto vivendo un’esperienza come quel film in cui quel tizio si sveglia e i Beatles non sono mai esistiti, quindi si mette a riscrivere tutte le loro canzoni e diventa miliardario. Questo per dire che in una realtà parallela da dove provengo c’è gente molto colta che utilizza correntemente l’aggettivo “interlocutaneo” e, avendo riportato quello che sembra essere un neologismo qui, a partire da questo momento passerò alla storia per aver introdotto nel vocabolario italiano un termine perfetto per indicare una qualità. Devo solo pensare a quale.